LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1914

NOVEMBRE 1914 - INTERVENTISMO - I FASCI - MUSSOLINI

prima parte: PROGRESSI DELL' INTERVENTISMO - ASSEMBLEE ED ORDINI DEL GIORNO - IL CONGRESSO NAZIONALE DEI FASCI INTERVENTISTI - IL DISCORSO DI MUSSOLINI - LA CONFEDERAZIONE GENERALE DEL LAVORO E I SOCIALISTI UFFICIALI - L'ATTEGGIAMENTO DEI CATTOLICI - IL TERREMOTO DELLA MARSICA - DIMOSTRAZIONI E CONFLITTI - DIVIETO GOVERNATIVO DEI COMIZI - PROTESTA DEL "POPOLO D'ITALIA" - LE IMPRESE DELLA LEGIONE GARIBALDINA NELLE ARGONNE

seconda parte: ITALIA: LA NEUTRALITÁ - PATTO DI LONDRA

BEPPINO GARIBALDI AL FASCIO INTERVENTISTA DI MILANO - COLLOQUIO SALANDRA-GIOLITTI - IL DISCORSO DI GAETA - LA LEGGE SULLA DIFESA ECONOMICA E MILITARE DELLO STATO - II CONGRESSO DELLA "TRENTO-TRIESTE" - IL GENERALE PORRO NOMINATO SOTTOCAPO DELLO STATO MAGGIORE - SEGNI D'INTERVENTO - IL GENERALE PAU IN ITALIA - LE GIORNATA DELL' 11 APRILE - I MANIFESTI DEI FASCI DI AZIONE RIVOLUZIONARIA - UN ARTICOLO DEL "POPOLO D' ITALIA" SULLA DISCIPLINA NAZIONALE - GLI INTERVENTISTI RIVOLUZIONARI E LA MONARCHIA - UN CONVEGNO DEI PARTITI INTERVENTISTI MILANESI - L'AGITAZIONE DEGLI STUDENTI - I NEGOZIATI FRA L'ITALIA E L'AUSTRIA-UNGHERIA - LE RICHIESTE ITALIANE E TERGIVERSAZIONI DI VIENNA - IL GOVERNO ITALIANO TRATTA CON L' INTESA - NUOVE PROPOSTE DEL BULOW E DEL BURIAN; LE CONTROPROPOSTE ITALIANE - PROPOSTA AUSTRIACA PER LA CESSIONE DEL TRENTINO - TRATTATO DI LONDRA - IL GOVERNO ITALIANO DENUNCIA IL TRATTATO D'ALLEANZA DELL' ITALIA CON L'AUSTRIA-UNGHERIA -


terza parte:
D'ANNUNZIO - LE CONCESSIONI AUSTRIACHE

LA SAGRA DI QUARTO - IL TELEGRAMMA DEL RE E L'ORAZIONE DI GABRIELE D'ANNUNZIO - L'AZIONE DELLA STAMPA ITALIANA - L'ON. GIOLITTI RICEVUTO DAL RE - SECONDO COLLOQUIO SALANDRA-GIOLITTI - NUOVE CONCESSIONI AUSTRIACHE - LE DIMOSTRAZIONI INTERVENTISTE DELL' 11 MAGGIO - L'ON. GIOLITTI CHIAMATO "NEMICO DELLA PATRIA" - LA LETTERA AL MALAGODI - D'ANNUNZIO A ROMA; IL SUO DISCORSO AI ROMANI - DIMISSIONI DEL GABINETTO SALANDRA

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PROGRESSI DELL'INTERVENTISMO

La parte interventista del Paese progrediva intanto sempre più. Il 15 novembre si riunivano a Milano i rappresentanti delle associazioni radicali, democratiche e massoniche della Lombardia e deliberavano la seguente mozione formulata dall'avvocato RICCARDO LUZZATTO:

"L'assemblea, persuasa che qualunque sia l'esito dell'attuale conflitto fra le Nazioni, non solo per il raggiungimento dell'idealità che fu costante aspirazione d'ogni patriota, e per impedire che sia turbato a tutto suo danno l'equilibrio europeo e compromesso il suo avvenire, ma pur anche per un'efficace difesa di quei supremi principi d'umanità e di nazionalità in nome dei quali la nostra patria è risorta a dignità di nazione, occorre che all'Italia sia senz'altro assicurato quel nuovo assetto sulle alpi e sull'Adriatico, quale ha diritto per ragioni etniche e di sicurezza territoriale e per difesa dei suoi interessi morali ed economici; invita i cittadini a manifestare la loro decisa volontà a che il governo provveda perché si raggiungano tali scopi".

Quello stesso giorno veniva nominato un comitato, in seno all'assemblea, affinché raccogliesse le adesioni degli interventisti degli altri partiti e sostenesse apertamente la partecipazione dell'Italia alla guerra.

Il 20 dicembre si costituiva a Milano, per opera dell'ing. ODOARDO DE MARCHI, degli avvocati ALBASINI-SCROSATI, BARZILAI, BERTRAND-BELTRAMELLI, BIANCHINI e ACETI e del pubblicista OTTONE BRENTARI, una Lega Nazionale che si prefiggeva di riunire gli sforzi dei radicali, dei democratici costituzionali e dei riformisti e di accordarsi con gli altri partiti interventisti per influire sul Governo e sull'opinione pubblica.

Dieci giorni dopo i radicali lombardi pubblicavano il seguente manifesto, che portava fra le altre le firme di RICCARDO LUZZATTO, dei senatori MANGIAGALLI e DE CRISTOFORIS e dell'on. GASPAROTTO:
"La guerra che si è scatenata in Europa nelle sue possibili conseguenze reca, non solo il definitivo tramonto delle speranze italiche, ma grave e forse insanabile offesa a quel principio di nazionalità per cui l'Italia poté risorgere a Nazione, ma ora minaccia la sua stessa esistenza. Non vi può essere sicurezza di esistenza se il principio informativo dell'esistenza è distrutto. Nessuno oserebbe dire che l'Italia debba assistere inerte di fronte a lotta che può produrre simili risultati. Nessuno oserebbe dire che vi assista inerte il Governo italiano. Nessuno oserebbe dire che non spetti al Governo il decidere dell'azione da esplicare e del tempo e del modo dell'esplicazione. Ma nessuno oserà negare che nel mondo moderno l'efficacia dell'azione di un Governo si misuri dal consentire della Nazione. Ogni Governo per poter agire efficacemente ha bisogno di dar prova che esso è l'esponente di una in flessibile volontà nazionale. È necessario dunque che la nazione in presenza dell'attuale conflitto europeo manifesti l'inflessibile volontà di vedere senz'altro assicurato quel nuovo assetto sulle Alpi e nell'Adriatico al quale
ha diritto per ragioni nazionali. E' necessario che dica come essa non possa essere arrestata dalla preoccupazione che per raggiungere lo scopo occorrano sacrifici, perché sa che, esitando al sacrificio momentaneo voterebbe il sacrificio definitivo di se stessa e nel campo economico e nel campo politico. Era naturale che nella Lombardia, ove la visione della necessità dell'ora presente è unita alle memorie del passato, prima che altrove sorgesse un Comitato che ispirandosi ai su esposti concetti si preoccupi dell'azione dell'Italia nelle presenti contingenze, ed il Comitato, sorto per iniziativa e voto di un buon numero di cittadini, dichiara di accingersi ad un'intensa opera di propaganda".

IL CONGRESSO NAZIONALE DEI FASCI INTERVENTISTI
IL DISCORSO DI MUSSOLINI
LA CONFEDERAZIONE GENERALE DEL LAVORO E I SOCIALISTI

In quasi tutte le città d'Italia si andavano costituendo fasci interventisti, che il 23 gennaio tennero a Milano un congresso nazionale.
(di questa ADUNATA, abbiamo l'intervento oratorio di MUSSOLINI. poi scriverà due articoli il 24 gennaio ("l'Adunata"), e il 28 gennaio ("Dopo l'Adunata") sul Popolo d'Italia)

Erano presenti, oltre i delegati milanesi, quelli dei "Fasci d'azione rivoluzionaria" di Bologna, Genova, Verona, Venezia, Alessandria, Forlì, Palermo, Garlasco, Sestri Ponente, Parma, Lodi, Firenze, Pavia, Piacenza, Urbino, Catania, Roma, Novara, Ravenna, Mantova, Ferrara, Torino, Perugia., Monza, Gallarate, Chiaravalle, Vigevano, Treviso, Montagnana, Carpi, Lugo, Pistoia, Lucca, Pesaro e di molte altre città ancora.
All'ufficio di presidenza, furono chiamati l'avvocato OLIVETTI, l'internazionalista francese ANTONIETTA SORGUE e l'anarchica MARIA, RIGIER, che, salutati gl'intervenuti, si augurò che i sovversivi avrebbero saputo compiere in questo storico momento il loro dovere contro gl'Imperi Centrali per il trionfo della giustizia. La SORGUE, in nome del proletariato francese, esortò gli operai italiani a scendere in campo a fianco dell'Intesa contro la barbarie e si scagliò con violenza contro i dirigenti del socialismo italiano.
Parlarono OLIVETTI, MICHELE BIANCHI, segretario del Comitato Centrale, e vari delegati; VIDALI fece la relazione dell'opera del Comitato Centrale; BIANCHI lesse l'adesione di due gruppi di sedicenti soldati del 61° e 62° fanteria, destando l'acclamazione dei presenti, che si sgolarono a gridare "Abbasso l'Austria ! Viva la guerra!"

La comparsa di BENITO MUSSOLINI, anima del congresso, provocò nuove e più grandi acclamazioni, che si rinnovarono più fragorose alla fine del suo discorso.

"Sono superbo - egli disse - di assistere a questo Congresso, che rappresenta, nei sei mesi di neutralità mercantile sotto la bandiera monarchico-socialista-papalina, un fatto nuovo e molto significante".

Dopo un esame delle condizioni di guerra e di quelle politiche e diplomatiche delle Potenze belligeranti, MUSSOLINI accennò al contegno di Giolitti e alla posizione dell'Italia e aggiunse:

"Noi ci troviamo di fronte a quattro probabilità: non è ancora scartata la possibilità di un'azione a fianco degli Imperi centrali: la neutralità assoluta, e quindi il tentativo di rovesciare il Gabinetto Salandra; con un avvento al potere di Giovanni Giolitti e con a fianco i socialisti, i quali, naturalmente, pur di evitare la guerra porteranno volentieri la croce .... del potere. Ma Salandra può intuire il gioco che gli si tende ed ecco la terza probabilità: per consolidarsi il capo del Governo potrebbe mobilitare e limitarsi ad una guerra diplomatica spalleggiato dalla Germania. C'è infine la nostra tesi: guerra, all'Austria, ed alla Germania.
Bisogna però trovare il pretesto e si può trovarlo. Questo Congresso deve tassativamente domandare l'immediata denuncia del Trattato della Triplice alleanza ! Forse questo potrebbe costituire il motivo di guerra. Per noi il casus belli, ed è altamente umano, ci fu all'inizio della guerra, quando fu violato e devastato il Belgio. Ma ora conviene deciderci: o la guerra o scomparire dal ruolo delle grandi Potenze".


L'oratore concluse dicendo che i Fasci dovevano creare lo stato d'animo e preparare le armi di cui disponevano: "Si sappia e si senta questo: l'ambiente e l'ingranaggio sono vecchi le forze sono nuove ed ardenti. Attenti, o governanti; le forze nuove possono infrangere e spezzare le vecchie".
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Il giorno dopo, su il Popolo d'Italia riportando la cronaca del congresso interventista, BENITO MUSSOLINI scriveva:
"Adunata di uomini che sentono, che vogliono. La prima adunata senza congiure di politicanti, senza bassezze di politicantismo, senza tenori e senza buffoni. Il sorversivismo riabilitato in un purificante bagno di idealismo, in una collettiva volontà d'azione. Voci da tutta Italia, dalla Lombardia fremente di opere, dalla Venezia odiante, dalla Liguria nervosa, dalla Romagna ribelle, dalla Toscana acre, da Roma, da Palermo, da Napoli, dalla Sardegna brulla che vuol essere violenta, dalla Sicilia che vuole ripetuta Marsala sull'Adriatico, da Trieste dolorante, aspettante.
E tutti hanno ripetuto: facciamo qui o andiamo alle Argonne. E faremo ! Vi è una forza, ora, in Italia, che reagisce contro la viltà, che si rivolta contro i "sacri egoismi" della pancia e della greppia. Sì, irridete, o zoccolanti, a chi muore nelle Argonne; i loro compagni si preparano a morire e a "giustiziare qui". I fatti generano le idee: dai fatti balzano gli uomini. Il Fascio è il fatto. L'Adunata, continua la tradizione, da quella del giuramento di Pontida, atttraverso a "Roma o Morte", al grido odierno "Guerra o Rivoluzione!"

Il Congresso approvò per acclamazione il seguente ordine del giorno proposto da Mussolini: "L'adunata nazionale dei Fasci reclama dal Governo l'immediata, pubblica e solenne denuncia del Trattato della Triplice come inizio dell'azione autonoma dell'Italia nel conflitto internazionale".

Un altro ordine del giorno interventista votava all'unanimità il 24 gennaio il partito radicale:
"La Direzione del Partito Radicale Italiano, più che mai persuasa nella presente situazione politica, che la partecipazione dell'Italia al conflitto europeo sia indispensabile per il soddisfacimento delle sue aspirazioni e per la tutela dei suoi interessi, riafferma che in quest'ora, il partito, così nel Paese come nel Parlamento, debba subordinare ogni azione di parte all'esclusivo conseguimento delle supreme finalità nazionali".

A questi ordini del giorno di partiti politici si aggiungeva la voce di MARINETTI che in un manifesto futurista esaltava la guerra "come unica ispirazione dell'arte, unica morale purificatrice, unico lievito della pasta umana" e rivolgendosi agli studenti, diceva: "Oggi più che mai la parola "Italia" deve dominare sulla parola "Libertà". Tutte le libertà, eccettuata quella di essere pacifisti, neutralisti. Tutti i progressi nel cerchio della Nazione. Cancelliamo la gloria romana con una gloria italiana più grande. Combattiamo dunque la cultura germanica, non già per difendere la cultura latina, ma combattiamo tutte e due queste culture ugualmente nocive, per difendere il genio creatore italiano d'oggi .... Abbasso le discussioni ! Tutti d'accordo e in massa contro l'Austria ! La nostra grande guerra igienica non è nelle mani di Salandra, ma nelle vostre. Vogliatela e la faremo ! Cominciate con lo scopare fuori dalle università i vecchi bidelli tedescofili (De Lollis, Barzellotti, Benedetto Croce ecc.) che abbiamo fischiato insieme!".

I neutralisti-pacifisti naturalmente non mancavano. La Confederazione Generale del Lavoro, il 20 gennaio votava il seguente ordine del giorno
"Il Comitato centrale della Confederazione riconferma, il suo punto di vista contro l'intervento dell'Italia nel conflitto attuale, impegna ed invita le organizzazioni aderenti a fare attiva propaganda per far prevalere nell'opinione pubblica la tesi della neutralità".

Due giorni prima la direzione del Partito Socialista ufficiale e il comitato direttivo del Gruppo socialista parlamentare, riuniti a Firenze approvavano un ordine del giorno TURATI-BACCI in cui fra l'altro era detto:
"Il convegno intende dichiarare subito che la borghesia non potrà esonerarsi dalle tremende responsabilità politiche e storiche cui una mobilitazione non necessaria la esporrebbe, sia di fronte all'immediata incoercibile esplosione dell'esasperazione popolare, sia di fronte alle maggiori conseguenze di miseria e di ribellione organizzata che ne scaturirebbe in avvenire; onde il partito socialista deve sentirsi indotto sia a rafforzare sempre più l'organizzazione proletaria, sia a possibilitare le intese internazionali, sia infine ad organizzare nel proletariato una vasta e intensa propaganda di luce sui grandi problemi e compiti internazionali, economici e politici; dei quali si intesse oggi principalmente la novella istoria: compiti e problemi la cui ignoranza e trascuranza fra i maggiori interessati consente ancora alle classi dirigenti di accaparrare la complicità passiva dei lavoratori alle loro imprese di rapina e di sopraffazione internazionale; riconferma sostanzialmente, pure nel vario e successivo atteggiare degli avvenimenti, tutti i precedenti deliberati della Direzione e del Gruppo; e, costatato come, nel relativo equilibrio delle volontà e degli interessi esistenti oggi in Italia nella questione della neutralità e dell'intervento, la volontà seriamente affermata del proletariato militante possa avere un'influenza decisiva donde la eccezionale responsabilità del proletariato e del partito socialista; delibera che la continua propaganda del pensiero socialista in favore della neutralità abbia a culminare in una manifestazione nazionale effettuata con comizi in tutta Italia per domenica 21 febbraio 1915, in occasione della riapertura del Parlamento, ai quali tutti i deputati debbono impegnarsi di partecipare".

L'ATTEGGIAMENTO DEI CATTOLICI

Anche i cattolici, in genere erano neutralisti, ma il Partito Cattolico Italiano sentì il bisogno di chiarire la propria condotta e lo fece per bocca del Conte DELLA TORRE a Roma, il 5 gennaio, in un discorso fatto al Circolo Universitario Cattolico. "Se i cattolici - disse Della Torre - sono apertamente favorevoli alla neutralità, non è lecito, senza mentire, affermare che essi non lo sono per interesse patrio; giacché per essi l'amor di patria è sacro, ed è dovere religioso la fedeltà ad ogni costo. Il nostro dovere, in quest'ora suprema, è quel medesimo che con entusiasmo commovente hanno apprezzato i nostri fratelli di fede di tutte le nazioni in guerra, sulle quali è scesa egualmente paterna la benedizione del Santo Padre".

DELLA TORRE però affermava che la neutralità dei cattolici non si poteva confondere con quella del Pontefice e non poteva essere "...che condizionata alla inviolabilità di quei diritti, di quelle aspirazioni, di quegli interessi che costituiscono il patrimonio non soltanto materiale della Nazione, ma sono la vita della sua vita, la speranza di tutto il suo avvenire;... che condizionata nell'integrità di quelle supreme ragioni di giustizia, in ordine al diritto della nostra esistenza e del nostro sviluppo nel mondo, per cui se vilipeso e conculcato, nella legge cristiana della civiltà, eguale per tutti i popoli, è ammessa e accettata la necessità dolorosa della guerra".

E concludeva: "Noi vogliamo la neutralità condizionata, non già assoluta, e quindi crediamo che il giorno in cui il Governo del nostro Paese non dovrà ricorrere a un pretesto per scendere in campo, il popolo comprenderà che è giunta l'ora del sacrificio e lo affronterà per la Patria con l'invincibile entusiasmo della sua fede .... La neutralità condizionata, la necessità dell'intervento non appena gli interessi e le aspirazioni d'Italia positivamente lo reclamino, per noi rappresentano tutto questo: la conquista cioè di una maggiore potenza all'estero, e di un civile progresso all'interno nella coscienza pubblica; due scopi che non possono essere disgiunti mai in una moderna impresa senza che la loro bontà ed efficacia non vadano fallite".

Tutte queste belle parole, per dire insomma che con l'entusiasmo della fede era "ammessa e accettata la necessità dolorosa della guerra" considerata come inevitabile punizione divina contro le degenarazioni del mondo moderno; ma erano anche favorevoli al neutralismo dato che guardavano con simpatia alla cattolica Austria in pericolo, allo storico baluardo di una concezione gerarchica autoritaria dello stato e della società.

IL TERREMOTO DELLA MARSICA

Mentre duravano le polemiche della stampa, e si succedevano gli uni agli altri gli ordini del giorno dei neutralisti e degli interventisti, una grave sciagura funestava il Paese: il 13 gennaio del 1915 un violentissimo terremoto devastava la Marsica, danneggiando oltre 300 comuni e ripercuotendosi nel Lazio, nell'Abruzzo, e nella Campania. Sora fu quasi distrutta, ad Avezzano degli 11.000 abitanti poco più di 300 si salvarono. Altre scosse seguirono la prima ad intervalli di qualche mese l'una dall'altra e ad accrescere i danni si aggiunsero inondazioni, nubifragi e frane.

Riapertasi la Camera il 18 febbraio, il presidente MARCORA commemorò i 25.000 morti della Marsica, notando che gli Italiani, ascoltando la voce del Governo, non avevano desiderato "che aiuti venissero da altri che non fossero fratelli nostri. E ciò non per sentimento di orgoglio .... ma per sano intuito del momento che tutto il mondo attraversava". Dopo la commemorazione dell'on. Marcora, prese la parola l'on. SALANDRA, che fra l'altro disse:

"Al triste annuncio ha risposto lo slancio della carità di tutta Italia e copiosi sono venuti i soccorsi nelle forme più varie. La capitale del Regno, pari al suo nome e al suo ufficio altissimo, ha con ammirabile sentimento di fraternità italiana accolto feriti e profughi a migliaia. Il Governo ha provveduto con quanta maggiore larghezza ha potuto ai primi bisogni con decreti di urgenza, di cui vi domando l'approvazione e il cui esame chiedo sia deferito ad una Commissione da nominarsi dal presidente della Camera. Ulteriori provvedimenti dovranno senza dubbio essere studiati per instaurare al più presto, nei paesi distrutti e danneggiati, la vita e l'operosità civile .... Con animo commosso, ma non abbattuto né depresso, noi compiangiamo, onorevoli colleghi, i nostri morti e provvediamo ai superstiti. Ma soprattutto, fortificati dal dolore, manteniamo salda e invitta la fede nei destini della Patria, della Patria immortale che oggi più che mai richiede in noi la persuasione profonda che le sue sorti non si chiudono nell'augusta cerchia degli interessi presenti e della vita stessa di una generazione, ma comprendono anche coloro che furono e coloro che saranno, tutte le nostre memorie e le nostre glorie del passato, tutte le nostre speranze e i nostri ideali per l'avvenire".

DIMOSTRAZIONI E CONFLITTI DIVIETO GOVERNATIVO DEI COMIZI
PROTESTA DEL "POPOLO D' ITALIA"


Il terremoto della Marsica non distrasse gran che l'attenzione pubblica dalle questioni capitali dell'ora: neutralità o intervento. Continuarono le polemiche giornalistiche, i voti dei partiti, gli adescamenti dei governi e dei giornali delle nazioni belligeranti, le conferenze e i comizi che sovente degeneravano in tumulti, in baruffe tra forza pubblica e dimostranti, tra neutralisti e interventisti, in tentativi di quest'ultimi contro i consolati austro-ungarici.

Il 17 gennaio del 1915 a Genova, dopo una clamorosa conferenza tenuta nell'Università Popolare, gl'interventisti fecero una violenta dimostrazione davanti i consolati degli imperi centrali; tafferugli ebbero luogo nei successivi giorni a Pisa, Padova, Milano, Parma, e a Milano, la sera del 25 febbraio, dopo un comizio interventista al Teatro Lirico in cui parlarono BISSOLATI, BERTRAND-BELTRAMELLI, TROTTI-MOSTI, INNOCENZO CAPPA, GIOVANNI BORELLI; avvennero colluttazioni tra interventisti e anarchici e socialisti con contusi e feriti; a Reggio Emilia, quella sera stessa del 25, per una conferenza interventista, di CESARE BATTISTI al teatro Ariosto, vennero a conflitto fautori della neutralità e della guerra, durante il quale vi furono un morto e cinque feriti tra i tumultuanti e parecchie guardie e carabinieri feriti e contusi.

I fatti di Reggio indussero il Governo a vietare le riunioni pericolose per l'ordine pubblico, divieto che fu reso noto per mezzo della Stefani e la rese nota SALANDRA nella seduta parlamentare del 26 febbraio:

"Di fronte - egli disse - ad avvenimenti che tutto lascia temere si abbiano a ripetere data l'eccitazione degli animi che cresce in ragione diretta della gravità degli avvenimenti medesimi, il Governo ha preso la risoluzione d'invitare l'autorità di P. S. e i prefetti a dare una più rigorosa interpretazione alla legge, a non consentire cioè né comizi né riunioni così dette private, le quali ultime di fatto diventano poi pubbliche perché vi si accede con tessere distribuite a chi ne fa richiesta, salvo garanzia dei promotori, a non consentire dunque queste riunioni in nessun caso, quando le autorità stesse e i prefetti ritengono che possano derivarne perturbamenti all'ordine pubblico. Il prefetto, in sostanza, potrà, anzi dovrà, secondo mio concetto, proibire ogni comizio privato o altra manifestazione che contenga un pericolo per l'ordine pubblico. Questa la deliberazione, presa dal Consiglio dei Ministri di pieno accordo e pubblicata perché tutti la conoscano, senza nessuna reticenza e nessun'altra interpretazione sottintesa.
Io confido che la Camera voglia approvare questa determinazione, ispirata al solo concetto di evitare che l'antico e funesto fermento della guerra civile che avvelena ancora con i suoi residui l'anima italiana non si propaghi in questo momento".

L'on. SALANDRA chiuse le sue dichiarazioni con parole che provocarono una grande dimostrazione cui soltanto i socialisti ufficiali non parteciparono:
"So che il giorno del pericolo, - disse - il giorno dell'appello, la Nazione marcerà unanime all'ordine della Patria e del Re".

Il provvedimento proibitivo del Governo provocò le proteste alla Camera, del TURATI e le acerbe critiche di MUSSOLINI sul Popolo d' Italia, dove il 28 febbraio il bollente interventista scriveva:

"Noi, fascisti, da appena un mese avevamo conquistato, affrontando il misoneismo, le scassate e le ingiurie delle folle, la possibilità di diffondere le idee interventiste, ed ecco venire un decreto che ci toglie tale possibilità, che ci costringe al silenzio. Noi abbiamo dunque il diritto e il dovere di protestare contro l'"ukase" liberticida. Il quale, d'altronde, non gioverà affatto a realizzare la famosa "concordia nazionale". Se divisioni esistono nel Paese, esse permangono, ci siano o no i comizi. I comizi potevano, anzi, dare modo a noi di illuminare le masse e ritrarle dall'errore funesto in cui sono mantenute da socialisti e da preti .... Le ragioni addotte dall'on. Salandra per giustificare la sua precipitosa misura non reggono.

I "fermenti della guerra civile" non si sopprimono con il vietare i comizi .... Il maggiore, se non l'unico responsabile di questi fermenti di guerra civile serpeggiante nell'organismo nazionale è il governo dell'on. Salandra. L'inquietudine, il disagio, l'esasperazione diffusasi ovunque sono il risultato di una politica di cui non si scorgono ancora le grandi linee direttive. L'on. Salandra vi ha gettato di quando in quando delle vuote frasi più o meno indovinate, ma queste non bastano a tranquillizzare il Paese. La neutralità dell'on. Salandra è "vigile e armata" ma è soprattutto "triplicista", legata quindi agli Imperi centrali. Il Paese ha atteso durante questi lunghi mesi con gesto di fierezza e di autonomia nella nostra politica estera e si è trovato dinanzi un Governo sempre incerto, che buttava là delle frasi a doppio e a triplo senso che accontentavano tutti e nessuno. Qui, e non altrove, sono i germi della "guerra civile". E la guerra civile scoppierà inevitabile e travolgente, malgrado il divieto dei comizi, se questa neutralità nasconderà nelle sue mene troppo lunghe il mercato o il tradimento".

Nonostante il divieto dei comizi, le agitazioni degli interventisti e dei neutralisti continuarono, avendo sulle piazze il sopravvento i primi, sebbene meno numerosi, che, guidati da capi risoluti ed energici come BENITO MUSSOLINI e FILIPPO CORRIDONI, con azione tenace e continua andavano imponendo alla Nazione la propria volontà.


LE IMPRESE DELLA LEGIONE GARIBALDI NELLE ARGONNE

I fasci interventisti mentre lavoravano assiduamente a richiamare l'Italia alla coscienza nazionale- e si sforzavano di spingere il paese a scendere in lotta a fianco dell'Intesa, si addestravano quasi giornalmente alla milizia per esser preparati quando immancabilmente l'Italia fosse intervenuta nella guerra
Ma già i più impazienti erano corsi alle armi ed avevano arrossato di sangue italiano le terre di Serbia e di Francia.
Qui, per opera di PEPPINO GARIBALDI e dei suoi cinque fratelli, si era. costituito nell'autunno del 1914 un corpo di volontari italiani col nome di "4° reggimento di marcia del 1° straniero" vestiti dell'uniforme di legionari che copriva la camicia rossa. I garibaldini, cinquemila circa, ebbero una sommaria istruzione a Montelimar, a Nimes, e a Mòntboucher, poi si trasferirono al campo di Mailly, dove l'11 novembre andò a comandarli Peppino Garibaldi che aveva avuto dal governo francese il grado di tenente colonnello.
Nella seconda quindicina di dicembre i garibaldini furono mandati nelle Argonne, vicino a truppe coloniali, e furono impiegati con molta generosità, in imprese arrischiate, in assalti alla baionetta, a cui questi volontari si lanciavano con entusiasmo facendo prodigi di valore. Fu tanta la bravura dimostrata da questi italiani al fronte delle Argonne che un prigioniero tedesco ebbe a dire a un gruppo di ufficiali francesi: "Ci vogliono gl'italiani; voi non sareste capaci di prenderci così".

La legione garibaldina ebbe il battesimo del fuoco alla Belle Etoile, il 26 dicembre, in un combattimento accanitissimo iniziato al suono della fanfara. Le posizioni nemiche furono conquistate con coraggiosi attacchi alla baionetta, ma purtroppo quell'azione costò agli italiani molte perdite. Fra i morti ci fu Bruno Garibaldi; caduto mentre guidava i suoi all'assalto sotto un fuoco infernale di mitragliatrici.
La salma di Bruno, inviata in Italia, giunse in Roma la mattina del 6 gennaio 1915, accompagnata da Ezio e Sante Garibaldi, si svolsero i funerali commoventi. Al cimitero, una scena indimenticabile: Ricciotti Garibaldi, dopo avere baciato il figlio morto, disse " Bruno !... mentre tua madre ti da l'ultimo bacio, io, anche a nome di tuo nonno, ti dico Bravo, hai fatto il tuo dovere ! Un altro tuo fratello, fra breve, verrà a raggiungerti. Sia di conforto in quest'ora di dolore il pensiero che l'Italia vi vendicherà".
L'altro fratello era Costante Garibaldi, caduto 9 giorni dopo Bruno, il 3 gennaio a Courte-Chausse in un'azione sanguinosa in cui i garibaldini si batterono eroicamente, destando l'ammirazione dei soldati francesi. Mentre la salma di Bruno si avviava all'estremo riposo, quella di Costante veniva deposta provvisoriamente nel cimitero di La Claon, donde il giorno 7 doveva essere trasportata a Sainte-Illenehould e di là in Italia.

L'8 gennaio un terzo, durissimo combattimento fu ingaggiato dalla legione garibaldina. I tedeschi avevano sfondato un tratto di fronte presso la Maison Forestière, mettendo in fuga i Francesi che lo presidiavano. A riconquistare le posizioni perdute corsero i garibaldini che, attaccato il nemico dieci volte più numeroso, lo ricacciarono con audacia, inseguendolo per oltre un chilometro con le baionette alle reni.
Il 28 gennaio, a La Grange le Comte, il generale SERRAIL decorò i più meritevoli della legione. PEPPINO GARIBALDI si ebbe la Legione d'onore. Gli altri decorati furono il maggiore CAMILLO LONGO, RICCIOTTI GARIBALDI, il capitano CAPPABIANCA, il capitano EVANGELISTI, il capitano ANGELOZZI, i tenenti BOUSQUET, MARABINI e OGGERO, i sottotenenti ZAMBINI e THOMAS, il maresciallo FURRI, il furiere CASCARINI, il caporale MADDARD e il soldato GARDA.

I garibaldini avrebbero voluto partecipare ad altri combattimenti; ma le perdite loro erano state gravi: circa 300 morti e 400 feriti: per di più mezzo migliaio di volontari erano ammalati e in queste condizioni la legione non poteva essere impiegata. Improvvisamente il 6 marzo la "Legione Garibaldina" fu sciolta e quattro giorni dopo il Governo francese diede spiegazioni del provvedimento con il seguente comunicato: "Avendo il Governo italiano chiamato alcune classi di riserva sotto le armi, il ministro della Guerra francese ha deciso di ridare la loro libertà ai volontari italiani del 4° reggimento.E' stato quindi ricondotto al deposito di Avignone per facilitare le operazioni a cui darà luogo lo scioglimento degli impegni assunti da quei volontari.
Formato dal tenente colonnello Garibaldi, il 4° reggimento straniero di marcia ha preso parte attiva alle operazioni che si stanno tuttora svolgendo nelle Argonne e vi ha tenuto un contegno brillante scrivendo un nuova pagina gloriosa nella storia della Legione straniera".

Nello stesso giorno (6 marzo 1915), mentre Peppino Garibaldi e i suoi fratelli si mettevano a disposizione degli interventisti italiani per dare il loro contributo, a Roma si prendeva la grande decisione se intervenire o no alla guerra; ma contro chi?… nessuno ancora lo sapeva.

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ITALIA: LA NEUTRALITÁ - PATTO DI LONDRA

BEPPINO GARIBALDI AL FASCIO INTERVENTISTA DI MILANO - COLLOQUIO SALANDRA-GIOLITTI - IL DISCORSO DI GAETA - LA LEGGE SULLA DIFESA ECONOMICA E MILITARE DELLO STATO - II CONGRESSO DELLA "TRENTO-TRIESTE" - IL GENERALE PORRO NOMINATO SOTTOCAPO DELLO STATO MAGGIORE - SEGNI D'INTERVENTO - IL GENERALE PAU IN ITALIA - LE GIORNATA DELL' 11 APRILE - I MANIFESTI DEI FASCI DI AZIONE RIVOLUZIONARIA - UN ARTICOLO DEL "POPOLO D' ITALIA" SULLA DISCIPLINA NAZIONALE - GLI INTERVENTISTI RIVOLUZIONARI E LA MONARCHIA - UN CONVEGNO DEI PARTITI INTERVENTISTI MILANESI - L'AGITAZIONE DEGLI STUDENTI - I NEGOZIATI FRA L'ITALIA E L'AUSTRIA-UNGHERIA - LE RICHIESTE ITALIANE E TERGIVERSAZIONI DI VIENNA - IL GOVERNO ITALIANO TRATTA CON L' INTESA - NUOVE PROPOSTE DEL BULOW E DEL BURIAN; LE CONTROPROPOSTE ITALIANE - PROPOSTA AUSTRIACA PER LA CESSIONE DEL TRENTINO - TRATTATO DI LONDRA - IL GOVERNO ITALIANO DENUNCIA IL TRATTATO D'ALLEANZA DELL' ITALIA CON L'AUSTRIA-UNGHERIA -

 

COLLOQUIO SALANDRA-GIOLITTI
IL DISCORSO DI GAETA - IL CONGRESSO DELLA "TRENTO-TRIESTE"

Nonostante i divieti di organizzare comizi, le agitazioni sia degli interventisti sia dei neutralisti continuarono. Ma i primi, sebbene meno numerosi, dominavano la piazza e la scena politica con i loro capi, risoluti ed energici, fra i quali il più attivo di tutti era BENITO MUSSOLINI, che con clamorose azioni, discorsi, articoli, stava imponendo la propria volontà.
Come mezzo di propaganda, oltre i suoi ardenti comizi, c'era il suo "Popolo d'Italia", che spopolava non solo di lettori ma anche di sottoscrittori; in prima fila i grandi industriali, i liberali di destra, gli antisocialisti, gli interventisti.
Il 10 febbraio 1915, sul N. 41, Mussolini così ne parlava:

"Agli amici" - Poche parole e chiare, agli amici, ai simpatizzanti, ai lettori. E per una volta tanto. L'unica. Chiedo, ma non intendo di andare in giro col cappello. Chiedo oggi, dopo tre mesi. Non l'avrei fatto, non l'ho fatto dopo tre giorni di vita del giornale. Ai quindici di novembre il giornale era una speranza o una promessa. Bisogna credermi sulla parola ed era - da parte mia - troppo pretendere in un paese di ipocriti, di sornioni, di poltroni, di maldicenti. Oggi, le cose sono cambiate. Oggi c'è il fatto compiuto. C'è un grande giornale che - a giudizio dei competenti e a giudizio unanime del pubblico sovrano - è uno dei migliori d'Italia. Un giornale moderno, libero, spregiudicato: un organismo pieno di sangue, ricco di nervature, sodo di muscoli: un giornale di notizie, di pensiero, di polemica; un giornale di vita, ben fatto, leggibile, variato, interessante. Gli avversari, a denti stretti e con la bile in corpo, devono riconoscerlo. E' un organismo già formato. Sono stati, questi, mesi di lavoro frenetici.

"Ma tutto è ormai al punto. Abbiamo qualche centinaio di corrispondenti disseminati in tutta Italia, dai grandissimi centri ai più remoti paesi. Dall'estero siamo informati dai nostri inviati speciali a Parigi e a Londra. II servizio politico da Roma è - specie per ciò che riguarda la politica estera - diligente e coscienzioso, assolutamente indipendente. La migliore, irrefutabile testimonianza è la collezione del giornale. Si spiega, con queste ragioni, che vado prospettando rapidamente, il successo del Popolo, la sua rapida e larga diffusione dovunque, e nei paesi delle vallate nevose del Piemonte e nelle borgate dell'ardente Sicilia o nella dimenticata Sardegna. Sono relativamente contento del mio lavoro. Ma sento che c'è la possibilità di fare ancora dì più, molto di più. Ci sono dei progetti da tradurre nella realtà. Dei progetti che fermentano - per ora - nel mio cervello. Per l'attuazione di tali progetti occorre del denaro. Non posso dire quanto. Occorre del denaro. I milioni non esistono. Esistono solo e sono - ahimè - molti, troppi, gli imbecilli e i malvagi che me li hanno regalati sbrigliando le fantasie. Ma la realtà è diversa. Io non chiedo milioni. Chiedo l'aiuto degli amici, dei simpatizzanti, dei lettori. Chiedo degli abbonati, chiedo dei sottoscrittori. Non apro, però, la sottoscrizione pubblica, che si risolve in una piccola fiera della vanità.
Ho finito. Le parole sono state poche. Non ripeterò questa specie di appello. Chi vuol intendere, intenda: chi vuol dare, dia. Salute! (Mussolini).
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Il 6 marzo del 1915, scioltasi in Francia la Legione Garibaldina, PEPPINO GARIBALDI telegrafava da Parigi al Comitato dei Fasci interventisti: "Rendendomi conto del lavoro che si sta facendo in Italia per il compimento delle nostre aspirazioni nazionali, invio la completa adesione tanto mia quanto quella dei miei fratelli Ricciotti, Sante, Ezio al loro programma e domandiamo di essere inseriti a codesto Comitato Centrale con l'augurio che i rimasti dei volontari italiani che si batterono nelle Argonne in nome di Trento e Trieste possano in un giorno non lontano trovarsi al fianco vostro oltre le Alpi Giulie, combattenti per i nostri fratelli irredenti".

Quel giorno stesso avveniva a Roma un lungo colloquio tra gli onorevoli GIOLITTI e SALANDRA, in cui i due uomini di Stato ebbero franche spiegazioni. Salandra, saputo che il Giolitti aveva poca stima del presente ministero credendolo incapace di piegare l'Austria a vantaggiose condizioni o il re e il paese alla guerra, offrì di cedergli il potere; ma Giolitti disse che non desiderava il potere, affermò che un gabinetto interventista (di Salandra) poteva ottenere di più dall'Austria che un Gabinetto germanofilo (il suo) e dichiarò che avrebbe lealmente continuato a dare a Salandra l'appoggio promesso nel dicembre del 1914.
Avuto questo incontro, detto questo, Giolitti se ne tornò in campagna, e vi rimase tutta l'estate, senza modificare di una linea le sue occupazioni (scriverà poi nelle sue "Memorie" di essere rimasto sorpreso dallo scoppio della guerra).

Il giorno dopo, l'on. Salandra fu presente, a Gaeta, all'inaugurazione dei lavori del nuovo molo militare e dell'acquedotto. Al banchetto ufficiale il generale MORRA, comandante del presidio della brigata "Savona", chiuse la serie dei discorsi e dei brindisi con queste parole: "Eccellenza, se i capi diranno di sostare, noi sosteremo; se diranno di marciare, noi marceremo avanti sempre e dovunque, per il nostro Re e per l'Italia. Il nostro grido bellicoso sarà sempre: Savoia !" .
Il presidente del Consiglio abbracciò fra l'entusiasmo dei presenti il generale, e presa la parola, disse fra le altre cose:
"Tutti gli oratori, oltre a questioni locali, hanno accennato a più alte cose. Poco dirò, non perché io tema di compromettermi ...., ma perché, profondamente commosso dalle parole del generale Morra, sento che non saprei esprimere con altrettanta efficacia l'animo mio. Rileverò soltanto queste sue parole: Egli ha detto che la brigata "Savona" sarà fidente, calma, disciplinata e pronta. Così deve essere il Paese, così tutta l'Italia deve essere come è la brigata Savona, e cioè calma, disciplinata, fidente e pronta. Essere pronti senza calma e senza disciplina non è preparare la grandezza del Paese. Io mi trovai al mio posto in condizioni impreviste, superiori alle mie forze. Vi resto e farò con profonda fede e coscienza tutto quello che si dovrà fare affinché il Paese esca dalle presenti contingenze più grande e più forte. Tutti faremo il nostro dovere, come ha concluso il generale Morra, con l'aiuto di Dio, agli ordini del Re e per la gloria della Patria".

Tornando il presidente del Consiglio a Roma, alla stazione di Sessa Aurunca, tra la folla plaudente uno sconosciuto gridò: "Viva la neutralità!" Allora Salandra, dal finestrino, rispose: "No, gridate con me Viva l'Italia!". Quest'episodio, riferito dalla stampa, fece credere prossimo o sicuro l'intervento dell'Italia nella guerra.

Non erano cessati i commenti dei giornali all'episodio di Sessa Aurunca e al discorso di Gaeta, quando altri commenti sulla stampa suscitò la notizia che a Venezia, il 10 marzo, scaricandosi 92 barili di birra provenienti da Berlino e diretti a Tripoli, si era casualmente scoperto che i barili, anziché birra, contenevano 456 fucili e 27.300 cartucce. Data la provenienza e la destinazione delle armi e la marca francese dei fucili, molte e varie furono le congetture, ma non si riuscì mai a spiegare l'enigma.

Il 13 e il 14 marzo 1915 ebbe luogo alla Camera la discussione di un disegno di legge sulla "difesa economica e militare dello Stato"; il 15 la Camera, con 251 voti contro 15 e 1 astenuto, accordò la fiducia al Governo e, con 234 voti favorevoli e 25 contrari, approvò il disegno, che il 20 fu discusso in Senato e approvato con 145 voti favorevoli e 2 contrari. La Camera prese le vacanze il 22 marzo; una settimana dopo le prese anche il Senato.
Lo stesso 29 marzo si svolse a Roma un congresso della "Trento e Trieste" che per il numero e la qualità degli intervenuti e di coloro che aderirono costituì un'affermazione interventista importantissima.
Parlarono BARZILAI, in nome di Trieste aspettante, IVANOE BONOMI per i riformisti, la cui anima, non poteva rifiutarsi "di accogliere la voce del sentimento, i moniti della storia e le speranze dell'avvenire"; poi parlò ENRICO CORRADINI, che in nome dei nazionalisti polemizzò con i neutralisti: "conservatori borghesi e conservatori socialisti, uomini tutti di pancia in un mondo commestibile, pancia borghese e pancia rivoluzionaria, nonché ufficiale" ed espresse l'augurio della liberazione del Trentino, dell'Istria e della Dalmazia; quindi fu approvato all'unanimità il seguente ordine del giorno: "Il convegno indetto dalla "Trento-Trieste", riassumendo le vibrazioni migliori dell'anima italiana attraverso la concordia e la disciplina di cittadini d'ogni regione e d'ogni parte politica, aspetta dal Governo, che ha rivendicato libertà piena, corrispondente a responsabilità illimitate per l'esaudimento delle aspirazioni nazionali, le non troppo tarde decisioni supreme per cui dovranno, con le armi, essere fissati i confini e la grandezza d'Italia".
PEPPINO GARIBALDI infine portò il saluto dei volontari delle Argonne e chiuse dicendo: "Amici, arrivederci a Trieste !".
Terminata la cerimonia, una colonna di alcune migliaia di persone percorse le vie della capitale cantando gl'inni patriottici, si recò poi a far una dimostrazione ostile sotto il palazzo dell'Ambasciata austriaca che a stento fu protetta dalla truppa, ruppe i vetri del Gambrinus, del Norddeutscher Lloyd e del "Popolo Romano" neutralista e si sciolse dopo avere gridato davanti a Palazzo Braschi sotto le finestre del Presidente del Consiglio: "Viva l'Italia! Viva Trieste! Vogliamo la guerra!".


IL GENERALE PORRO NOMINATO SOTTOCAPO DI STATO MAGGIORE
SEGNI FORIERI DELL'INTERVENTO

Alcuni giorni dopo, il 3 aprile, si diffondeva la notizia che il generale CARLO PORRO dei conti di Santa Maria della Bicocca era stato nominato sottocapo dello Stato Maggiore. La nomina di Porro, amico di CADORNA, che nel 1914 aveva rifiutato il ministero della Guerra perché non era stato accettato un suo noto programma richiedente l'impiego di circa 800 milioni, fu considerato come un segno di prossimo intervento anche perché quel giorno stesso il Bollettino Militare pubblicò un vasto movimento negli ufficiali generali. Né questo del resto era il solo segno. Altri si erano avuti, i quali davano al pubblico la sensazione che il Governo si preparava.
Notiamo fra essi la febbrile preparazione militare, il disegno eccezionale per la difesa economica e militare dello Stato, il disegno per il richiamo in servizio d'autorità degli ufficiali di complemento (2 marzo) il decreto che prorogava di 20 giorni la permanenza alle armi dei militari di prima categoria della classe 1888 ascritti all'artiglieria da campagna e pesante campale, dei militari di prima categoria della classe 1881 ascritti agli alpini e dei militari di terza categoria delle classi 1891, 1892, 1893 e 1894 ascritti agli alpini, chiamati alle armi il 28 gennaio (26 marzo), il decreto per il quale erano chiamati alle armi per un periodo di 45 giorni a cominciare dal 7 aprile i militari alpini di prima categoria della classe 1883 (27 marzo), il decreto che trasferiva da Mantova a Venezia il comando dell'artiglieria da fortezza e da Venezia a Mantova il comando della brigata "Puglia" (21 marzo), il decreto che indicava di quali notizie di carattere militare era proibita la pubblicazione (28 marzo), infine il decreto che vietava l'esportazione di ogni genere di navi (3 aprile).

IL GENERALE PAU IN ITALIA

Questi segni, naturalmente, facevano intensificare nel paese la propaganda interventista, che, nell'aprile, si esplicò con manifestazioni clamorose. Il 6 aprile Catania accoglieva con calorosa dimostrazione il generale francese PAU reduce dalla Grecia, il 7 a Genova oltre 25.000 persone ascoltavano la parola di PEPPINO GARIBALDI, dell'on. CANEPA e di COSIMO PALA e andavano davanti al consolato belga ad acclamare all'eroica nazione; l'8 il generale Pau fu accolto con grande entusiasmo dagli interventisti romani.

Una grande manifestazione per l'11 aprile in tutta Italia preparavano intanto "fasci di azione rivoluzionaria". Questi diramavano a Roma il seguente manifesto agli Italiani: "L'ora di agire è maturata. La storia e l'avvenire della Nazione non soffrono ulteriori temporeggiamenti. E proprio in questo momento si fanno più concrete e più gravi le voci di turpi passi che senza produrre l'unità nazionale ci asservirebbero disonorandoci per sempre all'Impero tedesco. E' minacciato il nostro più povero patrimonio di libertà acquisito. Si sta per decidere dei nostri più vitali interessi politici ed economici, nazionali ed internazionali. Mentre nella triste intimità dei Gabinetti si trama la tela di ragno in cui si dovrebbero soffocare le aspirazioni più doverose, giuste e sante del nostro popolo, è dovere di tutti gl'Italiani d'ogni dottrina e di ogni tendenza affermare un'ultima volta solennemente ma fermamente da un capo all'altro della penisola che la guerra ai pirati di Europa, la guerra ad ogni costo contro l'Austria padrona e tormentatrice di genti italiane, e sopratutto contro la Germania rovesciatrice di ogni libertà, deve essere intrapresa.
Bisogna dimostrare che la preparazione ai necessari sacrifici sarà pari alla grandezza dell'impresa. Noi, proprio noi sovversivi, in nome dei rivoluzionari interventisti che ci si raccolgono intorno, lanciamo oggi un ultimo appello a tutti i cittadini, un ultimo monito pacifico al Governo. Dalle vie e dalle piazze delle nostre città, esso, prorompa domenica prossima verso la Reggia e i suoi Ministri. Dopo ciascuno al proprio posto di battaglia. Italiani, a voi !" .

Così concepito era il manifesto del FASCIO MILANESE d'Azione rivoluzionaria:
"Proletari milanesi! per domenica prossima, 11 corr., i Fasci d'Azione Rivoluzionaria, hanno organizzato in tutte le città d'Italia delle manifestazioni popolari per reclamare dal governo della monarchia, insieme con la denuncia dell'infausta Triplice Alleanza, la dichiarazione di guerra agli Imperi Centrali. A Milano la dimostrazione avrà luogo nelle ore serali in Piazza del Duomo. Proletari milanesi! Ascoltate la nostra parola fraterna e sincera. Noi non siamo dei "guerrafondai" né dei nazionalisti. Voi stessi - affollando le assemblee dei Fasci - avete fatto sovrana giustizia di queste stupide calunnie. Nessuno di noi vuole la guerra per la guerra, ma tutti noi, pur militando in frazioni diverse del sovversivismo siamo convinti della necessità indeprecabile della guerra dell'Italia contro l'Austria e contro la Germania. Proletari milanesi! Considerate e riflettete. La neutralità è voluta dalla monarchia che non osa rischiare la Corona, dal Vaticano che vuole conservare l'Austria, dalla borghesia contrabbandiera, dai senatori germanofili, dai venduti all'oro di Bulow, da tutti, insomma, i rappresentanti della conservazione sociale. Fra gli stessi socialisti i favorevoli all'intervento sono moltissimi. Coloro che vi dicono che il proletariato italiano è neutrale mentiscono sfacciatamente. A Parma e a Genova - per citare due città dell'alta Italia - la classe operaia è partigiana della guerra. Volere la guerra non è un delitto di leso socialismo. Da Krapotkine a Malato, da Hyndmann a Plekanoff, da Gaillaume a Cipriani, i migliori e i più devoti militanti della Rivoluzione sociale sono tutti favorevoli ella guerra contro l'Austria e la Germania. Proletari milanesi! Noi vogliamo la guerra per ragioni nazionali, sociali, umane. Finché vi saranno nazioni oppresse e smembrate come la Polonia ed il Belgio, l'Internazionale che noi vagheggiamo sarà un sogno irrealizzabile. L'Austria-Ungheria che opprime otto popoli deve sfasciarsi e gli Italiani di Trento e di Trieste, che furono decimati in Galizia e soffrono in questi giorni dolori inenarrabili, devono tornare all'Italia. Abbandonarli ancora alle feroci rappresaglie austriache, sarebbe un'infamia senza nome. La guerra contro la Germania e l'Austria deve liberare l'Europa dall'incubo del militarismo prussiano. Le ragioni umane del nostro atteggiamento stanno nella convinzione che l'intervento dell'Italia abbrevierà la guerra e risparmierà milioni di giovani vite.
Proletari milanesi! La neutralità è egoismo, è interesse, è calcolo, è cinismo, ma la classe operaia è, deve essere generosa. Il proletariato italiano ha sempre dato la sua solidarietà ai sofferenti e agli oppressi di tutto il mondo. Resterebbe ora sordo dinanzi alla rovina del Belgio? No: non lo crediamo. Ecco perché vi rivolgiamo questo appello. Noi, o proletari, siamo stati al vostro fianco ieri, saremo al vostro fianco domani. Non vi chiediamo voti o stipendi o applausi, non vi lusinghiamo, vi additiamo invece la via del dovere che è anche quella dell'onore. Pensate: se voi non ci aiuterete a spezzare la neutralità del Governo, i vostri fratelli che emigrano saranno domani reietti da tutto il mondo civile. Proletari, venite con noi nelle strade e nelle piazze a gridare basta alla politica mercantile corrompitrice della borghesia italiana e a reclamare la guerra contro gli Imperi responsabili della conflagrazione europea. Viva la guerra liberatrice dei popoli! Il Comitato del Fascio".

LA GIORNATA DELL'11 APRILE
I MANIFESTI DEI FASCI DI AZIONE RIVOLUZIONARIA
UN ARTICOLO DEL " POPOLO D' ITALIA " SULLA DISCIPLINA NAZIONALE

L'11 aprile, giorno della manifestazione popolare, il "Popolo d' Italia" recava un articolo del proprio direttore, intitolato "Disciplina?" in risposta a quanto raccomandava il ministeriale "Giornale d' Italia".

"La disciplina "nazionale" -scriveva MUSSOLINI - c'è stata. Due miliardi sono stati spesi, settecento mila uomini sono sotto alle armi e nessuno ha protestato. Ma ora la disciplina comincia a pericolare. Il popolo che ha atteso, per lunghissimi nove mesi, una parola, oggi non ne può letteralmente più, e domanda e vuol sapere qual destino gli sia riservato, di qual morte deve morire. È umano. Abusare ancora della sua pazienza, sarebbe bestiale. Intanto che cosa fa il Governo? Ci consiglia di mettere il "cuore in pace", ci fa sapere che attende un evento decisivo per muoversi e che l'attesa gioverà a rendere perfetta la nostra preparazione militare. Noi ci domandiamo - esterrefatti - in quale stato di incredibile disorganizzazione doveva trovarsi il nostro esercito nel mese di agosto, se con due miliardi e nove mesi non siamo ancora "al punto".
O l'impreparazione è una scusa per le interrogazioni diplomatiche - O è annunciata per reclamare nuovi miliardi- Quanto al fatto decisivo, che tutti aspettano e che non viene mai, non ha dunque considerato il Governo la verità di questa proposizione fondamentale: che il miglior modo per rendere un fatto decisivo" è quello di contribuire a crearlo- Przemysl "pareva un fatto decisivo, adesso il fatto decisivo sarebbe costituito dalla ormai avvenuta traversata dei Carpazi da parte dei russi. Ma non è intuitivo che se domani le baionette italiane si affacciassero alle frontiere austriache, si faciliterebbe l'invasione dei russi in Ungheria, e si sarebbe compartecipi del "fatto decisivo", impedendo anche una precipitosa pace nutro-russa ? Noi siamo indotti a sospettare che l'eventualità di una pace austro-russa lusinghi i nostri diplomatici e i nostri governanti. Se la Germania da una parte e la Triplice Intesa dall'altra acconsentono a una pace separata austro-russa, i nostri diplomatici farebbero il loro gioco e raggiungerebbero il loro obiettivo che è quello della piccola guerra soltanto contro l'Austria. Se la Germania -, dopo una pace austro-russa si disinteressa dell'Austria-Ungheria - la Germania si disinteresserà allo stesso modo di una guerra dell'Italia contro l'Austria, guerra che, non coinvolgendo la Germania, renderebbe ancora possibile una collaborazione diplomatica italo-tedesca.
Con la Serbia è facile raggiungere un accordo particolare. Sono ipotesi, eventualità, ma questa incertezza perdurante rende legittimo ogni sospetto e, fra poco, ogni esasperazione. Noi restiamo quindi sordi agli appelli per la disciplina nazionale. Per esigere la "disciplina" di un popolo nel secolo XX, bisogna "illuminarlo". Noi "indisciplinati" abbiamo la coscienza di avere assolto a un nobilissimo dovere patriottico. Rendendo popolare la necessità della guerra, noi abbiamo contribuito a creare il morale delle truppe che dovranno combattere domani. Gli "interventisti" disseminati nella compagine dell'esercito, saranno di sprone agli altri e saranno i migliori soldati perché sapranno la "ragione" della guerra. Data la compagine prevalentemente "rurale" dell'esercito italiano, questa infusione di elementi idealisti avrà, senza dubbio, benefiche ripercussioni sull'esito della guerra. I nostri propositi sono chiari. D'ora innanzi noi accettiamo una sola disciplina: quella della guerra. Se il generale Cadorna non dirà la parola che attendiamo, l'Italia sarà fatalmente in sanguinata dalla guerra civile".

Il giorno prima lo stesso giornale aveva pubblicato una dichiarazione redatta a Roma in un convegno, in cui avevano partecipato persone appartenenti a tutte le gradazioni del rivoluzionarismo italiano. Essa portava, fra le altre, le firme di BENITO MUSSOLINI, MARIA RYGIER, LIVIO CIARDI, ALCESTE DE AMBRIS, UBALDO COMANDINI, MICHELE BIANCHI, ATTILIO LONGONI, OLIVIERO OLIVETTI, LIBERO TANCREDI e GIOVANNI MARINELLI e diceva:

"All'intervento .... - che non può esplicarsi altrimenti che con la rottura violenta della Triplice Alleanza e la guerra contro gl'Imperi Centrali a fianco della Triplice Intesa - noi siamo pronti a dare tutto il nostro appoggio, accettando di condividerne la responsabilità nella forma più leale: diciamo cioè che, qualora la monarchia dichiari la guerra che noi auspichiamo, sentiremo il dovere collettivo di continuare fino a vittoria raggiunta nella tregua rivoluzionaria, ed il dovere personale di accorrere sui campi di battaglia per offrire il nostro sangue alla causa della libertà dei popoli contro il militarismo teutonico. Ma con eguale franchezza diciamo che né sangue, né tregua possiamo promettere per ogni azione che la monarchia avesse in animo di svolgere compromettendo l'Italia nelle viltà e nelle speculazioni tristi di una politica obliqua e usuraia. La grave responsabilità della guerra può essere da noi accettata soltanto per altissime ragioni ideali (la rivendicazione dei diritti di tutte le nazionalità) e per la necessità di abbattere un ostacolo formidabile al progresso umano (il militarismo tedesco): ben altro contegno ci detta l'eventualità che l'Italia ufficiale abbia a fare il giuoco della Germania con qualche diversivo sostanzialmente ostile alla Triplice Intesa. In questo caso, non l'opposizione passiva, ma la più vivace opposizione attiva di tutte le nostre forze ci si imporrebbe come un dovere assoluto. E lo stesso dovere noi compiremmo anche contro ogni mercato della nostra neutralità a base di compensi territoriali.
Noi diciamo che la sola neutralità onesta - anche se imbelle - è quella che non chiede di essere pagata. La neutralità che specula sui conflitti, nei quali gli altri profondono sangue e ricchezza, è la neutralità di Sylock. Un popolo non può ricavare da una simile politica usuraia che odio e disprezzo, entrambi ben meritati. Perciò se anche le trattative avviate da Bulow potessero darci - cosa impossibile - i più larghi compensi territoriali, noi affermeremo per sempre la nostra decisa ed assoluta opposizione all'ignobile traffico dell'onore italiano, separando fin da ora la responsabilità nostra da una simile vergogna che dovrà pesare tutta intera ed esclusivamente sulla monarchia restando a noi il compito di fargliela scontare con la più sollecita severità. Questo anche nel caso non difficile che la baratteria venisse dissimulata con una finzione di guerra sul tipo di quella che nel 1866 ci coprì d'onta e di ridicolo".

Quella dell'11 aprile fu, in tutta Italia, una giornata "calda". Il Governo cercò di impedire che i comizi indetti dagli interventisti avessero luogo; ma avvennero lo stesso e provocarono immancabili tumulti. A Roma si ebbero conflitti con la forza pubblica in piazza della Pilotta e in piazza dell'Esedra e furono tratti in arresto BENITO MUSSOLINI, F. T. MARINETTI e ARTURO VELLA, segretario del Partito Socialista Ufficiale.
Tafferugli si ebbero a Napoli; violente dimostrazioni a Firenze con legnate e colpi di rivoltella e l'arresto di parecchi, fra cui DECIO CANZIO; chiassate e conflitti e arresti a Torino, ad Ancona, a Venezia, a Verona, a Siena; ferimenti si ebbero a Parma; colluttazioni violente a Milano con l'uccisione di un operaio; a Brescia la commemorazione delle Dieci giornate si trasformò in manifestazione interventista, significativa per la compostezza e la solennità e per l'intervento di liberali, democratici, massoni, cattolici, di rappresentanze delle scuole, dei corpi municipali della provincia e dell'esercito e di un folto gruppo di irredenti e di senatori e deputati.

GLI INTERVENTISTI RIVOLUZIONARI E LA MONARCHIA
UN CONVEGNO DEI PARTITI INTERVENTISTI MILANESI - L'AGITAZIONE DEGLI STUDENTI

Il 13 aprile in una riunione dei partiti interventisti milanesi, nella quale parlarono l'avv. LUZZATTO, il prof. GIUSEPPE RICCHIERI ed altri, fu approvato per acclamazione il seguente ordine del giorno:

"I soci e aderenti delle Società e Gruppi: Democratica lombarda, Lega nazionale italiana, Partito socialista riformista, Unione liberale democratica, Segretariato radicale lombardo, Gruppo liberale Nazionale, Società Patria per Trento e Trieste, Comitato lombardo per l'azione dell'Italia nel conflitto europeo; riuniti in assemblea comune il 13 aprile 1915, riaffermano l'imprescindibile necessità dell'intervento dell'Italia nel conflitto europeo; ritenuto essere ormai tempo di porre fine all'attuale situazione, la quale prolungandosi aumenterebbe il disagio morale all'interno, diminuirebbe il prestigio della Nazione all'Estero, ne determinerebbe l'isolamento politico; ritenuto che l'intervento dell'Italia nell'attuale momento farebbe indubbiamente decidere le sorti del conflitto e le procurerebbe oltre al raggiungimento degli ideali nazionali, l'onore di avere affrettata la vittoria della giustizia e della civiltà; ritenuto che, all'opposto, l'indecisione del Governo in questo momento cagionerebbe irreparabile pregiudizio agli interessi della Patria ed al suo avvenire, e di fronte a ciò il Paese insorgerebbe; affermano solennemente la solidarietà dei diversi sodalizi interventisti in tali idee e propositi; deliberano d'intensificare la propaganda nel popolo per elevare il sentimento patriottico e prepararlo alle supreme decisioni, di esprimere direttamente al Governo, a mezzo del Consiglio federale, la decisa volontà dei sodalizi federati".

Ma oramai i platonici voti dei partiti e delle associazioni erano soffocati dalle dimostrazioni, dai comizi e dai tumulti della parte più irrequieta degli interventisti; anche gli studenti universitari medi tumultuavano scagliandosi contro l'insegnamento di professori stranieri o germanofili o neutralisti e li confortava nell'agitazione l'autorevole voce del senatore MARAGLIANO, rettore dell'università genovese. Che affermava pubblicamente: "Le Università italiane siano degli Italiani".
Si respirava aria di guerra, i canti del Risorgimento risuonavano nelle vie di ogni città; notizie di incidenti alla frontiera austriaca, veri o inventati, eccitavano gli animi; Peppino Garibaldi fu ricevuto dal Re e gli chiedeva di poter costituire un corpo di volontari; correva voce che l'Italia sarebbe uscita dalla neutralità alla prossima riapertura del Parlamento e intanto tramontava l'aprile e s'avvicinava a gran passi il 5 maggio, nel qual, giorno Gabriele d'Annunzio, esule volontario in Francia, aveva promesso di fare ritorno in patria per esaltare, davanti al monumento ai Mille che doveva inaugurarsi a Quarto, la leggendaria impresa garibaldina e spingere alla nuova più grande impresa l'Italia.

I NEGOZIATI FRA L'ITALIA E L'AUSTRIA-UNGHERIA
LE RICHIESTE ITALIANE E LE TERGIVERSAZIONI DI VIENNA
IL GOVERNO ITALIANO TRATTA CON L'INTESA
NUOVE PROPOSTE DI BULOW E DI BURIAN
LE CONTROPROPOSTE ITALIANE


Parve, verso la metà di febbraio, che i negoziati italo-austriaci dovessero esser troncati. Il 12 di quel mese SONNINO faceva comunicare al Governo austro-ungarico dall'ambasciatore a Vienna quanto segue:
"Di fronte al contegno persistentemente dilatorio a nostro riguardo, non è possibile ormai nutrire più alcuna illusione sull'esito pratico delle trattative. Onde il Regio Governo si trova costretto, a salvaguardia della propria dignità, ritirare ogni sua proposta o iniziativa di discussione e a trincerarsi nel semplice disposto dell'art. 7, dichiarando che considera come apertamente contraria all'articolo stesso qualunque azione militare che volesse muovere da oggi in poi l'Austria-Ungheria nei Balcani sia contro la Serbia, sia contro il Montenegro o altri, senza che sia avvenuto il preliminare accordo richiesto dall'art. 7.
Non ho bisogno di rilevare che se di questa dichiarazione e del disposto art. 7 il Governo austro-ungarico mostrasse con il fatto di non voler tenere il dovuto conto, ciò potrebbe portare a gravi conseguenze delle quali questo Regio Governo declina fin da ora ogni responsabilità".

Anzi, qualche giorno dopo, SONNINO incaricava il duca d' AVARNA di dichiarare al barone BURIAN che la su riferita comunicazione aveva il preciso significato di un veto apposto dall'Italia ad ogni azione militare austriaca nei Balcani prima che si fosse verificato l'accordo sui compensi giusta l'art. 7 del trattato della Triplice Alleanza.
Nonostante il rifiuto del barone Burian di ammettere il punto di vista italiano, i negoziati continuarono. Il 4 marzo il ministro Sonnino riassumeva così il suo pensiero:

"1°. Nessuna azione militare dell'Austria-Ungheria nei Balcani deve potersi iniziare senza che sia stato antecedentemente portato a termine l'accordo sui compensi, tenendoci noi rigorosamente al testo dell'art. 7.
2°. Ogni infrazione di quanto sopra sarà da noi considerata come un'aperta violazione del trattato, di fronte alla quale l'Italia riprende la sua piena libertà d'azione a garanzia dei propri diritti e interessi.
3°. Nessuna proposta o discussione di compensi può condurre ad un accordo se non prospetta la cessione di territori già posseduti dall'Austria-Ungheria.
4°. Valendoci del disposto dell'art. 7, esigiamo compensi per il fatto stesso dell'inizio di un'azione militare dell'Austria-Ungheria nei Balcani, indipendentemente dai risultati che tale azione abbia a raggiungere; non escludendo però che si possano stipulare altri compensi sotto forma condizionale e proporzionali ai vantaggi che effettivamente l'Austria-Ungheria riesca a conseguire.
5°. Quella quota fissa di compensi che serve di corrispettivo per l'inizio stesso dell'azione militare indipendentemente dai risultati, dovrà, anziché tenersi segreta, essere portata ad effetto, con il trapasso effettivo dei territori ceduti e l'occupazione loro immediata per parte dell'Italia.
6°. Non ammettiamo alcuna discussione di compensi da parte nostra per l'occupazione del Dodecaneso e di Valona".

Le pressioni di Berlino inducevano BURIAN a dichiarare, il 9 marzo, che il Governo austro-ungarico consentiva a discutere la questione dei compensi sulla base proposta dall'Italia, e allora il Sonnino proponeva i punti di partenza da chiarire preventivamente e cioè:

1° assoluto segreto dei negoziati;
2° esecuzione immediata dell'accordo;
3° l'accordo doveva investire l'intera durata della guerra.

BURIAN però si rifiutava recisamente di dar esecuzione all'accordo e il Governo italiano, non nutrendo più fiducia nei negoziati e convinto che con questi l'Austria si serviva soltanto per guadagnare tempo, ritenne necessario di trattare con l'Intesa. I primi approcci furono fatti con l'Inghilterra.
Il 4 marzo il marchese IMPERIALI, ambasciatore italiano a Londra, comunicò a sir EDWARD GREY che l'Italia era disposta a scendere in campo a fianco della Triplice Intesa, e gli consegnò un memorandum in cui erano enumerate e spiegate le condizioni alle quali l'Italia avrebbe partecipato alla guerra.
Il Governo italiano chiedeva: che la Francia, l'Inghilterra, l'Italia e la Russia, non avrebbero dovuto concludere la pace o l'armistizio separatamente; la Russia avrebbe dovuto continuar la guerra contro l'Austria-Ungheria; all'Italia sarebbero stati dati il Trentino fino al Brennero, Trieste e l'Istria fino al Volosca, con l'isola di Cherso, la Dalmazia tra Fiume (esclusa, questa andava alla Croazia) e il Narenta con tutte le isole a nord e ad est della stessa Dalmazia, Valona dal Vojussa al Chimara, l'isola di Saseno, il Dodecaneso, compensi in Africa se l'Intesa si fosse appropriate le colonie tedesche, compensi in Turchia se l'impero ottomano fosse stato diviso, diritto di occupare Adalia e il territorio circostante se fosse stata occupata l'Asia Minore; la Santa Sede sarebbe stata esclusa dai negoziati di pace; l'Italia avrebbe eventualmente consentito al Montenegro, alla Serbia e alla Grecia di acquistar territori in Albania purché il rimanente territorio fosse eretto in Stato mussulmano indipendente e neutrale e fosse neutralizzata la costa da Cattaro al Vojussa e dal Chimara al Capo Stylos.

A questi patti l'Italia s'impegnava di scendere in campo entro il 25 maggio contro l'Austria, la Turchia e gli altri nemici dell'Intesa, eccettuata la Germania e anche questa se gli eserciti tedeschi avessero aiutato direttamente gli austriaci contro l'Italia.
Il 10 marzo sir EDWARD GREY comunicò a PAUL CAMBON e al conte BENCKENDORF, ambasciatori della Francia e della Russia, il "memorandum" italiano e non mancò di fare rilevare l'importanza dell'aiuto dell'Italia, sia dal lato militare che dal lato politico. I due ambasciatori presero visione dei patti del Governo italiano e risposero che li avrebbero comunicati a Parigi e a Pietroburgo.

PROPOSTA AUSTRIACA PER LA CESSIONE DEL TRENTINO
IL TRATTATO DI LONDRA

Benché non progredissero di un passo, i negoziati italo-austriaci intanto continuavano, aiutati dal principe di BULOW, il quale, il 20 marzo, era fiducioso di superare la difficoltà poste dal rifiuto ostinato di BURIAN dell'immediata esecuzione dell'accordo, comunicando a SONNINO che il Governo tedesco lo aveva incaricato di dichiarare che la Germania assumeva di fronte all'Italia la piena ed intera garanzia che la convenzione da concludersi fra i due Governi italiano ed austro-ungarico sarebbe stata eseguita fedelmente e lealmente dopo la conclusione della pace.
Il Governo italiano non fece buon viso alla dichiarazione germanica, ma poiché da Londra tardavano a giungere notizie intorno alla nostra offerta, SONNINO disse che non avrebbe insistito sulla condizione dell'esecuzione immediata se l'Austria avesse fatto proposte precise e concrete.

Le proposte BURIAN le fece il 27 marzo:
"L'Italia s'impegnerebbe a osservare fino alla fine della guerra attuale verso l'Austria-Ungheria e i suoi alleati una neutralità benevola dal punto di vista politico ed economico; in quest'ordine d'idee l'Italia si obbligherebbe inoltre per tutta la durata della guerra attuale a lasciare all'Austria-Ungheria piena e intera libertà d'azione nei Balcani e a rinunziare in anticipazione a qualsiasi nuovo compenso per i vantaggi territoriali o altri che risulterebbero
eventualmente per l'Austria-Ungheria da tale libertà d'azione.
Questa stipulazione però non si estenderebbe all'Albania, rispetto alla quale l'accordo esistente fra l'Austria-Ungheria e l'Italia, nonché le decisione della riunione di Londra, rimarrebbero in vigore".

Il duca d'AVARNA, che comunicava tali proposte, aggiungeva: "Il barone BURIAN mi ha fatto quindi conoscere che dal suo lato l'Austria-Ungheria sarebbe pronta ad una cessione di territori nel Tirolo meridionale, compresa la città di Trento. La delimitazione particolareggiata sarebbe fissata in modo da tener conto delle esigenze strategiche che creerebbe per la Monarchia una nuova frontiera, e dei bisogni economici delle popolazioni".

Ma Sonnino dichiarava vaghe, incerte ed insufficienti, come base di negoziati le proposte di BURIAN, in quanto che "non soddisfacevano abbastanza le aspirazioni nazionali, non miglioravano in modo apprezzabile le condizioni militari italiane e non rappresentavano un compenso adeguato alla libertà d'azione nei Balcani all'Austria".

Nel frattempo, il 20 marzo il ministro inglese GREY rimetteva al marchese Imperiali un "memorandum" in cui dichiarava che l'Intesa era disposta ad accettare in linea di massima le proposte italiane, ma che l'Italia doveva rivedere il suo disegno riguardo all'Adriatico, poiché "la domanda italiana della Dalmazia, unita alla proposta di neutralizzare una larga parte della carta orientale adriatica e la pretesa delle isole del Quarnaro lasciavano alla Serbia opportunità e condizioni molto ristrette per il suo accesso al mare, e rimaneva chiusa nelle sue province jugoslave, che avevano con ragione guardato a questa guerra come a quella che avrebbe assicurato loro le legittime aspirazioni di espansione e di sviluppo di cui erano state fino allora private".

L'ambasciatore italiano insisteva nelle richieste, dichiarando che non avrebbe giovato all'Italia combattere per sostituire nell'Adriatico la supremazia austriaca a quella jugoslava; ma la Francia e la Russia difendevano apertamente gl'interessi serbi e l'Inghilterra, sebbene fosse d'avviso che le esigenze italiane fossero grandi e andassero ridotte, consigliava i Governi alleati a non insistere su questo punto qualora l'Italia aderisse alla "dichiarazione di Londra" del 5 settembre 1914, per la quale le potenze dell'Intesa si erano impegnate a fare insieme la guerra e la pace.
Il marchese IMPERIALI dichiarò che l'Italia avrebbe aderito alla "dichiarazione di Londra" e, il 29 marzo, consegnò a sir EDWARD GREY un "memorandum" in cui le richieste italiane circa il confine meridionale della Dalmazia erano alquanto ridotte. Il 30, dietro richiesta del ministro degli Esteri inglese, l'ambasciatore italiano presentò un terzo "memorandum" riducendo ancora le richieste dell'Italia, e, dichiarando che quello era l'ultimo testo, chiese una sollecita risposta.

Duravano intanto i negoziati con Vienna. Il 2 aprile BURIAN spiegava quali concessioni territoriali l'Austria intendesse fare all'Italia e cioè:
"i distretti (Politische Bezirke) di Trento, Rovereto, Riva, Tione (ad eccezione di Madonna di Campiglio e dei suoi dintorni) nonché il distretto di Borgo. Nella vallata dell'Adige il confine rimonterebbe fino a Lavis che resterebbe all'Italia". (Lavis è situato a 8 chilometri a nord di Trento - Ndr)

Richiestone dal barone Burian, Sonnino, l'8 aprile, formulava, le seguenti controproposte:
"1°. L'Austria-Ungheria cede all'Italia il Trentino con i suoi confini che ebbe il Regno italico nel 1811, cioè dopo il trattato di Parigi del 28 febbraio 1810.
2°. Si procede ad una correzione a favore dell'Italia del suo confine orientale, restando comprese nel territorio ceduto le città di Gorizia e Gradisca. Da Trogofel il confine nuovo si stacca dall'attuale volgendo ad oriente fino all'Osterning e di là scende dalle Carniche fino a Saifiniz. Indi per il contrafforte tra Seisera e Schilza sale al Wirsehberg e poi torna a seguire il confine attuale fino alla sella di Nevea, per scendere dalle falde del Rombone fino all'Isonzo passando ad oriente di Plezzo. Segue poi la linea dell'Isonzo fino a Tolmino, dove abbandona l'Isonzo per seguire una linea più orientale, la quale passando ad est dell'altipiano Pregona-Planina e seguendo il solco del Chiapovano, scende ad oriente di Gorizia ed attraverso il Carso di Comen termina al mare tra Monfalcone e Trieste nella prossimità di Nabresina.
3°. La città di Trieste con il suo territorio, che verrà esteso al nord fino a comprendere Nabresina, in modo da confinare con la nuova frontiera italiana (art. 2) e al sud tanto da comprendere gli attuali distretti giudiziari di Capo di Istria e Pirano, saranno costituiti in uno Stato autonomo e indipendente nei riguardi politici internazionali militari, legislativi, finanziari e amministrativi, rinunziando l'Austria-Ungheria ad ogni sovranità su di esso. Dovrà restare porto franco. Non vi potranno entrare milizie né austro-ungariche né italiane. Esso si assumerà una quota parte del Debito Pubblico austriaco in ragione della sua popolazione.
4°. L'Austria-Ungheria cede all'Italia il gruppo delle isole Curzolari, comprendendo Lissa (con gli isolotti vicini di Sant'Andrea e Busi), Lesina (con le Spalmadori e Torcola), Curzola, Lagosta (con gli isolotti e scogli vicini), Cazza e Meleda, oltre Pelagosa.
5°. L'Italia occuperà subito i territori ceduti (art. 1°, 2° e 4°) e Trieste e suo territorio (art. 3°) saranno sgombrati dalle autorità e dalle milizie austro-ungariche, con congedamento immediato dei militari di terra e di mare che provengono da quelli e da questa.
6°. L'Austria-Ungheria riconosce la piena sovranità italiana su Valona e sua baia compreso Saseno, con quanto territorio dell'Hinterland si richieda per la loro difesa.
7°. L'Austria-Ungheria si disinteressa completamente dell'Albania compresa entro i confini tracciati dalla conferenza di Londra.
8°. L'Austria Ungheria concederà completa amnistia e l'immediato rilascio di tutti i condannati e processati per ragioni militari e politiche provenienti dai territori ceduti (art.1°, 2° e 4°) e sgombrati (art.3°).
9°. Per la liberazione dei territori ceduti (art. 1°, 2° e 4°) dalla loro quota parte di obbligazione del Debito Pubblico austriaco o austro-ungarico, nonché del Debito per pensioni ai cessati funzionari imperiali e reali e contro l'integrale ed immediato passaggio al Regno d'Italia di ogni prosperità demaniale, mobile, meno le armi, che si trovano nei territori stessi, e a compenso di ogni diritto dello Stato riguardante detti territori in quanto vi si riferiscono sia pel presente sia per l'avvenire, senza eccezione alcuna, l'Italia pagherà all'Austria-Ungheria la somma capitale in oro di 200 milioni di lire italiane.
10°. L'Italia s' impegna a mantenere una perfetta neutralità durante tutta la presente guerra nei riguardi dell'Austria-Ungheria e della Germania.
11°. Per tutta la durata della presente guerra l'Italia rinuncia ad ogni facoltà di invocare ulteriormente a proprio favore le disposizioni dell'art. 7 del Trattato della Triplice Alleanza; e la stessa rinunzia fa l'Austria-Ungheria per quanto riguardi l'avvenuta occupazione italiana delle isole del Dodecaneso".

Il 16 aprile BURIAN respinse le proposte italiane e fece una proposta per la cessione del Trentino. Secondo questa nuova proposta la nuova linea di confine, partendo dall'attuale frontiera presso Zufallspitze, seguirebbe lo spartiacque tra il Noce e l'Adige fino all'Illmespitze; passerebbe ad ovest di Proveis (che rimarrebbe al Tirolo), raggiungerebbe il torrente Pescara, ne seguirebbe il thalweg fino alla confluenza col Noce, da cui si distaccherebbe il confine settentrionale dal distretto di Mezzolombardo e raggiungerebbe l'Adige a sud di Salorno. La linea salirebbe sul Gelesberg, seguirebbe lo spartiacque tra la valle dell'Avisio per il Castiore e si dirigerebbe verso l'Hornspitze e il Monte Comp; volgerebbe quindi a sud ed, evitando il comune di Altrei, risalirebbe fino al colle di S. Lugano; seguirebbe lo spartiacque tra le vallate dell'Avisio e dell'Adige passerebbe per la cima di Rocca e il Grimmjoch fino al Latemar; discenderebbe verso l'Avisio e, tagliatolo tra Moena e Forno, risalirebbe verso lo spartiacque tra le vallate di San Pellegrino e Travignolo, e raggiungerebbe il confine attuale a est della cima di Bocche.

Naturalmente non era più il caso di continuare le trattative con l'Austria-Ungheria, sia perché questa mostrava chiaramente di non volerle condurre a termine, sia perché quelle avviate con l'Intesa stavano per concludersi felicemente.
E si conclusero infatti con il Trattato di Londra, del 26 aprile 1915, firmato da sir EDWARD GREY, da JULES CAMBON, dal marchese IMPERIALI e dal BENCHENDORFF. In esso l'Italia s'impegnava di entrare in guerra entro un mese e non oltre il 26 maggio coerentemente all'impegno delle potenze dell'Intesa di aiutare con tutte le loro forze, per terra e per mare, l'Italia a conseguire, i suoi scopi territoriali. Alla fine della guerra l'Italia riceverebbe: il Trentino fino al Brennero; Trieste e suoi dintorni; le contee di Gorizia e di Gradisca; tutta l'Istria fino al Quarnaro, comprese Valosca, Cherso e Lussin e le altre minori isole; tutta la Dalmazia nella sua attuale estensione aggiungendovi a nord Lissarika e Trebinga, a sud i territori fino a una linea che partendo dalle vicinanze del capo Planka e seguendo gli spartiacque, lascerebbe all'Italia tutte le valli le cui acque sboccano presso Sebenico; e più tutte le isole a nord e ad ovest della costa dalmatica; Valona e Saseno. L'Italia acconsentiva che alcuni distretti adriatici fossero concessi alla Croazia, alla Serbia e al Montenegro e cioè tutta la costa del golfo di Valona presso la frontiera italiana fino alla frontiera della Dalmazia, comprendente la costa attualmente appartenente all'Ungheria, la costa croata, il PORTO DI FIUME, i porti di Nevi e di Carlopago e le isole di Veglia, Perukio, Gregorio, Kali e Arbe. Il porto di Durazzo potrebbe essere assegnato al piccolo Stato autonomo albanese di cui l'Italia dirigerebbe le relazioni estere.

Desiderandolo le potenze della Intesa, l'Italia non si opporrebbe alla spartizione tra il Montenegro, la Serbia e la Grecia dell'Albania settentrionale e meridionale. Inoltre l'Italia consentiva che si neutralizzassero le isole a lei non attribuite, tutta la costa dal capo Planka alla penisola di Sabbioncello, una parte della costa, a partire da dieci chilometri a sud di Ragusa vecchia fino al fiume Vojussa a sud, in modo da comprendere nella zona neutralizzata tutto il golfo di Cattaro coi suoi porti Antivari, Dulcigno, San Giovanni di Medua e Durazzo. All'Italia si riconoscerebbe il pieno dominio del Dodecaneso. Se durante la guerra le potenze dell'Intesa occupassero distretti dell'Asia turca, l'Italia potrebbe occupare il distretto di Adalia.
L'Italia concorrerebbe all'indennità in proporzione ai suoi sforzi e sacrifici. Qualora i possessi coloniali francesi e inglesi in Africa si accrescessero con territori tolti alle colonie tedesche, la Francia e l'Inghilterra riconoscerebbero all'Italia il diritto di estendere i suoi possessi dell'Eritrea, della Somalia e della Libia sui confinanti territori delle colonie francesi ed inglesi. In corrispettivo dei vantaggi assicuratile e in considerazione degli accordi stipulati, l'Italia s'impegnava a condurre la guerra con tutte le sue forze a fianco dei tre alleati e contro gli Stati in lotta con essi.

Lo stesso 26 aprile gli ambasciatori italiano, russo e francese e il ministero degli esteri inglesi firmavano alcune dichiarazioni del trattato. Con una di esse l'Italia si associava alla dichiarazione fatta dalla Francia, dall'Inghilterra e dalla Russia di lasciare l'Arabia e i Luoghi Santi dell'Islamismo sotto uno Stato musulmano indipendente; con un'altra dichiarazione la Francia, la Russia e l'Inghilterra s'impegnavano a sostenere l'Italia per impedire che la Santa Sede svolgesse azione diplomatica per la conclusione della pace e per la sistemazione delle questioni connesse con la guerra; con altra dichiarazione i governi italiano, inglese, francese e russo s'impegnavano mutualmente a non concludere armistizi e pace separate durante la guerra e, convenivano che, giunto il tempo,di discutere i termini della pace, nessuna potenza alleata poteva porre condizioni senza preventivo accordo con ciascuno degli altri alleati; infine con un'altra dichiarazione veniva stabilito quanto segue:

"La dichiarazione del 26 aprile 1915, con la quale la Francia, la Gran Bretagna, l'Italia e la Russia si impegnavano a non concludere pace separata, durante l'attuale guerra europea, rimarrà segreta. Dopo la dichiarazione di guerra da parte dell'Italia o contro di essa, le quattro potenze firmeranno una nuova dichiarazione identica, che sarà resa pubblica in quel momento".

IL GOVERNO ITALIANO
DENUNCIA IL TRATTATO D'ALLEANZA
FRA L'ITALIA E L'AUSTRIA-UNGHERIA

Così si concludevano le trattative tra l'Italia e l'Intesa e terminavano quelle con l'Austria-Ungheria, nelle quali nulla avevano potuto l'abilità e le aderenze di BULOW, la furberia da sensale del deputato cattolico ERZBERGER, tutta la buona volontà di MACCHIO e del duca d'AVARNA e infine il gran numero dei neutralisti italiani. Il 3 maggio, l'on. SONNINO incaricava l'ambasciatore italiano a Vienna di presentare al barone BURIAN una comunicazione, la quale rimproverando all'Austria la violazione del trattato della Triplice e ricordando gli sforzi del Governo italiano di creare una situazione favorevole al ristabilimento tra i due Stati di quei rapporti amichevoli che costituiscono la base essenziale di ogni cooperazione nel terreno della politica generale, terminava così:

"Tutti gli sforzi del Regio Governo s' infransero nella resistenza del Governo Imperiale, che dopo parecchi mesi, si è soltanto deciso ad ammettere gli interessi speciali dell'Italia a Valona e a promettere una concessione non sufficiente di territori nel Trentino, concessione che non comporta il regolamento normale della situazione né dal punto di vista etnico né dal punto di vista politico o militare. Questa concessione inoltre non doveva essere eseguita che ad epoca indeterminata, alla fine della guerra. In questo stato di cose il Governo italiano deve rinunciare alla speranza di giungere ad un accordo e si vede costretto a ritirare tutte le sue proposte. È egualmente inutile mantenere all'alleanza un'apparenza formale, la quale non sarebbe destinata che a dissimulare la realtà di una diffidenza continua e di contrasti quotidiani.
Perciò l'Italia, fidando nel suo buon diritto, afferma e proclama di riprendere da questo momento la sua intera libertà d'azione e dichiara annullato e ormai senza effetto il suo trattato d'alleanza con l'Austria-Ungheria".



... intanto l'interventismo montava, poeti e giornalisti si esaltavano
e più di ogni altro Gabriele D'Annunzio...
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D'ANNUNZIO - LE CONCESSIONI AUSTRIACHE

LA SAGRA DI QUARTO - IL TELEGRAMMA DEL RE E L'ORAZIONE DI GABRIELE D'ANNUNZIO - L'AZIONE DELLA STAMPA ITALIANA - L'ON. GIOLITTI RICEVUTO DAL RE - SECONDO COLLOQUIO SALANDRA-GIOLITTI - NUOVE CONCESSIONI AUSTRIACHE - LE DIMOSTRAZIONI INTERVENTISTE DELL' 11 MAGGIO - L'ON. GIOLITTI CHIAMATO "NEMICO DELLA PATRIA" - LA LETTERA AL MALAGODI - D'ANNUNZIO A ROMA; IL SUO DISCORSO AI ROMANI - DIMISSIONI DEL GABINETTO SALANDRA


LA SAGRA DI QUARTO - IL TELEGRAMMA DEL RE
L'ORAZIONE DI GABRIELE D'ANNUNZIO
L'AZIONE DELLA STAMPA ITALIANA

Il giorno stesso (3 maggio 1915) che l'Italia denunciava il trattato d'alleanza con l'Austria-Ungheria, il Consiglio dei Ministri, riunito a Palazzo Braschi, deliberava che nessun membro del Governo, data la situazione politica, si allontanasse da Roma e si recasse a Quarto il giorno 5 per le celebrazioni garibaldine. In conseguenza di questa deliberazione anche il Re stabiliva di non intervenire all'inaugurazione del monumento ai Mille e ne dava comunicazione al sindaco di Genova generale Massone.

Malgrado l'assenza del Sovrano "presente in spirito" e del Governo, la cerimonia di Quarto fu grandiosa. Su un mare di teste e di bandiere il telegramma del Re, fu letto dal sindaco, e scese come una promessa di guerra:

"Se cure di Stato, mutando il desiderio in rammarico, mi tolgono di partecipare alla cerimonia che si compie costà, non si allontana però oggi dallo Scoglio di Quarto il mio pensiero. A codesta fatale sponda dei Mar Ligure, che vide nascere chi primo vaticinò l'unità della Patria e il Duce dei Mille salpare con immortale ardimento verso le immortali fortune, mando -il mio commosso saluto. E, con lo stesso animoso fervore di affetti che guidò il mio Grande Avo, dalla concorde consacrazione delle memorie traggo la fede nel glorioso avvenire d'Italia".

Poi, dopo brevi parole del sindaco, GABRIELE D'ANNUNZIO rientrato dalla Francia dove si era ritirato nel 1910 per sfuggire al dissesto finanziario, pronunciò la sua enfatica orazione: (qui nella sua originale forma)

Un'esaltazione della guerra e la necessità dell'intervento italiano.

"Maestà del Re d'Italia, assente e presente;
Popolo grande di Genova, Corpo del risorto San Giorgio;
Liguri delle due riviere e d'oltregiogo;
Italiani d'ogni generazione e d' ogni confessione, nati dell'unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli;
e voi miracolo mostrato dal non cieco destino, ultimi della sacra schiera sopravviventi in terra, o forse riapparsi oggi dalla profondità della gloria per testimoniare agli immemori, agli increduli, agli indegni come veramente un giorno respirasse in bocche mortali e moltiplicasse la forza delle ossa caduche quell'anima stessa che qui gira e solleva il bronzo durevole;
voi anche, discendenza carnale della Libertà e di Colui che nel bronzo torreggia immagini vive della sua giovinezza indefessa, che perpetuate pel mondo il suo amore di terra lontana e la sua ansia di combattere i mostri;
e tra voi, ecco, le due Ombre astanti, simili ai Gemelli di Sparta, con nel mezzo del petto quel fonte di sangue che d'improvviso sparse l'odore della primavera italica sopra la melma guerreggiata dell'Argonna;
perché siete oggi qui convenuti, su questa riva oggi a noi misteriosa come quella che inizia un'altra vita, la vita di là, la vita dell'oltre?
Perché siamo qui raccolti come per fare espiazione, come per celebrare un sacrificio, come per ottenere con la preghiera responso e comandamento?
Ciascuno di noi lo sa nel suo cuore devoto. Ma conviene sia detto, sotto questo cielo, affinché tutti,.dalla maestà del Re all'operaio rude, noi ci sentiamo tremare d'amore come un'anima sola.
Oggi sta su la patria un giorno di porpora; e questo è un ritorno per una nova dipartita, o gente d'Italia.
Se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ecco, in verità, nella nostra vigilia questo bronzo comanda.
È un comandamento alzato sul mare.
È una mole di volontà severa, al cui sommo s'aprono due ali e una ghirlanda s'incurva.
È ingente e potente come il flutto decumano, o marinai, come quell'onda che sorge con più d'impeto dopo le nove che son per seguirla: onda maggiore, che porta e chiama il coraggio.
I resuscitanti eroi sollevano con uno sforzo titanico la gravezza della morte perché il loro creatore in piedi li foggi in immortalità.
In piedi è il creatore, fisso a quella bellezza che sola visse nelle pupille dei nostri martiri e restò suggellata sotto le loro palpebre esangui.
Egli la guarda, egli la scopre, egli la rialza. Sta dinanzi a lui come una massa confusa. Egli la considera, non altrimenti che Michelangelo il blocco di marmo avverso.
Braccia d'artiere terribili son le sue braccia. Voi lo vedete. E le sue mani possiedono l'atto come le mani del Dio stringono la folgore. Non si sa se le gonfi di sì grandi vene la possa dell'opera compiuta o di quella ch' è da compiere.
Dov' è, se non in voi, se non nella unanimità vostra improvvisa, o Italiani, la balenante bellezza ch'egli oggi solleva e pone dinanzi a sé per indurla al rilievo sublime
Nessuno più parla basso; ché cessano il danno e la vergogna; l'ignavia di non veder, di non sentire cessano. E i messaggeri aerei ci annunziano che la Notte di Michelangelo s'è desta e che l'Aurora di Michelangelo, portando nel sasso il piede e il cubito, scuote da sé la sua doglia ed ecco già balza in cielo dall'Alpe d'oriente.
Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe, delle loro carni lacerate si rifasciano, dell'armi onde perirono si riarmano, della forza che vinse si ricingono: per quella che subito dai grandi omeri sprigiona le penne della Vittoria.
Delle lor bende funebri noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere.
Or, di lungi, l'osso dell'ala non sembra il taglio d'una tavola d'altare, sollevata dall'ebrezza dei martiri? E non v' è, dentro, una cavità, simile alla fossa del sacrificio, pel sangue e per la vampa ?
Ah, se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ben questo bronzo oggi grida e comanda.
Se mai a grandezza d'eroi fu dedicata opera di metallo, conflàtile detta dagli antichi nostri, ciò è composta di fuoco e di soffio, ben questa è la suprema, tutta fatta di fuoco e di soffio, di fede infiammata e d'anelito incessante, d'ardor sostenuto e d'ansia creatrice.
È calda ancora. Ancor ritiene il furor della fornace. Il nume igneo l'abita.
Forse la vedreste rosseggiare, se la luce del giorno non la velasse.
Io credo che stanotte apparirà tutta rovente sul fremito del mare, fatta, come questa nova concordia nostra, di fusione che non si fredda.
E gli altri eroi tornanti per Tirreno, dai sepolcreti di Sicilia ove il grano spiga e già pieno di frutto, diranno: "Lode a Dio ! Gli Italiani hanno riacceso il fuoco su l'ara d'Italia" .


Il poeta continuò, cantando la grande impresa, che sembrava una leggenda lontana nei secoli ed era invece impresa di ieri, glorificando il Duce dei Mille, che appariva come mitico eroe ed era invece il guerriero di ieri; infatti così proseguiva:

"Grandi testimoni l'attestano. Il duce nel bronzo, eccolo, ha la statura e la possa di Teseo. Ma voi lo vedeste, santissimi vecchi, voi lo vedeste col suo corpo di uomo, con l'umano suo corpo mortale, col suo passo di uomo sulla terra. Tale egli è nei vostri santi occhi.
Un figliuol suo, una creatura della sua carne, che le sue braccia cullarono, tra noi vive, parla, opera, aspetta di ricombattere. E non riarde al suo più rapido sangue nella giovinezza de' suoi nepoti che vivere senza gloria non sanno ma ben sanno morire?
Uomo egli fu, uomo tra uomini. E voi lo vedeste, santissimi vecchi, lo vedeste da presso come la Veronica vide Cristo in passione. Il suo volto vero è impresso nella vostra anima come nel sudario il volto del Salvatore.
Egli sorride. Voi lo vedeste sorridere! Diteci del suo coraggio. Apritevi il cuore, e mostrateci quel miracolo umano. Ciascuno di voi avrebbe voluto morire nell'attimo di quel baleno.
Questo luogo egli lo traversò, con le sue piante di marinaio lo stampò, bilanciando su la spalla la spada inguainata. Alzò gli occhi a guardare se Arturo, la sua stella, brillasse. Udiste la sua voce fatale, più tardi nel silenzio della bonaccia, su l'acqua piena di cielo.
Taluno di voi lo vide frangere il pane sotto l'olivo di Calatafimi ?
Ma quale di voi gli era vicino quando parve ch'egli volesse morire sopra uno dei sette cerchi disperati? Udiste allora la sua voce d'arcangelo"?
Disse: "Qui si fa l'Italia o si muore".
A lui che sta nel futuro "Qui si rinasce e si fa un' Italia più grande" oggi dice la fede d' Italia".

Poi il poeta accennò ai segni della "grande vigilia":

"O primavera angosciosa di dubbio e di patimento, di speranza e di corruccio !
Voi non udivate se non il romore cittadinesco, se non il clamore delle dissensioni, delle dispute, delle risse. Voi tendevate l'orecchio al richiamo dei corruttori. Consumavate i giorni senza verità e senza silenzio.
Ma i lontani scorgevano, di sotto alle discordie degli uomini, la patria raccolta nelle sue rive, la patria profonda, sola con la sua doglia, sola col suo travaglio, sola col suo destino.
Si struggevano di pietà filiale divinando il suo sforzo spasimoso, conoscendo quanto ella dovesse patire, quanto dovesse essa affaticarsi per generare il suo futuro.
E pensavano in sè: "Come soffri ! Come t'affanni! In quale ambascia tu smanii
T'abbiamo amata nei giorni foschi, t'abbiamo portata nel cuore quando tu pesavi come una sciagura. Chi di noi dirà quanto più, ora, ti amiamo? Tutta la passione delle nostre vite non vale a sollevare il tuo spasimo, o tu che sempre la più bella sei e la più: paziente. Come dunque ti serviremo?
Uomini siamo, piccoli uomini siamo; e tu sei troppo grande. Ma farti sempre più grande è la tua sorte. Per ciò dolora, travaglia, trambascia. Tu avrai i tuoi giorni destinati".

"E si mostravano i segni. Quando nella selva epica dell'Argonna cadde il più bello tra i sei fratelli della stirpe leonina, furono resi gli onori funebri al suo giovine corpo che fuor della trincea il coraggio aveva fatto numeroso come il numero ostile.
Parve ai poeti che i quattro figli d'Aimone discendessero dalle Ardenne per portar sulle spalle la bara del cavaliere tirreno.
Il primogenito, che ci ode, quegli dalla gran fronte, s'avanzò nel campo quadrato, dove gli altri uccisi dei nostri giacevano in lunga ordinanza; si chinò, smosse la terra, ne prese un pugno e disse: "Rinnovando un costume di nostra antica gente, su questi cari compagni che a Francia la libera hanno dato la vita e l'ultimo desiderio all'Italia, in tormento, spargiamo questa fresca terra perché il seme si appigli". Allora lo spirito di sacrificio apparì alla nazione commossa.

E venne un altro segno. L'estremo dei martiri di Mantova, il solo dei confessori intrepidi sopravvissuti alle torture del carnefice, Luigi Pastro, pieno d'anni e di solitudine, spirò la sua fede che, attanagliata dalle ossa ancor dure, non poté partirsi se non dopo lunga agonia.
Quando i pietosi lavarono la salma quasi centenaria, scoprirono intorno ai fusoli delle gambe i solchi impressi dalle catene. Erano là, indelebili, da sessant'anni; e parve li rivelasse agli Italiani per la prima volta una grafia della morte. Allora lo spirito di sacrificio riapparì alla nazione che si rammemorò di Belfiore.
E venne un altro segno. Un' ira occulta percosse e ruinò una regione nobile tra le nobili, quella dov' è radicata dalle origini la libertà, quella dove il Toro sabellico lottò contro la Lupa romana, dove gli otto popoli si giurarono fede, si votarono al fato tremendo e la lor città forte nomarono Italica.
Quivi la virtù del dolore da tutte le contrade convocò i fratelli. Il lutto fu fermo come un patto. Lagni non s'udirono, lacrime non si videro. I superstiti, esciti dalle macerie, offerirono all'opera le braccia contuse. Nella polvere lugubre le volontà si moltiplicarono, prima fra tutte quella sovrana. L'azione fu unanime e pronta. Una spirituale città fraterna sembrò fondata nelle rovine pel concorso di tutti i sangui; e meglio che quella del giuro, poteva chiamarsi Italica.
I fuorusciti di Trieste e dell'Istria, gli esuli dell'Adriatico e dell'Alpe di Trento, i più fieri allo sforzo e più candidi, diedero alle capanne costrutte i nomi delle terre asservite, come ad augurare e ad annunziare il riscatto.
Il fratello guardava il fratello, talvolta per leggere nel fondo degli occhi la certa risposta alla muta domanda.
Allora lo spirito di sacrificio entrò nella nazione riscossa, precorse la primavera d' Italia.
Ed ecco il segno supremo, ecco il comandamento.
Questo era, questo è nell'ordine segreto del nostro Iddio.
D'angoscia in angoscia, d'errore in errore, di timore in timore, di presagio in presagio, di preghiera in preghiera, egli ci ha sollevati alla santità di questo mattino.
Mentre questo santo bronzo si struggeva nella fornace ruggente e la forma da riempire si taceva nell'ombra della fossa fusoria, una più vasta fornace, una smisurata fornace s'accendeva "di spirital bellezza grande".
E non corbe di metallo bruto v'erano issate in sommo: ma, come i manovali gettano ad uno ad uno nel bacino i masselli, gli spiriti più generosi vi gettavano il meglio della virtù loro e incitavano i tardi e gli inerti con l'esempio.
Or ecco, alla dedicazione e sagra di questo compiuto monumento ci ha chiamati un messaggio d'amore.
E a questa sagra di popolo datore di martiri, per altissimo auspicio, è presente la maestà di Colui che, or è molt'anni, in una notte di lutto commossa da un fremito di speranze, salutammo Re eletto dal destino con segni che anch'essi ci parvero santi
A questa sagra tirrena istituita da marinai è presente la maestà di Colui che chiamato dalla morte venne dal Mare, che assunto dalla Morte fu Re nel Mare.
Risalutiamolo col voto concorde. Fedele è a lui il destino, ed Egli sarà fedele al destino.
Guarda egli la statua che sta, la statua che dura; ma intanto ode il croscio profondo della fusione magnanima.
Accesa è tuttavia l'immensa chiusa fornace, o gente nostra, o fratelli, e che accesa resti vuole il nostro Genio, e che il fuoco ansi e che il fuoco fatichi finché tutto il metallo si strugga, finché la colata sia pronta, finché l'urto del ferro apra il varco al sangue rovente della resurrezione.
Già da tutte le fenditure, già da tutti i forami biancheggia e rosseggia l'ardore. Già il metallo si comincia a muovere. Il fuoco cresce, e non basta. Chiede d'esser nutrito, tutto chiede, tutto vuole.
Voluto aveva il duce di genti un rogo su la sua roccia, che vi si consumasse la sua spoglia d'uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non gli fu acceso.
Non catasta d'acacia né di lentisco né di mirto ma di maschie anime egli oggi dimanda, o Italiani. Non altro più vuole. E lo spirito di sacrificio, che è il suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani griderà sul tumulto del sacro incendio: "Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia !".
O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.
Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero.
Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.
Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offriranno la loro offerta.
Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l'evento, accetteranno in silenzio l'alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.
Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.
Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d'Italia".

L'ON. GIOLITTI DAL RE SECONDO COLLOQUIO SALANDRA-GIOLITTI
NUOVE CONCESSIONI AUSTRIACHE
LE DIMOSTRAZIONI INTERVENTISTE DELL'11 MAGGIO

Mentre a Quarto si svolgeva la grandiosa cerimonia e la folla coronava l'orazione del Poeta con il grido di "Viva Trento e Trieste! Viva la guerra!", manifestazioni patriottiche avvenivano in tutta Italia e a Roma si riuniva il Consiglio dei Ministri che comunicava di aver denunciato il trattato della Triplice Alleanza. Oramai nessuno dissimulava la gravità del momento e, meno degli altri, BULOW e MACCHIO, dietro il consiglio dei quali famiglie tedesche ed austriache residenti da qualche tempo in Italia si affrettavano a partire.
Un altro segno della gravità del momento era la proroga della riapertura del Parlamento dal 12 al 20 maggio e si annunziava da un momento all'altro un regio decreto.
Il 7 maggio SONNINO informava il consiglio dei ministri che l'Italia si è impegnata ad entrare in guerra a fianco dell'Intesa entro il 25 maggio. Dopo un lungo dibattito il consiglio approvava la scelta dell'intervento e s'impegnava a dimettersi nel caso di un voto contrario della Camera.
L'8 maggio, il Re (che ormai si è già impegnato con Inghilterra, Francia e Russia) si dichiara pronto ad abdicare qualora la Camera bocci l'intervento a fianco dell'Intesa.

Mai, come in questa prima settimana di maggio, fu così attiva la stampa periodica italiana nel difendere il proprio punto di vista. Capitanava lo stuolo non piccolo dei fogli interventisti il battagliero "Popolo d'Italia", cui tenevano dietro l'"Idea Nazionale, il Corriere della Sera, il Secolo, il Mezzogiorno, la riformista Azione socialista, l'Idea democratica, l'Asino del Podrecca e, per non citarne altri, il battagliero "420" del Nerbini di Firenze.
Sosteneva il punto di vista ministeriale il Giornale d'Italia; una politica di vigile attesa caldeggiava la "Nuova Antologia" di MAGGIORINO FERRARIS; portavoce di Giolitti erano, fra gli altri, "La Tribuna e La Stampa; decisamente neutralisti, il "Popolo Romano, l'Avanti !, l'Osservatore romano, la Perseveranza, l'Unità Cattolica, il Mulo, il Bastone, ecc.

Intanto quasi quotidianamente si diffondevano notizie vere o false intorno a visite e colloqui di ministri e diplomatici, di modo che nelle grandi città, specie a Milano, a Genova e a Roma, avvenivano tumultuose dimostrazioni interventiste, antagonistiche a quelle pacifiste.
Una dimostrazione ostile fu fatta la sera del 5 maggio a Giolitti mentre partiva da Torino per raggiungere Roma e non meno ostile fu quella che l'accolse al suo arrivo nella capitale il giorno 6.
Giolitti rientra a Roma dopo un'assenza di tre mesi, e non sa nulla sul patto di Londra firmato pochi giorni prima.

Il giorno 7 l'on. GIOLITTI fu visitato dall'on. CARCANO, mandato da SALANDRA ad esplorare l'animo del deputato di Dronero con l'istruzione però di non rivelargli le stipulazioni del 26 aprile, ma di fargli solo qualche cenno degli impegni personali presi da Salandra e da Sonnino con i Governi dell'Intesa e dei vantaggi che venivano all'Italia da un'azione comune con la Francia, l'Inghilterra e la Russia. L'on. Giolitti deplorò la denunzia della Triplice, ma, poiché CARCANO non gli parlò delle stipulazioni del 26, Giolitti non mostrò di allarmarsi della situazione.

La mattiná del 9 maggio, Giolitti fu ricevuto dal Re, al quale espose le ragioni contrarie alla guerra e gli assicurò essere avversa all'intervento italiano la maggior parte del Paese e del Parlamento. Richiesto dal Sovrano se non credesse opportuno prendere le redini del Governo, rispose esser meglio lasciare SALANDRA purché questi si conformasse alla volontà del Parlamento. Più tardi l'on. BERTOLINI si recò da Giolitti, gli portò uno schema delle ultime concessioni austriache e lo informò che Salandra desiderava parlargli.
Il colloquio tra gli onorevoli GIOLITTI e SALANDRA si svolse nel pomeriggio dello stesso giorno in casa di quest'ultimo. Un amico del primo, richiesto dal "Giornale d'Italia" sul colloquio, così rispose: "Ognuno è rimasto nella sua opinione. L'on. Salandra ha spiegato lungamente, anche efficacemente, il suo punto di vista e il punto di vista del Governo: l'on. Giolitti ha ascoltato con vivo interesse e ha riconosciuto che le ragioni, le argomentazioni e i dati di fatto esposti dall'on. Salandra non erano certamente privi di valore, anzi avevano un valore incontestabile; ma ha concluso che, pur tenendo tutto ciò nel debito conto, egli rimaneva nella sua opinione, cioè non si sentiva di poterla mutare; perché al disopra di ogni argomentazione svolta e illustrata dall'on. Salandra, l'ex presidente del Consiglio ha sempre creduto, e crede tuttavia, che la guerra sia un grave pericolo date le condizioni del Paese e possa trasformarsi in un danno anche riuscendo vittoriosa".

I vantaggi della vittoria non avrebbero potuto né riparare i danni, né ristabilire l'equilibrio. Giolitti credeva che la neutralità italiana, sia pure negoziata contro compensi territoriali (quello che in una lettera chiamò il "parecchio" che si sarebbe potuto ottenere dall'Austria) avrebbe potuto abbreviare la durata del conflitto. Vedeva e fu buon profeta nella prima parte ma cadde in errore nella seconda, non sulle conseguenze della guerra, ma nel credere che queste conseguenze potessero essere evitate prolungando in quel clima la sua felice politica di stare alla finestra a guardare, a fare il consueto gioco riuscito altre volte: lasciare agli altri il "problema" e ritornarsene in campagna.

Giolitti disse inoltre che, prima di ingolfarsi in una guerra, era meglio indagare circa le intenzioni dei neutri e di tentare ancora di accordarsi con l'Austria, le cui ultime concessioni gli sembravano accettabili.
Ma Salandra non si lasciò convincere.
Le concessioni austriache all'Italia rappresentavano l'ultima cartuccia degli Imperi centrali contro gl'interventisti italiani. Furono definitivamente concordate a Roma dal Bulow, da Macchio, da Erzberger e da altri e, con data del 10 maggio, giunsero il mattino dell'11 a Salandra e a Sonnino.

Il testo dello schema delle concessioni era il seguente:
"1°. Tutto il Tirolo che è di nazionalità italiana; -
2°. Tutta la riva occidentale dell'Isonzo, che è di nazionalità italiana, con Gradisca;
3°. Piena autonomia municipale, università italiana e porto-franco per Trieste, che sarà città libera;
4°. La città di Valona in Albania;
5°. Disinteressamento completo dell'Austria in Albania;
6°. Salvaguardia degli interessi nazionali dei sudditi italiani in Austria-Ungheria;
70. Esame benevolo dei voti, che l'Italia mettesse ancora su tutto l'insieme delle questioni, formanti l'oggetto dei negoziati (segnatamente Gorizia e le isole); l'Impero di Germania assume ogni garanzia per l'esecuzione fedele e leale dell'accomodamento da concludersi fra l'Italia e l'Austria-Ungheria. L'ambasciatore d'Austria-Ungheria e l'ambasciatore di Germania garantiscono l'autenticità delle proposte summenzionate".

Poche ore dopo, con una lettera, il principe di BULOW precisava alcuni punti dello schema, dicendo che Trieste avrebbe ricevuto il titolo di libera Città imperiale, che il suo statuto municipale sarebbe stato rivisto, che avrebbe mantenuta la sua autonomia attuale, assicurando il carattere italiano e allargata la zona franca; che sarebbe riconosciuta la piena sovranità italiana su Valona e
suo hinterland; che sarebbero benevolmente esaminati i voti italiani per Gorizia e le isole adriatiche e, infine, che l'Austria Ungheria avrebbe rinunciato a reclamare contro l'occupazione italiana del Dodecaneso.

Ma queste concessioni giunsero tardive e inoltre non erano accompagnate dall'assicurazione dell'immediata esecuzione. I ministri, riunitisi quel giorno stesso, le respinsero e decisero di dimettersi se il neutralismo trionfava. E a farlo trionfare si dava da fare GIOLITTI, sicuro di avere con sé oltre che la maggioranza della Camera anche quella del Paese.
Ma la parte attiva del Paese, quella che in ogni circostanza sa imporre la propria volontà, non era con l'ex-presidente del Consiglio, un po' germanofilo e molto neutralista; il Paese si agitava per far trionfar la sua tesi interventista che non era la tesi della Camera, quasi interamente neutralista. Né poteva essere diversamente; Giolitti aveva dato fisionomia ai singoli deputati, e questi non erano abituati a modificare le loro personali opinioni secondo il giudizio e i sentimenti dei loro elettori che li avevano mandati alla Camera alle elezioni del 1913 che però non si erano fatte sul tema della pace o della guerra. Quindi tra il 1914 e il 1915 era dunque fatale che si determinasse una frattura tra la Camera e l'opinione pubblica e che, inoltre cominciassero a prevalere, in quest'ultima, le simpatie per l'Intesa e sempre più antipatia per la Triplice.

La sera dell'11 maggio gl'interventisti milanesi inscenavano una violenta dimostrazione e andavano a fischiare sotto il consolato germanico, facevano abbassare le insegne di negozi tedeschi, fra cui una birreria di via Dogana, dalla cui soglia FILIPPO CORRIDONI arringava i dimostranti; poi si recarono sotto le finestre del "Corriere della Sera" ad applaudirlo e lì pronunciarono brevi discorsi GASPAROTTO, AGNELLI, GUGLIELMO FERRERO e LUZZATTO, poi si diressero sotto quelle del "Popolo d' Italia", il cui direttore BENITO MUSSOLINI non si fece proprio pregare per arringare la folla:
"Io condivido pienamente la vostra indignazione profonda per le notizie pervenute da Roma. Sembra che, complice Giovanni Giolitti, si mercanteggi nel modo più abbietto l'avvenire d'Italia. Cittadini! Permetteremo noi che il turpe mercato si compia?... Permetteremo che -secondo le notizie che giungono da Roma, -si riesca a rovesciare il ministero Salandra ed evitare l'intervento, che solo può compiere i destini d'Italia? Cittadini!... Se l'Italia non avrà la guerra alla frontiera, essa avrà fatalmente, inevitabilmente la guerra interna! E la guerra civile vuol dire la rivoluzione. Cittadini ! Gridiamo ancora una volta qui: Viva la guerra liberatrice !".

Nel tardo pomeriggio, migliaia di persone con bandiera, dopo un'arringa di ARTURO LABRIOLA, dal corso Umberto si recavano in via del Tritone elevando grida ostili all'indirizzo di negozi tedeschi e giornali neutralisti, quindi andavano a fare un'entusiastica dimostrazione sotto la casa dell'on. SALANDRA, tentavano di recarsi sotto l'abitazione dell'on. GIOLITTI e, dopo avere applaudito sotto le finestre di SONNINO e fischiato sotto l'ambasciata d'Austria, si scioglievano.

GIOLITTI CHIAMATO "NEMICO DELLA PATRIA"
LA LETTERA A MALAGODI

Quella sera stessa, i rappresentanti di tutte le associazioni politiche di Roma sostenitrici dell'intervento, riunitisi in assemblea, deliberavano di costituirsi in Comitato di azione ed approvavano il seguente ordine del giorno:

"I rappresentanti di tutti i partiti interventisti romani e dei profughi irredenti, riconfermando il proposito di ispirarsi ad un'azione concorde in difesa dei supremi interessi délla Nazione, plaudono all'energico contegno tenuto dal Governo responsabile di fronte alle insidiose trattative con gli ambasciatori austro-tedeschi, aiutati da una fazione di politicanti che sacrificano a miserabili tornaconti di clientele le stesse ragioni di esistenza del proprio Paese; additano al risentimento di tutti gli italiani l'uomo che tali clientele impersona e protegge, responsabile ieri della disorganizzazione dell'esercito nazionale, colpevole oggi di illecite inframmettenze e di perfide pressioni sui poteri responsabili; dichiarano Giovanni Giolitti complice dello straniero e nemico della Patria; e, fidando che il governo ed il popolo sapranno "con ogni mezzo" tutelare l'onore e assicurare le fortune d' Italia, invitano i cittadini di Roma a riconsacrare davanti al Poeta dei Mille la passione dei padri con la nuova guerra liberatrice e redentrice dei figli".

Contro quest'ordine del giorno, protestava il giorno dopo Giolitti con una lettera "al caro MALAGODI", direttore della "Tribuna:
"Leggo in un giornale di Roma che in una riunione tenuta nella sede del Partito socialista riformista sono stato dichiarato nemico della Patria, perché colpevole di illecite ingerenze e di perfide pressioni sui poteri responsabili, tutto ciò perché - "neppure, di mia iniziativa, ma chiamato" - ho espresso, come era mio stretto dovere, un'opinione conforme alle mie convinzioni e coerente con le opinioni già manifestate e in un discorso parlamentare e nella pubblica stampa. È inesplicabile come partiti che professano principi di ampia libertà abbiamo così poco rispetto per le opinioni altrui".

Con le parole "neppure di mia iniziativa, ma chiamato" Giolitti alludeva al Re, che, infatti, l'aveva invitato a Roma il 5 maggio, in seguito ad una grave comunicazione fatta dall'on. FERRI, al suo aiutante di campo generale, BRUSATI.

G. D'ANNUNZIO A ROMA - IL SUO DISCORSO AI ROMANI

La sera dello stesso 12 maggio giungeva a Roma GABRIELE D'ANNUNZIO, accolto da molte migliaia di persone, alle quali dal balcone dell'Hotel Regina così arringava la folla:

"Romani, Italiani, fratelli di fede e d'ansia, amici miei nuovi e compagni miei d'un tempo, non a me questo saluto d'ardente gentilezza, di generoso riconoscimento. Non me che ritorno voi salutate, io lo so, ma lo spirito che mi conduce, ma l'amore che mi possiede, ma l'idea che io servo. Il vostro grido mi sorpassa, va più alto. Io vi porto il messaggio di Quarto, che non è se non un messaggio romano alla Roma di Villa Spada e del Vascello.
Dalle mura Aureliane stasera la luce non s' è partita, non si parte. Il chiarore s'indugia a San Pancrazio. Or è sessantasei anni (contrapponiamo la gloria all'onta) in questo giorno, il Duce di uomini riconduceva da Palestrina in Roma la sua Legione predestinata ai miracoli di giugno. Or è cinquantacinque anni (contrapponiamo l'eroismo alla pusillanimità), in questa sera, in quest'ora stessa, i Mille, in marcia da Marsala verso Salemi, sostavano; e a pie' dei lor fasci d'armi mangiavano il loro pane e in silenzio s'addormentavano.
Avevano in cuore le stelle e la parola del Duce, che è pur viva e imperiosa oggi a noi: "Se saremo tutti uniti, sarà facile il nostro assunto. Dunque all'armi !".
Era il proclama di Marsala; e diceva ancora, con rude minaccia: " "Chi non s'arma è un vile o un traditore".
Non stamperebbe dell'uno e dell'altro marchio, Egli il Liberatore, se discendere potesse dal Gianicolo alla bassura, non infamerebbe Egli così quanti oggi in palese o in segreto lavorano a disarmare l'Italia, a svergognare la Patria, a ricacciarla nella condizione servile, a rinchiodarla su la sua croce, o a lasciarla agonizzare in quel suo letto che già talvolta ci parve una sepoltura senza coperchio
C' è chi mette cinquant'anni a morire nel suo letto. C' è chi mette cinquant'anni a compiere nel suo letto il suo disfacimento. È possibile che noi lasciamo imporre dagli stranieri di dentro e di fuori, dai nemici domestici e intrusi, questo genere di morte alla nazione che ieri, con un fremito di potenza, sollevò sopra il suo mare il simulacro del suo più fiero mito, la statua della sua volontà romana, o cittadini?
Come ieri l'orgoglio d'Italia era tutto volto a Roma, così oggi a Roma è volta l'angoscia d'Italia, che da tre giorni non so che odore di tradimento ricomincia a soffocarci.
No, noi non siamo, noi non vogliamo essere un museo, un albergo, una villeggiatura, un orizzonte ridipinto col blu di Prussia per le lune di miele internazionali, un mercato dilettoso ove si compra e si vende, si froda e si baratta.
Il nostro Genio ci chiama a porre la nostra impronta su la materia rifusa e confusa del nuovo mondo. Ripassa nel nostro cielo quel soffio che spira nelle terzine prodigiose in cui Dante rappresenta il volo dell'aquila romana, o cittadini, il volo dell'aquila vostra.
Che la forza e lo sdegno di Roma rovescino alfine i banchi dei barattieri e dei falsari. Che Roma ritrovi nel Foro l'ardimento cesariano. "II dado è tratto". Gettato è il dado su la rossa tavola della terra.
Il fuoco di Vesta, o Romani, io lo vidi ieri ardere nelle grandi acciaierie liguri,
nelle fucine che vampeggiano di giorno e di notte, senza tregua. L'acqua di Giuturna, o Romani, io la vidi ieri colare a temprar piastre, a raffreddar le frese che lavorano l'anima dei cannoni.
L'Italia s'arma, e non per la parata burlesca ma pel combattimento severo. Ode da troppo tempo il lagno di chi laggiù oggi soffre la fame del corpo, la fame dell'anima, lo stupro obbrobrioso, tutti gli strazi.
Calpesta dal barbaro atroce,
o madre che dormi, ti chiama
una figlia che gronda di sangue.
Or è cinquantacinque anni, in questa sera, in quest'ora stessa, i Mille s'addormentavano per risvegliarsi all'alba e per andare avanti, sempre avanti, non contro il destino, ma verso il destino, che ai puri occhi loro faceva con la luce una sola bellezza.

Si risvegli Roma domani nel sole della sua necessità, e getti il grido del suo diritto, il grido della sua giustizia, il grido della sua rivendicazione, che tutta la terra attende, collegata contro la barbarie.
Dov' è la Vittoria ? chiedeva il poeta giovinetto caduto sotto le vostre mura, mentre anelava di poter morire su l'alpe orientale, in faccia all'Austriaco.
O giovinezza di Roma, credi in ciò che ei credette; credi, sopra tutto e sopra tutti, contro tutti e contro tutto, che veramente Iddio creò schiava di Roma la Vittoria.
Com' è romano forti cose operare e patire, così è romano vincere e vivere nella vita eterna della Patria.
Spazzate dunque, spazzate tutte le lordure, ricacciate nella Cloaca tutte le putredini !
Viva Roma senza onta! Viva la grande e pura Italia!".

Il giorno 13 getta altra benzina sul latente fuoco delle frustrazioni, dell'impotenza sociale e politica, affidando agli ascoltatori un ruolo di potere, di giustizieri, di salvatori della patria, di eroi, eroi che debbono scagliarsi contro il "mestatore" Giolitti, colui che vuol venderli all'Austria "come greggia infetta": "Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi, spezzate le false bilance! Stanotte pesa su noi il fato romano; stanotte su noi pesa la legge romana... Le nostre sorti non si misurano con la spanna del merciaio, ma con la spada lunga. Peṛ col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell'ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso Giove trasformandosi a volta a volta in bue terreno e in pioggia d'oro. Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando. Vorrei poter dire: io ve li consegno. I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica i benemeritissimi. Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante".

Nell'edizione del giorno dopo "L'Idea Nazionale" (quotidiano romano portavoce degli interessi che puntavano al protezionismo industriale e al nazionalismo economico, contrapponendosi al sistema liberistico) spara un violento articolo di fondo, titolando "Il Parlamento contro l'Italia". Eccone uno stralcio: "II Parlamento è Giolitti; Giolitti è il Parlamento: il binomio della nostra vergogna. Questa è la vecchia Italia, la vecchia Italia che ignora la nuova, la vera, la sacra Italia risorgente nella storia e nell'avvenire... L'ignora appunto perché è il Parlamento. Parlamento, cioè la falsificazione della nazione... L'urto è rnortale. 0 il Parlamento abbatterà la Nazione e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani; e in faccia al mondo che aspetta proclamerà la volontà della sua vita, la moralità della sua vita, la bellezza augusta della sua vita immortale".

DIMISSIONI DEL GABINETTO SALANDRA

Il giorno dopo la minacciosa manifestazione ostile a GIOLITTI, più di 320 deputati e circa 100 senatori, lasciarono il loro biglietto da visita nella portineria della casa di Giolitti, per sottolineare pubblicamente la loro adesione alla linea neutralista, e a testimoniare il loro dissenso dalla politica regia.
Che significato bisognava darle? SALANDRA interpretò quella manifestazione come una indicazione degli umori della maggioranza, Ma non dimentichiamo che quei "trecento" formavano la stessa maggioranza sulla quale si fondava il ministero Salandra, e lui stesso era di origine giolittiana. Oltre la sua onestà ed eleganza (ma disse anche che il problema era superiore alle sue forze) , siamo più che certi che tutti i parlamentari si associarono a Salandra, quando lui volle mettersi da parte e indicò GIOLITTI come l'uomo adatto a risolvere la crisi.

Il giorno dopo, il 13 maggio, un comunicato ufficiale della Stefani gettava nella costernazione gli interventisti e faceva gioire i sostenitori della neutralità: il Gabinetto Salandra si era dimesso. Il comunicato diceva:
"Il Consiglio dei ministri, considerando che intorno alle direttive del Governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali che sarebbe richiesto dalla gravità della situazione, ha deliberato di presentare a S. M. il Re le proprie dimissioni. S. M. il Re si è riservato di deliberare".

Vittorio Emanuele III, questa volta aveva un grosso problema: chiamare Giolitti, l'abilissimo manovratore che sapeva sempre rivestire di consenso parlamentare la sua politica personale, oppure respingere le dimissioni di Salandra?
E se Giolitti era abile nella strategia parlamentare, il Re non era da meno e poteva anzi dagli dei punti. Infatti, il Re non perse tempo. La crisi era extraparlamentare. E poiché Giolitti rifiutava l'incarico, suggerendo però MARCORA o CARCANO, ed era una soluzione che mancava di chiarezza e, diciamolo pure, di onestà politica, il sovrano -come vedremo nel prossimo capitolo- respinse le dimissioni di Salandra, rimandandolo alle Camere.
E… - colpo di scena- i 300 e più di Giolitti che dovevano assumersi la responsabilità di liquidare la politica interventista, votarono poi tutto quello che il Ministero Salandra chiese. E la Guerra fu dichiarata (però alla sola Austria, il che dispiacque ai nuovi alleati) nell'entusiasmo (*) generale del Paese e nella costernazione della classe dirigente, che aveva votato bianco pensando a nero e che con questa menzogna aveva firmato la propria condanna a morte.
(*) Su questo "entusiasmo", nel dopoguerra lo stesso Salandra ammise che la maggioranza degli italiani, nel 1915, era contraria all'intervento).

Giolitti insomma non assunse un atteggiamento politico coraggioso. Eppure - se fosse stato convinto della necessità di mantenere l'Italia al di fuori del conflitto- controllando i suoi "trecento e più" della maggioranza, poteva in qualsiasi momento riprendere il potere, e opporre in sede opportuna il suo giudizio a quello del Re; anche se ormai la corona si era impegnata a Londra; ma del patto segretissimo Giolitti non sapeva ancora nulla, nè fu informato cosa conteneva.

Coraggioso o no, la non belligeranza proposta dall'Austria e sostenuta fino all'ultimo dal Giolitti, sarebbe stata la soluzione più saggia; a guerra finita (vittoriosa ma con uno spaventoso bilancio fallimentare) l'Italia ottenne poco più di quanto non avesse già offerto l'Austria in questi ultimi mesi della neutralità italiana. Con la differenza che furono chiamati alle armi 5 milioni di uomini, che sul campo ne rimasero morti 600.000, che costò fra spese e... debiti (per 60 anni, fino al 1978) 148 miliardi di lire, pari al doppio di tutta la spesa pubblica del Regno Unito d'Italia... dal 1861 al 1913 ! !

Questa catastrofe sta per cominciare proprio ora, nelle "radiose giornate di maggio"....
"Anziché rifiutare la guerra -sosteneva Amendola - è necessario ricondurla alla sua matrice spirituale, che è la stessa delle più alte manifestazioni dell'intelletto umano".
(da notare che il 70% degli uomini mandati al massacro erano "fanti contadini", analfabeti)

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LA VIGILIA - LE ESALTAZIONE - I PIENI POTERI

il "maggio radioso", verso la fine della neutralità dell'Italia
LE DIMOSTRAZIONI INTERVENTISTE DOPO LE DIMISSIONI DEL GABINETTO SALANDRA - VIOLENTO DISCORSO DI G. D'ANNUNZIO A ROMA - IL 13 MAGGIO A MILANO - L'ON. GIOLITTI ACCUSATO DI ALTO TRADIMENTO - IL MINISTERO SALANDRA RICONFERMATO IN CARICA - LE MANIFESTAZIONI DI GIUBILO - UN DISCORSO DI G. D'ANNUNZIO E UN ARTICOLO DI BENITO MUSSOLINI - G. D'ANNUNZIO PARLA DAL CAMPIDOGLIO AI ROMANI - LE ULTIME SPERANZE AUSTRO-GERMANICHE - IL "LIBRO VERDE" - LA STORICA SEDUTA DEL 20 MAGGIO ALLA CAMERA: IL DISCORSO DELL'ON. SALANDRA; IL DISEGNO DI LEGGE SUI PIENI POTERI AL GOVERNO.

LE DIMOSTRAZIONI INTERVENTISTE

A Roma le manifestazioni interventiste contro GIOLITTI, fin dal giorno del suo arrivo (era rientrato nella capitale dopo tre mesi di assenza, proponendo di liberare l'Italia dagli impegni con l'intesa, e chiesto al Parlamento di votare la ripresa delle trattative con l'Austria, che aveva promesso nuove proposte) erano dimostrazioni piuttosto violente; questi atti indignarono molti deputati e senatori; la stessa sera, 320 onorevoli e circa 100 senatori, vollero pubblicamente sottolineare la loro adesione alla linea giolittiana neutralista, lasciando a casa di Giolitti il proprio biglietto da visita per rimarcare pubblicamente la loro partecipazione, che era poi quella neutralista.

Sull'onda di questa manifestazione dei propri colleghi, SALANDRA non tardò a capire il significato e interpretò quelle espressioni dirette all'uomo di Dronero, come un'indicazione degli umori della maggioranza. Quindi deciso a farsi da parte e cedere il comando.
Il giorno dopo, il 13 maggio, un comunicato ufficiale della Stefani annunciava le dimissioni di Salandra, e gettavano nella costernazione gli interventisti e facevano gioire i sostenitori della neutralità.

La costernazione prodotta fra gli interventisti dall'annuncio delle dimissioni del Gabinetto SALANDRA durò però pochissimo, perché fuori del Parlamento (ma anche in molte città italiane) ci fu una durissima reazione degli interventisti, con i tumulti che montavano e preoccupavano il sovrano. Molti avevano ormai capito che quella maggioranza -che era quasi tutta giolittiana, avrebbe richiamato al governo lo "sdrammatizzatore", il "neutralista", non proprio filo-austriaco, ma comunque filo-germanico.
Infatti, quasi tutti i deputati si associarono all'onesto Salandra che si faceva da parte, e nell'indicare Giolitti come l'uomo adatto a risolvere la brutta crisi. Senonché, GIOLITTI rifiutò e suggerì di farlo formare da MARCORA o CARCANO.
Le sue ragioni furono queste: se la successione di Salandra l'avesse presa lui, il passaggio da un interventista dichiarato ad un neutralista non meno dichiarato, avrebbe indotto gli Imperi Centrali ad irrigidirsi, e le trattative (che erano in corso, per una concertata soluzione, almeno così sembravano) si sarebbero concluse in un totale fallimento. Carcano o Marcora, pur essendo pure loro giolittiani, avrebbero condotto le trattative con maggiore duttilità e realismo, perché pure loro capaci -affermava Giolitti- di dichiarare guerra, se questo fosse stato necessario.

La giustificazione e quindi la soluzione di Giolitti per molti, e al Re stesso, non era però molto chiara, inoltre alcuni pensarono che Giolitti faceva il consueto gioco; passare ad altri la "patata bollente", poi finita la bufera, in un modo o in un altro risorgere.
Ma questa volta ad essere più realista e abile non fu Giolitti, ma il suo compare di sempre, il Re; che ebbe una visione più vasta del suo -fino allora- prediletto uomo politico. Vittorio Emanuele non guardava solo all'interno (lotta tra interventisti e neutralisti) perché la crisi questa volta era esterna ed era internazionale. Lo scontro era tra le nazioni dell'Intesa e l'Impero Centrale. Due mezze Europa, ognuna decisa a farne una sola. Dopo le speranze che sarebbe stata una "guerra breve", questa ormai dopo pochi mesi appariva già una "guerra di logoramento", una guerra ad "oltranza".

In questo scontro c'erano per l'Italia (e quindi per il Re) due grosse trappole. La prima: se la neutralità dell'Italia avesse abbreviato il conflitto a vantaggio della Germania e dell'Austria, quale sarebbe stata poi la sorte definitiva dell'Italia? La loro vittoria sarebbe stata il trionfo di quelle forze conservatrici contro le quali l'Italia si era formata. Non c'era da illudersi sulla sorte dell'Italia se in Europa si fosse stabilita l'egemonia della forza germanica. Perché era chiaro che dopo la vittoria (quindi anche Francesco Giuseppe s'illudeva) l'impero germanico avrebbe ereditato e potenziato (e sicuramente spazzato via) l'imperialismo asburgico. E chi avrebbe poi fermato i tedeschi nel Trentino o sull'Isonzo?

Nel grande programma di Nauman (lui a dare quella definizione rimasta classica "Mitteleuropa") nella sua concezione "democratica", si sarebbe dovuto metter fine alla separazione dell'Austria dalla Germania, tutta l'Austria e Ungheria sarebbe entrata a far parte dello Stato nazionale tedesco; la supremazia economica e culturale tedesca si sarebbe estesa fino a Costantinopoli e forse anche oltre con l'impero zarista smembrato; forse esteso fino al Caucaso ed al Golfo Persico.

 

Insomma il rischio più grande era quello di una vittoria degli Imperi Centrali. Quindi l'Italia "doveva" "combattere" per impedire la vittoria degli Imperi Centrali.
Seconda trappola: da scartare totalmente l'idea di schierarsi con gli Imperi Centrali; nonostante la Triplice Alleanza (che andava bene solo in tempo di pace e di quiete - e che V.E. III, dopo averla ereditata, aveva sempre guardato con diffidenza) una guerra italiana a fianco degli Austriaci sarebbe partita impopolare, avrebbe smentito tutta la tradizione del Risorgimento, stracciato tutta la memorialistica garibaldina, cancellato la retorica divulgativa scolastica, spento i giovanili entusiasmi. E teniamo presente che erano proprio queste immagini avventurose ed eroiche delle guerre ottocentesche, che alimentavano i giovani irredentisti, gli interventisti, ed infine gli intellettuali che su quelle immagini risorgimentali si gettarono con slancio per ritemprare le energie spirituali delle nuove generazioni (Come, in abbondanza -abbiamo letto e leggeremo qui ancora- stava facendo Gabriele D'Annunzio).

Oltre il Re, c'era un altro - e con molto anticipo- ad aver capito cosa questa volta c'era in gioco. Lo aveva capito fin dal primo annuncio dell'attentato a Sarajevo e del Memortandum austriaco. Era Benito Mussolini, che in vacanza a Cattolica rientrò precipitosamente al giornale. In una intervista a Michele Campana alla domanda se anche i socialisti tedeschi si sarebbero affiancati all'imperatore : "Non ne ho il minimo dubbio. L'Internazionale socialista verrà rotta... Non creiamoci illusioni. Gli Imperi centrali mirano attraverso la Serbia a colpire l'Inghilterra e la Francia. La guerra europea è inevitabile, e la Francia ne sarà la prima vittima, se i popoli più civili non si metteranno insieme per salvarla. La sconfitta della Francia sarebbe un colpo mortale per la libertà in Europa". (P.Monelli, Mussolini Piccolo borghese, Vallardi, 1983)

VIOLENTO DISCORSO DI G. ANNUNZIO A ROMA
IL 13 MAGGIO A MILANO - L'ON. GIOLITTI ACCUSATO DI ALTO TRADIMENTO

Lo stesso 13 maggio, a Roma, i dimostranti dopo avere invano tentato di portarsi a Villa Malta, residenza di BULOW, andarono ad acclamare Gabriele d'Annunzio, che tenne loro un discorso violentissimo:
contro il "mestatore di Dronero"; eccone il testo integrale:

"Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di azioni romane. Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai risoluti, non esiterei: né mi parrebbe di averne rimordimento (rimorso - Ndr). Ogni eccesso della forza è lecito, se vale ad impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori riesca ad imbrattare e a perdere l'Italia. Tutte le azioni necessarie assolve le legge di Roma.
Ascoltatemi: Intendetemi. Il tradimento è oggi manifesto. Non ne respiriamo soltanto l'orribile odore, ma ne sentiamo già tutto il peso obbrobrioso. Il tradimento si compie in Roma, nella città dell'anima, nella città di vita ! Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino. In Roma si compie l'assassinio. E se io sono il primo a gridarlo, e se io sono il solo, di questo coraggio voi mi terrete conto domani ....
Udite! Noi siamo sul punto d'esser venduti come una greggia infetta. Su la nostra dignità umana, su la dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia d'un marchio servile.

"Chiamarsi italiano sarà nome di rossore, nome da nascondere, nome da averne bruciate le labbra ....
"Questo vuol far di noi il mestatore di Dronero, intruglio osceno, contro il quale un gentiluomo di chiarissimo sangue romano, Onorato Caetani, or è molt'anni, scoccò un epigramma crudele .... Questo vuol fare di noi quell'altro ansimante leccatore di sudici piedi prussiani, che abita qui presso; contro il quale la lapidazione e l'arsione, subito deliberate e attuate, sarebbero assai lieve castigo.
Questo di noi vuol fare la loro seguace canaglia. Questo non faranno. Voi me ne state mallevadori, Romani. Giuriamo, giurate che non preverranno.

"Il vostro sangue grida. La vostra ribellione rugge. Finalmente voi vi ricordate della vostra origine. La storia vostra si fece forse nelle botteghe dei rigattieri e dei cenciaiuoli? Le bilance della vostra giustizia crollavano forse dalla banda ov'era posto un tozzo da maciullare, un osso da rodere? Il vostro Campidoglio era forse un banco di barattatori e di truffardi La gloria? vi s'affaccendava e ciangottava da rivendugliola?
Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti; non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance! Stanotte su noi pesa il fato romano; stanotte su noi pesa la legge romana. Accettiamo il fato, accettiamo la legge.

"Imponiamo il fato, imponiamo la legge!
Le nostre sorti non si misurano con la spanna del merciaio, ma con la spada lunga. Però con bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell'ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso Giove trasformandosi a volta a volta in bue tenero e in pioggia d'oro. Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse, ha spavento del castigo corporale. Io ve li raccomando. Vorrei poter dire: io ve li consegno. I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica benemeritissimi.
Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante. Questo vi chiedo. Questo è necessario. È necessario che non sia consumato in Roma l'assassinio della Patria. Voi me ne state mallevadori, o Romani. Viva Roma Vendicatrice !".

A Milano, quel giorno stesso, la folla dei dimostranti, arringata da RICCARDO LUZZATTO acclamava questo ordine del giorno:

"Il popolo di Milano .... ricorda al Governo investito della fiducia del Paese che una debolezza di fronte alle inframmettenze incostituzionali dei nemici della Patria lo renderebbe partecipe del tradimento; e chiede che la guerra nazionale venga senza indugio dichiarata dal Capo dello Stato interprete della volontà del popolo".

Le dimostrazioni a Milano continuarono tutto il giorno e terminarono la sera del 13 con un tragico bilancio un morto, l'operaio Gadda, e una ventina di feriti.
La giornata del 13 si chiudeva a Roma con la riunione dei rappresentanti di tutti i partiti interventisti e l'acclamazione di questo ordine del giorno:

"L'assemblea unanime conferma il proposito di manifestare contro, qualunque sia per essere, il nuovo Ministero, e indipendentemente dal fatto costituzionale della crisi, la volontà nazionale della guerra contro gli Imperi centrali e di non permettere a nessun costo che rappresentino e governino l'Italia uomini venduti allo straniero e traditori della Patria".

Continuarono nei giorni successivi a fioccare gli ordini del giorno favorevoli all'intervento e al Ministero e continuarono le dimostrazioni in tutte le città d'Italia. A Genova un messaggio di'Annunzio infiammava gli animi e a Roma la sera del 14 lo spettacolo teatrale al Costanzi si mutava in comizio, dove il Poeta aveva parole roventi contro GIOLITTI, che accusava di...
"…essere in commercio con lo straniero, in servizio dello straniero, per avvilire, per asservire, per disonorare l'Italia a vantaggio dello straniero", che chiamava capo dei malfattori, la cui anima non era "se non non una gelida menzogna articolata di pieghevoli astuzie", traditore del Re e della Patria", …
"Sarà- terminava d'Annunzio - il Parlamento d'Italia riaperto il 20 di maggio?
Il 20 di maggio è l'anniversario della portentosa marcia garibaldina sul Parco. Celebriamolo sbarrando l'ingresso agli sguatteri di Villa Malta e ricacciandoli verso il loro dolciastro padrone. Nel Parlamento italiano gli uomini liberi, senza laide mescolanze, proclameranno la libertà e l'integrazione della Patria".

Questo discorso veniva ad accrescere, se pur ve n'era bisogno, l'eccitazione degli animi alla fine di una giornata di dimostrazioni di tumulti e di tafferugli, fra cui degni di nota quelli svoltisi in piazza Montecitorio, contro il palazzo della Camera, che fu assalito e invaso da un forte gruppo di dimostranti.
Il 15 altre dimostrazioni e la pubblicazione di un manifesto dei "Fasci interventisti" che accusavano l'on. Giolitti di alto tradimento, lo indicavano al disprezzo e alla vendetta pubblica e inneggiavano all'Italia e alla Guerra.

IL MINISTERO SALANDRA RICONFERMATO IN CARICA
LE MANIFESTAZIONI DI GIUBILO - UN DISCORSO DI G. D'ANNUNZIO E UN ARTICOLO DI BENITO MUSSOLINI

E intanto si diffondeva la voce che il Re volesse ridare l'incarico a SALANDRA di formare il ministero. Lo affermava alla folla, la sera del 15 maggio a Milano FILIPPO CORRIDONI:

"Cittadini, par proprio che il Re si sia rivolto ancora a Salandra per ricostituire il Ministero che ci porterà alla Guerra. Però non bisogna disarmare. È bene ricordare la responsabilità di coloro che volevano tradire la nostra nobile Nazione, la quale, se si salva, lo deve al popolo. SONNINO e SALANDRA, due conservatori, avevano condotto con mano maestra la barca della Nazione e ci avevano portato verso il momento supremo. Ricordate che Sonnino aveva già denunciato il patto della "Triplice Alleanza" e stretto quello di fraternità con la "Triplice Intesa". Scalzando Sonnino e Salandra non solo si mettevano alla porta due uomini onesti, non solo si tradiva la Nazione, ma si tradivano anche le nazioni alleate. Per fortuna l'insurrezione è stata immediata. Uomini di tutte le fedi si sono dichiarati pronti a ribellarsi. Ed il monito è stato compreso. Adesso speriamo, ma vigiliamo".

La notizia data dal CORRIDONI era vera. Il Re aveva pregato Giolitti prima e dietro suo suggerimento Marcora, Carcano e Boselli poi, di accettare l'incarico di formare il ministero, ma tutti si erano rifiutati. Il giorno 16 Vittorio Emanuele III, riconfermava in carica il Gabinetto SALANDRA.

Indescrivibili furono le dimostrazioni di giubilo da parte degli interventisti. La sera stessa del 16 maggio all'Associazione Artistica Internazionale, tennero discorsi applauditissimi JEAN CARRÈRE e GABRIELE D'ANNUNZIO, che concluse il suo dire così:
"Prima di domani la notte occupi i fori e gli archi, splendendo ancora sul Quirinale i due cavalier gemelli, i due giovani combattenti di Regillo, auguriamo che cessino gl'indugi estenuanti auguriamo che la parola della risoluzione estrema sia detta, auguriamo il più lungo volo alla vittoria latina".

La mattina del 17 il Popolo d'Italia pubblicava questo articolo di Benito Mussolini, intitolato "Vittoria", che riportiamo integralmente:

"La terribile settimana di passione dell'Italia, si è chiusa con la vittoria del Popolo. I nostri cuori che erano irrigiditi nello spasimo della delusione e dell'esasperazione, riprendono il loro ritmo gagliardo; le nuvole basse della mefitica palude parlamentare sono dileguate dinanzi al ciclone che prorompeva dalle piazze. Non si hanno più notizie del cav. Giolitti. E' forse fuggito ancora una volta a Berlino? Anche il giolittismo versa in condizioni disperate. È latitante. I suoi partigiani scivolano via e tacciono. Per quanto cinici la lezione ha giovato loro. Hanno capito. Ipnotizzati dal Parlamento, questi fedeli del Senusso di Cavour racchiudevano il mondo e l'Italia nei confini di Montecitorio.

"L'irruzione dei cittadini romani nei sacri recinti della Camera è un segno dei tempi. Si deve al puro caso se oggi Montecitorio non è un mucchio di macerie nere. Ma si deve al popolo italiano se oggi l'Italia non è al livello della Grecia e della Turchia. Forse, senza la grandiosa, magnifica insurrezione delle moltitudini, sarebbe giunta in porto la giolittiana navicella del "parecchio" pilotata da Bulow, con le ciurme dei socialisti sudekumizzati; ma il Popolo l'ha silurata e la navicella carica di tutte le immondizie italiche è precipitata in fondo al mare delle assurdità. Ora si respira. L'orizzonte è sgombro e sulla cima estrema vi fiammeggia la volontà dell'Italia. Volontà di guerra. L'ha dichiarata il popolo al disopra della mandria parlamentare. Il Re ha inteso. La guerra c' è.

"La dichiarazione ufficiale di guerra consacrerà uno stato di fatto. Il popolo italiano si sente già in guerra contro gli austro-tedeschi. È compreso della solennità del momento. In questa settimana si è purificato. Molte scorie sono cadute. Sul corpo della Nazione si erano annidati parassiti di specie diverse: giolittiani, clericali, socialisti. Ma la Nazione - con una scossa, - si è liberata del suo carico molesto e insidioso. Sotto la maschera neutrale è balzata innanzi l'anima guerriera.
"Le masse operaie hanno anch'esse capito che l'intervento è ormai una necessità e più che una necessità un dovere ! Restano soli a macerarsi nella loro clamorosa e documentata impotenza i socialisti ufficiali.
"Eppure la denuncia della Triplice Alleanza è un avvenimento che dovrebbe scuoterli e rallegrarli. Ma ormai essi sono legati mani e piedi in un vincolo di solidarietà abominevole con gli assassini di Germania e d'Austria: sono quindi stranieri all'Italia e al proletariato italiano.

"Dopo 33 anni l'Italia conquista la sua autonomia. Un'alleanza che non fu mai e non poteva esser popolare è stata denunciata. L'Italia si volge ad occidente ed entra nella Triplice Intesa. Ci siamo liberati dalla pesante tutela tedesca, dalla ripugnante compagnia degli austriaci. Torniamo noi stessi. Anche qui la sana e diritta diplomazia del popolo ha vinto! Combatteremo a fianco dei francesi, dei belgi, dei serbi, degli inglesi, dei russi: salderemo col nostro intervento il cerchio di ferro e di fuoco intorno agli imperi responsabili della conflagrazione europea; abbrevieremo la durata della guerra, vinceremo.

"Vinceremo perché il popolo vuol vincere questa sua guerra. L'entusiasmo di questi giorni è un ottimo auspicio, è una garanzia di vittoria. L'Italia si ritrova oggi nella sua calma e fiduciosa e vigilante. Pronta all'evento grandioso di domani. Ci siamo riscattati all'interno, ci riscatteremo fra poco oltre i confini!
Abbiamo sgominato i nemici di dentro sbaraglieremo quelli di fuori. Baionette Italiane: al vostro acciaio è affidato col destino d'Italia quello dei popoli d'Europa!".

G. D'ANNUNZIO PARLA DAL CAMPIDOGLIO AI ROMANI

La sera di quello stesso giorno 17 maggio, mentre GIOLITTI in compagnia dell'on. CHIARAVIGLIO, suo genero, lasciava la capitale, il popolo romano si recava al Campidoglio, dove il sindaco PROSPERO COLONNA baciava la bandiera e fra l'entusiasmo della folla riceveva dalle mani di GUIDO PODRECCA la spada di NINO BIXIO. E ancora una volta GABRIELE D'ANNUNZIO fece sentire la sua voce:

"Romani, voi offriste ieri al mondo uno spettacolo sublime. Il vostro immenso ordinato corteo dava immagine delle antiche pompe che qui si formavano nel tempio del Dio Massimo e accompagnavano pel clivo capitolino le statue insigni collocate su i carri. Ogni via, dove tanta forza e tanta dignità passavano, era una Via Sacra. E voi accompagnavate, eretta sul carro invisibile, la statua ideale della nostra Gran Madre.
Benedette le madri romane ch' io vidi ieri, nella processione dell'offerta solenne, portare su le braccia i loro figli ! Benedette quelle che già mostravano su le loro fronti il coraggio devoto, la luce del sacrificio silenzioso, il segno della dedizione ad un amore più vasto che l'amore materno !
"Fu, veramente, un sublime spettacolo. Però la nostra vigilia non è finita. Non cessiamo di vegliare. Non ci lasciamo né illudere né sorprendere. Io vi dico che l'infesta banda non disarma.
"Ma non v' è più bisogno di parole incitatrici, giacché anche le pietre, giacché il popolo di Roma per le lapidazioni necessarie era pronto a strappare le selci dai suoi selciati ove scalpitano i cavalli che, invece di esser già all'avanguardia su le vie romane dell'Istria, sono umiliati nell'onta di difendere i covi delle bestie malefiche, le case dei traditori il cui tanto male accumulato adipe trasuda la paura, la paura bestiale.
"Come dovevano essere afflitti i nostri giovani soldati ! E di qual disciplina, di
quale abnegazione davano essi prova, proteggendo contro la giusta ira popolare coloro che li denigrano, che li calunniano, che tentano di avvilirli davanti ai fratelli e davanti ai nemici ! Gridiamo: "Viva l'Esercito!". È il bel grido dell'ora !

"Fra le tante vigliaccherie commesse dalla canaglia giolittesca, questa è la più laida: la denigrazione implacabile delle nostre armi, della difesa nazionale. Fino ad ieri, costoro hanno potuto impunemente seminare la sfiducia, il sospetto, il disprezzo contro i nostri soldati, contro i belli, i buoni, i forti, i generosi, gli impetuosi nostri soldati, contro il fiore del popolo, contro i sicuri eroi di domani.
"Con che cuore inastavano essi le baionette a respingere il popoli, che non voleva se non vendicarli ! Per fraterna pietà della loro tristezza, per carità della loro umiliazione immeritata, non li costringiamo a troppo dure prove. Rinunziamo oggi ad ogni violenza. Attendiamo. Facciamo ancora una vigilia.

"L'altro ieri, mentre uscivo dall'aver visitato il Presidente del Consiglio tuttavia in carica (rimasto in carica per la fortuna nostra, per la salute pubblica, a scorno dei lurchi e dei bonturi) quanta speranza, qual limpido ardire io lessi negli occhi dei giovani soldati a guardia !
Un ufficiale imberbe, gentile e ardito come doveva esser GOFFREDO MAMELI, si avanzò e in silenzio mi offerse due fiori e una foglia: una foglia verde, un fiore bianco, un fiore rosso. Mai gesto ebbe più di grazia, più di semplice grandezza. Il cuore mi balzò di gioia e di gratitudine. Io serberò quei fiori, come il più prezioso dei pegni. Li serberò per me e per voi, per la poesia e per il popolo d'Italia. Verde, bianca e rosso! Triplice splendore della primavera nostra! Date tutte le bandiere al vento, agitatele e gridate: Viva l'Esercito! Viva l'Esercito della più grande Italia! Viva l'Esercito della liberazione!

"In quest'ora, cinquantacinque anni fa, i Mille partivano da Calatafimi espugnata ed eternata nei tempi dei tempi col loro sangue che oggi ribolle come quel dei Protomartiri; si partivano, ebri di bella morte, verso Palermo.
Diceva l'ordine del giorno, letto alle compagnie garibaldine prima della marcia "Soldati della libertà italiana, con compagni come voi io posso tentare ogni cosa"
O miei compagni ammirabili, ogni buon cittadino è oggi un soldato della libertà italiana. E per voi e con voi abbiamo vinto. Con voi e per voi abbiamo sgominato i traditori.
"Udite, udite. Il delitto di tradimento fu dichiarato, dimostrato, denunciato. I nomi infami sono conosciuti. La punizione è necessaria.

"Non vi lasciate illudere, non vi lasciate ingannare, non vi lasciate impietosire. Tal mandra non ha rimorsi, non ha pentimenti, non ha pudori. Chi potrà mai distogliere dal gusto e dall'abitudine del brago e del truogolo l'animale che vi si rivoltola e vi si sazia
"Il 20 maggio, nell'assemblea solenne della .nostra unità, non dev'essere tollerata la presenza impudente di coloro che per mesi e mesi hanno trattato col nemico il baratto d'Italia. Non bisogna permettere che, camuffati della casacca tricolore, vengano essi a vociare il santo nome con le loro strozze immonde.
Fate la vostra lista di proscrizione, senza pietà. Voi ne avete il diritto, voi ne avete anzi il dovere civico. Chi ha salvato l'Italia, in questi giorni d'oscuramento, se non voi, se non il popolo schietto, se non il popolo profondo.
Ricordatevene. Costoro non possono sottrarsi al castigo se non con la fuga. Ebbene, sì, lasciamoli fuggire. Questa è la sola indulgenza che ci sia lecita.

"Anche stamani taluno non era forse intento a rammendar le trame che il grosso ragno alemanno aveva osato intessere tra i freschi roseti pinciani d'una villa ormai destinata alla confisca?
Noi non abbiamo creduto, neppure per un attimo, che un ministero formato dal signor Bulow potesse avere l'approvazione, anzi la complicità del Re. Sarebbero piombati su la patria giorni assai più foschi di quelli che seguirono l'armistizio di Salasco.
"Il Re d' Italia ha riudito nel suo gran cuore l'ammonimento di Camillo Cavour
"L'ora suprema per la monarchia sabauda, è suonata". Sì, è suonata, nell'altissimo cielo, nel cielo che pende, o Romani, sul vostro Pantheon, che sta, o Romani, su questo eterno Campidoglio.

Apri alle nostre virtù le porte
dei domini futuri,

... gli cantò un poeta italiano quando Egli, assunto dalla Morte, fu Re nel Mare. Questo gli grida oggi non il poeta solitario ma l'intero popolo, consapevole e pronto.
"Romani, Italiani, spieghiamo tutte le nostre bandiere, vegliamo in fede, attendiamo in fermezza. Qui, dove la plebe tenne i suoi concili nell'area, dove ogni ampliamento dell'Impero ebbe la sua consacrazione officiale, dove i consoli procedevano alla leva e al giuramento militare; qui, d'onde i magistrati partirono a capitanare gli eserciti a dominare le province; qui, dove Germanico elevò presso il tempio della Fede i trofei delle sue vittorie su i Germani, dove Ottaviano trionfante confermò la sommissione di tutto il bacino mediterraneo a Roma, da questa mèta d'ogni trionfo, offriamo noi stessi alla Patria, celebriamo il sacrificio volontario, prendiamo il presagio e l'augurio, gridiamo: Viva la nostra guerra ! Viva Roma ! Viva l'Italia ! Viva l'Esercito ! Viva l'Armata Navale ! Viva il Re ! Gloria e vittoria!" .

"Un' immensa acclamazione coronò le parole del poeta, acclamazione che diventò delirante quando egli, presa la spada di Nino Bixio, la mostrò snudata al popolo, dicendo:
"Questa spada di Nino Bixio, "secondo dei Mille", primo fra tutti i combattenti sempre, questa bella spada che un donatore erede di prodi offre al Campidoglio, o Romani, è un pegno terribile. Vedetelo a cavallo, fuori Porta San Pancrazio, il ferreo legionario dell'Assedio, che tiene abbrancato alla strozza il capitano nemico e lo trascina come preda in mezzo al suo battaglione, a gran voce intimando la resa, e solo, egli solo, fa prigionieri trecento uomini ! Branca aquilina, anima battuta al conio de' vostri Orazi temerità di corsaro ligure uso all'abbordaggio e all'arrembaggio, nato eroe come si nasce principe: esemplare italiano agli Italiani che s'armano.
"Io m'ardisco di baciare per voi, su questa lama, i nomi incisi delle vittorie. Suonate la campana a stormo ! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il popolo se ne fece padrone, or è otto secoli, e v' istituì il suo parlamento. O Romani, è questo il vero Parlamento. Qui da voi oggi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana !".

Dopo d'Annunzio parlò CESARE BATTISTI che, inneggiato alla guerra e all'esercito, lanciò il suo grido: "Alla frontiera ! Tutti alla frontiera, con la spada e col cuore!".
Poi sul tumulto della folla, che urlava: Guerra! si diffusero gravi e solenni i rintocchi della campana della Torre di Roma. Dal Campidoglio sonava, quella sera, l'ora fatale della Patria.

LE ULTIME SPERANZE AUSTRO-GERMANICHE

A paragone delle dimostrazioni interventiste, esplose con entusiasmo in ogni città d'Italia, dopo la riconferma del Gabinetto Salandra, ben povera cosa furono quelle neutraliste di Palermo e di Torino. A Palermo gl'interventisti vennero a conflitto con i neutralisti, la forza pubblica sparò e si ebbe un morto; a Torino la Camera del Lavoro proclamò lo sciopero generale, vi furono tumulti, barricate e conflitti con un morto e parecchi feriti.

Erano questi gli ultimi sforzi dei neutralisti; oramai nel paese avevano il sopravvento gl'interventisti; i tiepidi, i guardinghi, i dubbiosi passavano il Rubicone e si schieravano decisamente con quelli che volevano la guerra. Così, ad esempio, faceva l'associazione liberale, che, in un ordine del giorno, acclamava al Re, plaudiva al programma schiettamente nazionale dell'on. Salandra, mandava auguri all'Esercito e all'Armata ed auspicava alla concordia nazionale.
Il 18 maggio a Vienna, e a Budapest si sperava ancora in un accordo con Roma. Il presidente del Consiglio ungherese, conte TISZA, rispondendo al conte ANDRASSY così diceva:

"Sono convinto che, se noi riusciremo ad eliminare ora i punti d'irritazione, il sentimento di simpatia fra le nazioni ungherese ed italiana si risveglierà in tutto il suo antico vigore".
Anche a Berlino si nutrivano speranze come risulta da una dichiarazione del cancelliere BETHMANN-HOLLWEG al Parlamento: "Io non posso abbandonare completamente la speranza che l'eventualità della pace abbia maggior peso di quella della guerra. Ma, qualunque sia la decisione dell'Italia, abbiamo fatto, d'accordo con l'Austria-Ungheria, tutto ciò che era nel campo del possibile per mantenere l'alleanza che aveva preso forti radici nel popolo tedesco e che aveva portato ai tre Stati cose utili e buone".

IL LIBRO VERDE
LA STORICA SEDUTA DEL 20 MAGGIO ALLA CAMERA
IL DISCORSO DELL'ON. SALANDRA
IL DISEGNO DI LEGGE SUI PIENI POTERI

A Roma però il BULOW e MACCHIO non nutrivano più speranze. Eppure quest'ultimo volle il 18 maggio, fare l'ultimo tentativo inviando a SONNINO e, il giorno dopo, a SALANDRA un disegno di accordo, in cui erano elencate e migliorate le proposte del 10 e del 13. Nello stesso tempo fece sapere ai suoi amici di essere pronto, occorrendo e fino ai limiti del possibile, a fare altre concessioni.
Ma oramai era tardi; il paese sapeva delle trattative svoltesi con l'Austria, intorno alle quali fu informato dal "Libro Verde", e non prestava più ascolto alle voci che venivano da Berlino e da Vienna, ma aspettava con ansia quelle che si sarebbero udite a Montecitorio, il giorno 20, alla riapertura del Parlamento.
Quella del 20 maggio fu una seduta veramente storica. Accolto da scroscianti applausi dall'aula e dalle gremitissime tribune, l'on. SALANDRA, pronunciò un discorso che fu ascoltato con la massima attenzione e fu sovente interrotto da significanti approvazioni.

"Onorevoli colleghi, - egli disse - sin da quando risorse a unità di Stato, l'Italia si affermò nel mondo delle Nazioni quale fattore di moderazione, di concordia e di pace; e fieramente essa può proclamare di avere adempiuto tale missione con una fermezza che non si è mai piegata neppure dinnanzi ai più penosi sacrifici. Nell'ultimo periodo più che trentennale essa ha mantenuto un sistema di alleanze e di amicizie, dominata precipuamente dall'intento di meglio assicurare per tal modo l'equilibrio europeo, e con esso la pace. Per la nobiltà di quel fine, l'Italia, non soltanto ha tollerato l'insicurezza delle sue frontiere, non soltanto ha subordinato ad esso le sue più sacre aspirazioni nazionali, ma ha dovuto assistere con represso dolore, ai tentativi metodicamente condotti di sopprimere quei caratteri di italianità che la natura e la storia avevano impresso indelebili su generose regioni.

"L'ultimatum che, nel luglio del 1914, l'impero austro-ungarico dirigeva alla Serbia, annullava di un colpo gli effetti del lungo sforzo, violando il patto che a quello stato ci legava. Lo violava per il modo, avendo omesso, nonché il preventivo accordo con noi, persino un semplice avvertimento; lo violava per la sostanza, mirando a turbare, in danno nostro, il delicato sistema di possessi territoriali e di sfere d'influenza che si era costituito nella penisola balcanica. Ma più ancora che questo o quel punto particolare, era tutto lo spirito animatore del trattato che veniva offeso anzi soppresso; giacché scatenando, per il mondo la più terribile guerra, in diretto contrasto con i nostri
interessi e col nostro sentimento, si distruggeva l'equilibrio che l'alleanza doveva servire ad assicurare; e virtualmente, ma irresistibilmente, risorgeva il problema della integrazione nazionale d'Italia.

"Pur nondimeno per lunghi mesi il Governo si è pazientemente adoperato nel cercare un componimento, il quale restituisse all'accordo la ragione di essere che aveva perduto; quelle trattative però dovevano avere limiti, non solo di tempo, ma di dignità, al di là dei quali si sarebbero compromessi insieme gli interessi e il decoro del nostro Paese. Per la tutela, dunque, di tali supreme ragioni, il Governo del Re si vide costretto a notificare al Governo imperiale e reale dell'Austria-Ungheria, il giorno 4 di questo mese, il ritiro di ogni sua proposta di accordo, la denuncia del trattato d'alleanza e la dichiarazione della propria libertà d'azione. Né, d'altra parte, era più possibile lasciar l'Italia in un isolamento senza sicurtà e senza prestigio proprio nel momento in cui la storia del mondo sta attraversando una fase decisiva.

"In questo stato di cose, considerata la gravità della situazione internazionale, il Governo deve essere anche politicamente preparato ad affrontare ogni maggiore cimento e, col disegno di legge che vi ho presentato, vi chiede i poteri straordinari che gli occorrono. Tale provvedimento è non solo in sé tutto giustificato da precedenti nostri e di altri Stati, quale che sia la forma del Governo onde sono retti; ma rappresenta una migliore coordinazione, se non pure un'attenuazione di quelle facoltà che lo stesso nostro diritto vigente conferisce d'altronde al Governo, allorché preme quella suprema legge che è la salute dello Stato.

"Onorevoli colleghi! Senza jattanza di parole, né orgoglio di spirito, ma gravemente compresi della responsabilità che incombe in quest'ora, noi abbiamo coscienza d'aver provveduto a quanto richiedevano le più nobili aspirazioni e gli interessi più vitali della Patria. Ora, nel nome di essa e per la devozione ad essa, noi fervidamente rivolgiamo il più commosso appello al Parlamento, e anche al di là del Parlamento, al Paese: che tutti i dissensi si compongano, e che su di essi, da tutte le parti, sinceramente, discenda l'oblio.
I contrasti di partiti e di classi, le opinioni individuali, in tempi ordinari rispettabili, le ragioni stesse insomma, che danno vita al quotidiano, fecondo contrasto di tendenze e di principi, devono sparire di fronte ad una necessità che supera ogni altra necessità; di fronte ad una idealità che infiamma più di ogni altra idealità: la fortuna e la grandezza d'Italia.
Ogni altra cosa dobbiamo da oggi dimenticare, e questa sola ricordare: di essere tutti italiani, di amare tutti l'Italia con la medesima fede e col medesimo fervore. Le forze di tutti si integrino in una forza sola, i cuori di tutti si rinsaldino in un solo cuore. Una sola, unanime volontà quindi verso la mèta invocata; e forza e cuore trovino la loro espressione unica viva ed eroica nell'esercito e nell'armata d'Italia e nel Capo augusto che li conduce verso i destini della nuova storia. Viva il Re ! Viva l'Italia!".

Il disegno di legge, presentato dal Governo e di cui si fa cenno nel discorso del1'on. SALANDRA, era composto del seguente articolo unico:

"Il Governo del Re ha, facoltà in caso di guerra e durante la guerra medesima di emanare disposizioni aventi valore di legge per quanto sia richiesto dalla difesa dello Stato, dalla tutela dell'ordine pubblico e da urgenti e straordinari bisogni dell'economia nazionale. Restano ferme le disposizioni di cui agli articoli 245 e 251 del Codice penale per l'esercito. Il Governo del Re ha facoltà di ordinare le spese necessarie e di provvedere con mezzi straordinari ai bisogni del Tesoro. Il Governo del Re è autorizzato ad esercitare provvisoriamente, in quanto non siano approvati per legge e non oltre il 31 dicembre 1915, i bilanci per le amministrazioni dello Stato dell'esercizio 1915-16, secondo gli stati di previsione dell'entrata e della spesa, e i relativi disegni di legge con le susseguite modificazioni già proposte alla Camera dei deputati, nonché a provvedere i mezzi straordinari per fronteggiare le eventuali deficienze di bilancio derivanti da aumenti di spese e da diminuzioni di entrate. La presente legge andrà in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione".

Subito dopo fu nominata la Commissione per la "fatidica ora"...
... maggio 1915 - si va verso la dichiarazione di guerra

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LE NOTE - I PROCLAMI - LA DICHIARAZIONE

LA RELAZIONE BOSELLI; I DISCORSI DEGLI ONOREVOLI MARZILAI, CICCOTTI E TURATI - LA SEDUTA DEL 31 MAGGIO AL SENATO; I DISCORSI DEI SENATORI COLONNA, CADOLINI, MAZZA E MANFREDI - LA DIMOSTRAZIONE AL CAMPIDOGLIO E AL QUIRINALE - LA MOBILITAZIONE GENERALE - RISPOSTA AUSTRIACA ALLA DENUNCIA ITALIANA DEL TRATTATO D'ALLEANZA - LA NOTA DEL GOVERNO ITALIANO ALLE POTENZE - DICHIARAZIONE DI GUERRA DELL'ITALIA ALL'AUSTRIA-UNGHERIA - PARTENZA DEGLI AMBASCIATORI D'AUSTRIA E DI GERMANIA - IL MANIFESTO DI FRANCESCO GIUSEPPE AI SUOI POPOLI - IL PROCLAMA DI VITTORIO EMANUELE III ALL' ESERCITO E ALLA MARINA

"Viva la guerra! Viva l'Italia" Il momento culminante della storica seduta del 20 maggio 1915
quando una grande maggioranza votò i pieni poteri al Governo

LA RELAZIONE BOSELLI;
I DISCORSI DEGLI ONOREVOLI BARZILAI, CICCOTTI E TURATI
LA SEDUTA DEL 20 MAGGIO AL SENATO:
I DISCORSI DEI SENATORI COLONNA, CADOLINI, MAZZA E MANFREDI

Subito dopo fu nominata la Commissione, cui doveva esser dato in esame il disegno. A formarla furono chiamati gli onorevoli PAOLO BOSELLI, LUIGI LUZZATTI, GUIDO BACCELLI, COCCO-ORTU, COMPANS, FINOCCHIARO-APRILE, GUICCIARDINI, BARZILAI, BETTOLO, PANTANO, AGUGLIA, LEONARDO BIANCHI, CREDARO, DARI, TURATI, ARLOTTA, BISSOLATI e MEDA.
Il presidente della Camera, on. MARCORA, ricordò che la proposta del presidente del Consiglio che la Commissione riferisse immediatamente e la legge fosse discussa nella stessa seduta doveva esser approvata a scrutinio segreto con la maggioranza di tre quarti dei voti. Messa subito ai voti la proposta fu approvata con 367 voti contro 54.

Sospesa per un'ora la seduta alla Camera, i ministri si recarono al Senato, che fece calde accoglienze alle dichiarazioni del Governo e rinviò i lavori al giorno dopo; quindi i ministri ritornarono a Montecitorio, dove 1'on. BOSELLI, in nome della Commissione, fece la seguente relazione:

"La Commissione per la quale ho l'onore di riferirvi, propone con voto unanime di approvare il disegno di legge presentato dal Governo del Re. Ne sono palesi le ragioni, ben giustificati i provvedimenti, ed esso concerne quanto occorre in caso di guerra e durante la guerra per il supremo intento della difesa del Paese, per i bisogni urgenti e straordinari dell'economia nazionale e, anche con ogni mezzo necessario e straordinario per la vita finanziaria dello Stato. Così, questo disegno di legge viene suggellando efficacemente l'opera del Governo cui fu consiglio la voce della Patria, cui fu scorta il sentimento della dignità Nazionale.
In quest'ora fatidica, che ci stringe in un proposito solo, ardente e forte, il vostro voto, onorevoli colleghi, sarà nuova affermazione incomparabilmente solenne della fede invincibile e sicura nel diritto e nella gloria della Patria. Da qui moverà oggi il grido della concordia vittoriosa, in nome dell'Italia e del Re. Il Paese seguirà questo grido, e quando per tutte le terre della Patria, si darà al vento la bandiera: "Italia e Vittorio Emanuele!", il popolo italiano avrà una sola volontà, un solo cuore.
"Troppo lungamente al dolore delle genti italiane divelte dall'Italia per le usurpazioni della forza, per lo strazio delle nazionalità, troppo lungamente al dolore di quelle genti supremamente- italiane per i decreti della natura, per la perpetuità della lingua, per il genio del pensiero, per i vincoli della storia, troppo lungamente, rispondemmo con la parola della speranza. E' tempo oramai, di rispondere con la promessa della liberazione".

"Sarà gloria di questa Camera, la prima eletta dal suffragio universale esteso l'aver voluto, con l'entusiasmo e con la sapienza degli ardimenti patriottici, il compimento dei destini nazionali e la difesa del diritto nazionale. Felice la gioventù italiana, risorta alle fervide idealità; e noi vecchi benediciamo Iddio, nella commozione di questi giorni che così potentemente ci richiamano i giorni di Solferino, di Calatafimi e di Bezzecca, e a noi pare che tornino in quest'aula gli spiriti grandi dei fattori della rivoluzione e dell'unità nazionale per salutare con noi, i tanto invocati e sospirati eventi.

" È ventura nostra, onorevoli colleghi, affidare le nostre deliberazioni all'esercito italiano, ai soldati italiani che sentono 1'impazienza dei valorosi e la cui virtù eguaglia ogni cimento; affidare le nostre deliberazioni ai marinai italiani, più forti delle fortissime navi, i quali anelano di dimostrare come nelle pieghe del vessillo tricolore rifulga ancora e sempre, l'insegna vittoriosa di San Marco e di San Giorgio. L'esercito e l'armata guardano al Re e ne traggono esempio di coraggio caldo e sereno, degno della sua stirpe, esempio di patriottismo italiano temprato al genio dei tempi, e al sentimento della Nazione. L'esercito e l'armata mirano al Campidoglio fulgente, mirano a Roma nata a tutte t missioni della civiltà, a Roma. dove dall'epopea sempre viva del Gianicolo alle tombe sempre ispiratrici del Pantheon risplende ed arde la fiamma sacra e immortale dell'Italianità, auspicatrice di secoli nuovi per tutte le genti civili".

Della relazione di Boselli, coronata da ovazione entusiastica, fu dalla Camera plaudente, sebbene non vi fosse la consuetudine, chiesta l'affissione nei comuni del Regno.

Aperta la discussione del disegno di legge, parlò primo1'on. BARZILAI, non per esprimere il pensiero di una frazione politica, ma "perché le terre che furono nella visione di Dante, che gli eventi della politica internazionale confinarono nell'eresia e che oggi sono accolte nella religione della Patria, portino nella concordia l'ardore delle loro anime e della loro fede".
Parlò a favore dei pieni poteri, pure 1'on. ETTORE CICCOTTI, a nome anche degli onorevoli RAIMONDO, ALTOBELLI e LABRIOLA.
Contrario, invece, fu 1'on. Turati, il quale parlò in nome dei socialisti ufficiali fra interruzioni e rumori provenienti da ogni parte della Camera.
Brevi parole che suscitarono grande entusiasmo pronunziò NAPOLEONE COLAIANNI.
Terminata la discussione, si procedette alla votazione che diede i seguenti risultati presenti 482, votanti 481, favorevoli 407, contrari 74, astenuto 1. L'esito fu accolto con grandissimi applausi che si rinnovarono quando 1'on. Marcora pronunciò queste parole:


"Ed ora onorevoli colleghi, permettete una parola al vostro vecchio presidente, che oggi, mercé vostra e nella solennità di questa storica adunanza, ha provato il momento, da tanto tempo aspettato, della più ineffabile, intima gioia. Affrettiamoci, ecco la parola, a adempiere tutti coraggiosamente, senza limiti, il nostro dovere verso la Patria, nella più sicura fede che il popolo nostro, con animo sereno, concordia e costanza di propositi, l'esercito e 1'armata, col loro valore, la facciano come Vittorio Emanuele II auspicava, compiuta. Interprete dei vostri sentimenti, ripeto il grido di Viva 1' Italia ! Viva Colui che, con insuperabile saggezza e indomito patriottismo, pieno di spirito di sacrificio o di fervida devozione alle libere istituzioni, è così degno di reggerne le sorti. Viva il Re".

Quando la seduta fu tolta fu fatta una dimostrazione indimenticabile. Salvo i socialisti ufficiali, tutti gli altri deputati, e con loro il numeroso pubblico delle tribune, si diedero ad acclamare all'Italia, al Re, all'esercito, all'armata, a d'Annunzio; poi fu intonato 1'inno di Mameli e la vasta aula risuonò delle note marziali che tante generazioni avevano infiammato. Quindi la dimostrazione passò nei corridoi e infine nella piazza, dove la folla in attesa accolse con delirio d'applausi e di canti l'uscita dei ministri e dei deputati.

Il giorno dopo 1'on. SALANDRA presentò il disegno di legge al Senato. La Commissione, composta dei senatori CANEVARO, CAVALLI, PROSPERO COLONNA, DEL LUNGO, GIUSSO, INGHILLERI, MORRA Di LAVRIANO, PETRELLA, SALMOIRAGHI e SCIALOIA, per riferire gli fu concessa un'ora di tempo alla fine della quale il Colonna fece la relazione seguente:

"Onorevoli colleghi, non certo la modestia della mia persona poteva segnalarmi all'alto ufficio di relatore della, Commissione sul progetto di legge presentato dal Governo in quest'ora solenne e decisiva per la Patria nostra; ma io penso che si sia voluto indicare me, ultimo, fra voi, soltanto per sentire nel Senato del Regno l'eco di Roma, che io ho l'onore di rappresentare, della Grande Madre, mèta radiosa della nostra epopea nazionale, rievocatrice di grandezza e di gloria; incitatrice dei santi eroismi e dei più forti ardimenti. A Roma converge tutto l'ardire del patriottismo italiano, da Roma fiammeggia la luce che illuminò nei secoli il mondo. Lo stesso grido di dolore che nel 1859 s'innalzò da tutta 1' Italia al cuore magnanimo di Vittorio Emanuele II, s'innalza ora - lungamente, eroicamente soffocato, - nella speranza di questi giorni al cuore del Re e del popolo e invoca la coscienza del Parlamento da quelle terre che sin da allora avrebbero dovuto esse pure, e volevano - come sempre hanno voluto - s'integrasse la Patria italiana. E Parlamento e Popolo, accogliendo unanimi e fiduciosi quel grido, commettono oggi da Roma Immortale, nella giusta guerra, le sorti della Patria al valore dell'esercito e dell'armata.

La Commissione unanime vi propone di approvare il disegno di legge presentato dal Governo, che concerne i provvedimenti necessari in caso di guerra per i fini supremi della difesa della Patria e i bisogni urgenti eccezionali dell'economia nazionale. Alla grave responsabilità assunta dal Governo corrisponda la larghezza dei mezzi necessari al conseguimento della vittoria. Da questo Consesso, dove siedono venerandi attori del generoso ardimento del nostro riscatto, abbia la sublime concordia nazionale il suggello d'ammirazione e di plauso; si elevi il grido solenne al nostro Esercito e alla nostra Armata, il sentimento della sicura fede nel loro saldo eroismo, nell'inflessibile virtù di sacrificio, nel patriottico entusiasmo. Vada il saluto vibrante e devoto del Senato al nostro augusto Sovrano. Vada il nostro plauso ai degni Principi di Savoia, che hanno sentito l'anima della Nazione vibrare all'unisono con le anime loro. E con la ferma fede che il vessillo italico fiammeggerà vittorioso sulle Alpi nostre e sul Mare, nel nome dei colleghi v'invito ad approvare il disegno di legge al grido di Viva l'Italia ! Viva il Re !".

Anche per il discorso del senatore Colonna come per quello di PAOLO BOSELLI fu chiesta l'affissione.
Chiusa la discussione, alla quale parteciparono con brevi patriottici discorsi il senatore GIOVANNI CADOLINI e il generale FRANCESCO MAZZA, l'on. Salandra dichiarò di accettare l'ordine del giorno Canevaro-Mazzoni-Veronese-Bonasi così concepito:

"Il Senato, udite le dichiarazioni del Governo, che così altamente affermano il buon diritto d' Italia e la volontà della Nazione - passa alla votazione del disegno di legge".
Messo ai voti, fu approvato all'unanimità. La votazione a scrutinio segreto del disegno di legge diede i seguenti risultati: presenti e votanti 264, favorevoli 262, contrari 2. Votarono contro i senatori CAMPOREALE e CEFALY.

La seduta fu tolta dopo che il presidente MANFREDI promunciò le seguenti parole coronate da lunghissime acclamazioni:


"Come l'ora voleva, il Senato ha approvato i poteri del tempo di guerra domandati con urgenza dal Governo. L' Italia è dunque al fiero cimento, ma da forte lo affronta. Numi nostri tutelari, spiriti dei grandi del nostro Risorgimento, scendete a propiziare le nostre sorti. Ministri del Re, il Parlamento vi ha confermato la fiducia per condurre la Patria al compimento dei suoi destini e per custodire il deposito sacro delle sue istituzioni. Abbiamo le schiere e le squadre dei prodi anelanti a battaglia, i nuovi italiani accesi, la croce di Savoia con i secolari auspicii sul tricolore vessillo. Sente l'Italia le onte da vendicare, ascolta il grido delle terre da redimere, vede da quale parte si combatte per la civiltà e per il diritto nel conflitto europeo. Vittoria alle nostre armi quando avranno a misurarsi con armi nemiche ! Separandoci oggi con questo voto, auguriamo il giorno in cui riunirci per far risuonare gli inni del trionfo. Viva l'Italia ! Viva il Re !"

LA DIMOSTRAZIONE AL CAMPIDOGLIO E AL QUIRINALE
LA MOBILITAZIONE GENERALE .


Una dimostrazione imponentissima ebbe luogo a Roma nel pomeriggio del 21 maggio. S'iniziò con una seduta del Consiglio comunale al Campidoglio, dove parlarono fra tanti applausi il sindaco senatore POSPERO COLONNA e diversi consiglieri; quindi il Sindaco, la Giunta e i Consiglieri col gonfalone del Municipio e le bandiere di Trento di Trieste, e della Dalmazia, alla testa di un corteo di oltre centomila persone, che cantavano gli inni di Mameli, di Garibaldi e di Oberdan, si recarono al Quirinale, dove fu fatta una delirante dimostrazione ai Sovrani. Vittorio Emanuele, dal balcone della reggia; agitando un tricolore, gridò alla folla: Viva l'Italia! Dimostrazioni entusiastiche furono in seguito fatte alla Consulta, davanti al Ministero della Guerra, sotto il Collegio belga, sotto il palazzo Margherita, da cui la Regina Madre si mostrò sorridente alla folla, sotto la casa dell'on. Salandra e sotto l'Ambasciata Inglese. La dimostrazione si sciolse alla ore 20.30.
II giorno dopo il Re sanzionava la legge dei pieni poteri e in tutte le città d'Italia. venivano affissi i decreti elio ordinavano la mobiltazione generale e l'arruolamento di volontari

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RISPOSTA AUSTRIACA ALLA DENUNCIA DEL TRATTATO D'ALLEANZA
LA NOTA DEL GOVERNO ITALIANO ALLE POTENZE

Il 21 maggio nel pomeriggio, come risposta alla denuncia del trattato d'alleanza, il barone BURIAN consegnò al duca D'AVARNA una nota in cui diceva:

"Con penosa sorpresa il Governo austro-ungarico prende conoscenza dalle decisioni del governo italiano di porre fine in modo così improvviso ad un Trattato, che, basandosi sulla comunanza dei nostri importanti interessi, garantì ai nostri Stati per tanti anni la sicurezza e la pace e rese all'Italia notevoli servizi. Questo stupore è tanto più giustificato in quanto che i fatti addotti dal Governo italiano per motivare la decisione risalgono ad oltre nove mesi addietro e in questo frattempo il Governo italiano manifestò ripetutamente il suo desiderio di mantenere i legami d'alleanza".

La nota continuava dicendo che l'azione austriaca contro la Serbia non poteva toccare gl'interessi dell'Italia, il cui Governo del resto sapeva che l'Austria non aveva intenzione di fare conquiste in Serbia. Quando, per 1'intervento russo, il conflitto divenne europeo, 1' Italia dichiarando la neutralità, non accennò che la guerra veniva a scalzare le basi dell'alleanza. Bastava ricordare le dichiarazioni del Di San Giuliano e il telegramma di Vittorio Emanuele III a Francesco Giuseppe del 2 agosto per constatare che il Governo italiano nulla vedeva nel procedimento dell'Austria che stesse in contrasto col Trattato.
I Gabinetti di Vienna e di Berlino accettarono lealmente la dichiarazione della neutralità italiana pur deplorandola perché non la ritenevano conciliabile con lo spirito del Trattato; e lo scambio di vedute avvenuto allora costatò immutata la conservazione della Triplice.
E appunto riferendosi a questo trattato e particolarmente all'art. 7°, 1'Italia presentò domande di compensi per il caso che l'Austria traesse dalla guerra vantaggi territoriali o d'altra natura nei Balcani. L'Austria accettò questo punto di vista e si dichiarò pronta a sottoporre all'esame la questione, osservando nello stesso tempo che finché non si fosse a conoscenza d'eventuali vantaggi per l'Austria, sarebbe stato difficile stabilire dei compensi.

Il Governo italiano divise questa opinione, come risulta da una dichiarazione dell'on. Di San Giuliano del 25 agosto. Quando il Governo italiano chiese la cessione di parti integranti della Monarchia, il Governo austro-ungarico accettó anche questa base di discussione, quantunque opinasse che l'art. 7° non potesse riguardare parti del suo territorio, ma si riferisse solo ai Balcani.

La nota riaffermava la buona volontà del Governo austriaco e diceva ingiustificata l'opinione del Governo italiano di dover rinunciare ad ogni speranza d'accordo. Inoltre affermava che l'Austria non poteva accettare la dichiarazione del Governo italiano di volere riprendere la sua piena libertà d'azione e considerare nullo e senza effetto il Trattato d'alleanza, perché questa dichiarazione contrastava con gli obblighi solennemente assunti dall'Italia con il Trattato del 5 dicembre 1912", quindi la nota concludeva:
"Essendosi in tal modo il Reale Governo sottratto ai suoi obblighi, il Governo austro-ungarico respinge la responsabilità per tutte le conseguenze che potessero derivare da tale modo di agire".

SONNINO rispose prontamente a tutti i punti della nota austriaca, la quale del resto non poteva ritardare neppure d'un giorno le decisioni già prese dal Governo italiano. Il 23 maggio inviava ai ministri e ambasciatori italiani accreditati presso le varie potenze la nota seguente:

 


"DICHIARAZIONI DI GUERRA DELL'ITALIA ALL'AUSTRIA-UNGHERIA
PARTENZA DEGLI AMBASCIATORI D'AUSTRIA E DI GERMANIA"

"Il carattere eminentemente conservativo e difensivo della Triplice Alleanza risulta evidente dalla lettera e dallo spirito del Trattato e dalle intenzioni chiaramente manifestate e consacrate in atti ufficiali dei ministri che fondarono l'Alleanza e ne curarono i miglioramenti. Agli intenti di pace si è costantemente ispirata la politica italiana. Provocando la guerra europea, respingendo la risposta remissiva della Serbia che dava all'Austria tutte le soddisfazioni che essa poteva legittimamente chiedere, rifiutando di dare ascolto alle proposte conciliative che 1' Italia aveva presentato insieme con altre potenze, nell'intento di preservare 1' Europa da un immane conflitto che avrebbe sparso sangue ed accumulate rovine in proporzioni mai viste e neppure immaginate, l'Austria-Ungheria lacerò con le sue stesse mani il patto d'alleanza con 1' Italia, il quale, fino a che era stato lealmente interpretato non come strumento d'aggressione, ma solo come difesa contro possibili aggressioni altrui, aveva validamente contribuito ad eliminare le occasioni o a comporre le ragioni di conflitto, e ad assicurare ai popoli per molti anni i benefici inestimabili della pace.

L'art. 1° del Trattato consacrava una norma logica e generale di qualsiasi patto d'alleanza: cioè 1' impegno di procedere ad uno scambio d'idee sulle questioni politiche ed economiche di natura generale che potessero presentarsi. Ne derivava che nessuno dei contraenti era libero d'intraprendere, senza previo comune concerto, un'azione le cui conseguenze potessero produrre agli altri alcun obbligo contemplato dall'alleanza o comunque toccare i loro più importanti interessi. A questo dovere contravvenne l'Austria-Ungheria con 1'invio alla Serbia dello sua nota in data 23 luglio 1914, senza previo concerto con 1' Italia. L'Austria-Ungheria violò così indiscutibilmente in una delle sua clausole fondamentali il Trattato. Tanto maggiore era l'obbligo dell'Austria-Ungheria di preventivamente concertarsi con 1' Italia, in quanto dalla sua azione intransigente contro la Serbia derivava una situazione direttamente tendente a provocare una guerra europea; e sino dal principio del luglio 1914 il R. Governo, preoccupato dalle tendenze prevalenti a Vienna, aveva fatto giungere al Governo imperiale e reale ripetuti consigli di moderazione ed avvertimenti sugli incombenti pericoli di carattere europeo. L'azione intrapresa dall'Austria-Ungheria contro la Serbia era inoltre direttamente lesiva degli interessi generali italiani, politici ed economici, nella Penisola Balcanica.

Non era lecito all'Austria pensare che l'Italia potesse restare indifferente alla menomazione dell'indipendenza della Serbia. Non erano mancati a questo proposito i nostri moniti. Da molto tempo 1'Italia aveva più volte, in termini amichevoli, ma chiari, avvertito l'Austria-Ungheria che 1' indipendenza della Serbia era considerata dall'Italia com'elemento essenziale dell'equilibrio balcanico, che 1' Italia stessa non avrebbe mai potuto ammettere fosse turbato a suo danno. Né questo l'avevano detto soltanto nei privati colloqui i suoi diplomatici, ma dalla tribuna parlamentare lo avevano proclamato i suoi uomini di Stato.
"L'Austria dunque, aggredendo la Serbia con un "ultimatum" non proceduto, con disdegno d'ogni consuetudine, da qualsiasi mossa diplomatica verso di noi, e preparato nell'ombra con sì gelosa cura da tenerlo celato all'Italia, che ne ebbe notizia insieme al pubblico dalle Agenzie telegrafiche prima che per via diplomatica, si pose non solo fuor dell'Alleanza con 1' Italia, ma si eresse a nemica degli interessi italiani. Risultava, infatti, al Regio Governo, per sicure notizie che tutto il complesso programma d'azione dell'Austria Ungheria nei Balcani portava ad una gravissima diminuzione politica ed Economica dell'Italia perché a ciò conducevano, direttamente od indirettamente, l'asservimento della Serbia, 1'isolamento politico e territoriale del Montenegro, 1' isolamento e la decadenza politica della Romania.
Questa diminuzione dell'Italia nei Balcani si sarebbe verificata anche ammettendo che l'Austria-Ungheria non avessero avuti passi di compiere nuovi acquisti territoriali.

"Giova osservare che il Governo austro-ungarico aveva esplicito obbligo di previamente concertarsi con 1' Italia, in forza, d'Uno speciale art.7 del trattato della Triplice Alleanza, che stabiliva il vincolo dell'accordo preventivo ed il diritto a compensi fra gli alleati in caso d'occupazioni temporanee o permanenti nella regione dei Balcani. In proposito il P. Governo iniziò conversazioni col Governo Imperiale e Reale fino dalla apertura delle ostilità austro-ungariche contro la Serbia, ritraendo dopo qualche riluttanza un'adesione di massima. Queste conversazioni erano state iniziate subito dopo il 23 luglio allo scopo di rendere al Trattato violato, e quindi annullato per opera dell'Austria-Ungheria, un nuovo elemento di vita quale poteva derivargli soltanto da nuovi accordi.

Le conversazioni furono riprese con più precisi intenti nel mese di dicembre 1914. Il R. Ambasciatore a Vienna ebbe allora istruzione di far conoscere al conte BERCHTULD che il Governo credeva necessario procedere, senza alcun ritardo, ad uno scambio d'idee, quindi ad un concreto negoziato col Governo Imperiale e Reale circa la situazione complessa derivante dal conflitto provocato dall'Austria-Ungheria. Il conte Berchteld rispose prima con ripulse, concludendo che non riteneva fosse il caso di venire per questo ad alcun negoziato. Ma in seguito alle nostre repliche, alle quali si associò il Governo germanico, il conte Berchtold fece poi conoscere di essere disposto ad entrare nello scambio d'idee da noi proposto.
Esprimemmo allora subito un dato fondamentale del nostro punto di vista: e dichiarammo che i compensi contemplati, sui quali doveva intervenire l'accordo, dovevano riflettere territori che si trovano sotto il dominio attuale dell'Austria-Ungheria. Le discussioni proseguirono per mesi, dai primi di dicembre 1914 al marzo 1915. E solamente alla fine di marzo, dal barone BURIAN, ci fu offerta una zona di territorio compresa in limiti lievemente a nord della città di Trento. Per questa cessione il Governo austroungarico ci richiedeva a sua volta numerosi impegni a suo favore, fra cui piena ed intera libertà d'azione nei Balcani. È da notarsi che la cessione del territorio nel Trentino non doveva, nel pensiero del Governo austro-ungarico, effettuarsi immediatamente come noi chiedevamo, ma solamente alla fine dell'attuale conflitto. Rispondemmo che l'offerta non poteva soddisfarci; e formulammo il minimo delle cessioni che potevano corrispondere in parte alle nostre aspirazioni nazionali, migliorando ugualmente la nostra situazione strategica nell'Adriatico. Tali richieste comprendevano: un confine più ampio nel Trentino; un nuovo confine sull'Isonzo; una situazione speciale per Trieste; la cessione di talune isole dell'Arcipelago Curzolare; il disinteresse dell'Austria nell'Albania; ed il riconoscimento dei nostri possessi di Valona e del Dodecaneso.

Alle nostre richieste furono opposti da prima dinieghi categorici. Solo dopo un altro mese di conversazioni, l'Austria-Ungheria s'indusse ad aumentare la zona di territorio da cedere nel Trentino, limitandola a Mezzolombardo, ma escludendone territori italiani, come un lato incero della vallata del Noce, la Val di Fassa e la Val d'Ampezzo; o lasciandoci una linea non rispondente nemmeno a scopi strategici. Restava poi sempre fermo il Governo austro-ungarico nel negare qualsiasi effettuazione di cessione prima del termine della guerra. I ripetuti dinieghi dell'Austria-Ungheria risultarono esplicitamente confermati in un colloquio che il barone Burian tenne col R. Ambasciatore il 29 aprile u. s., nel quale risultò che il Governo austro-ungarico, pur ammettendo la possibilità di riconoscimento di qualche nostro prevalente interesse a Valona e l'anzidetta cessione territoriale nel Trentino, persisteva a pronunziarsi in modo negativo circa tutte le altre nostre richieste e precisamente circa quelle che riguardavano la linea dell'Isonzo, Trieste e le isole.

Dall'atteggiamento seguito dall'Austria-Ungheria dai primi di dicembre alla fine d'aprile risultava chiaro il suo sforzo di temporeggiare. In queste condizioni l'Italia si trovava di fronte al pericolo che ogni sua aspirazione avente base nella tradizione e nella nazionalità e nel suo desiderio di sicurezza nell'Adriatico, si perdesse per sempre; mentre altre contingenze del conflitto europeo minacciavano i suoi maggiori interessi in altri avari. Da ciò derivavano all'Italia la necessità e il dovere di riprendere la sua libertà d'azione, cui aveva diritto, e di ricercare la tutela dei suoi interessi all'infuori dei negoziati condotti inutilmente per cinque mesi, ed all'infuori di quel patto d'alleanza che per opera dell'Austria-Ungheria era virtualmente cessato sino dal luglio 1914.
Non sarà fuori di luogo osservare che, cessata l'alleanza, è cessata la ragione dell'acquiescenza, determinata per tanti anni nel popolo italiano del desiderio sincero della pace, mentre rivivono le ragioni della doglianza per tanto tempo volontariamente repressa per il trattamento al quale le popolazioni italiane in Austria furono assoggettate.

Patti formali a tutela della nostra lingua, della tradizione e della civiltà italiana nelle regioni abitate dai nostri connazionali, sudditi della Monarchia, non esistevano nel Trattato. Ma quando all'Alleanza si volesse dare un contenuto di pace e d'armonia sincera, appariva incontestabile l'obbligo morale dell'alleato di tener in debito conto anzi di rispettare con ogni scrupolo, il nostro interesse costituito dall'equilibrio etnico nell'Adriatico. Invece la costante politica del Governo austro-ungarico mirò per lunghi anni alla distruzione della nazionalità e della civiltà italiana lungo le coste dell'Adriatico. Basterà qualche sommaria citazione di fatti e di tendenze, ad ognuno già troppo noti sostituzione progressiva dei funzionari di razza italiana con funzionari d'altra nazionalità; immigrazione di centinaia di famiglie di nazionalità diverse; assunzione a Trieste di Cooperative di braccianti estranei; decreti Hohenlohe diretti ad escludere dal Comune di Trieste e dalle industrie del Comune, impiegati regnicoli; snazionalizzazione dei principali servizi del Comune di Trieste e diminuzione delle attribuzioni municipali; ostacoli d'ogni sorta all'istituzione di nuove scuole italiane; regolamento elettorale con tendenza antitaliana; snazionalizzazione dell'amministrazione giudiziaria; la questione della Università, che formò pure oggetto di trattative diplomatiche; snazionalizzazione delle compagnie di navigazione; azione di Polizia o processi politici tendenti a favorire le altre nazionalità a danno di quella italiana; espulsioni metodiche ingiustificate e sempre più numerose di regnicoli.

La costante politica del Governo Imperiale e Reale riguardo alle popolazioni italiane soggette, non fu unicamente dovuta a ragioni interne o attinenti al gioco delle varie nazionalità contrastanti nella Monarchia; essa invece apparve inspirata in gran parte da un intimo sentimento d'ostilità e d'avversione riguardo all'Italia, dominante in alcuni circoli più vicini al Governo austro-ungarico ed avente una determinante influenza sulle decisioni di questo. Fra i tanti indizi che si possono citare, basterà ricordare che nel 1911, mentre l'Italia era impegnata nella guerra contro la Turchia, lo Stato Maggiore a Vienna si preparava intensivamente ad un'aggressione contro di noi; ed il partito militare proseguiva attivissimo il lavoro politico inteso a trascinare gli altri fattori responsabili della Monarchia. Contemporaneamente gli armamenti alla nostra frontiera assumevano carattere prettamente offensivo. La crisi fu allora risolta in senso pacifico per l'influenza, a quanto si può supporre di fattori estranei; ma da quel tempo siamo rimasti sotto 1' impressione di una possibile inattesa minaccia armata, quando, per cause accidentali, prendesse sopravvento a Vienna il partito a noi ostile. Tutto questo era noto all'Italia; ma, come si disse più sopra, il sincero desiderio della pace prevalse, nel popolo italiano.

Nelle nuove circostanze l'Italia cercò di vedere se e quanto, anche per tale riguardo, fosse possibile dare al suo patto con l'Austria-Ungheria una base più solida ed una garanzia più duratura. Ma i suoi sforzi, condotti per tanti mesi in costante accordo con la Germania, che venne con ciò a riconoscere la legittimità dei negoziati, riuscirono vani. Onde 1' Italia si è trovata costretta dal corso degli eventi a cercare altre soluzioni. E poiché il patto dell'Alleanza con l'Austria-Ungheria aveva già cessato virtualmente di esistere e non serviva ormai più che a dissimulare la realtà dei sospetti continui e di quotidiani contrasti, il R. Ambasciatore a Vienna fu incaricato di dichiarare al Governo austro-ungarico che il Governo italiano era sciolto da ogni suo vincolo decorrente dal Trattato della Triplice Alleanza nei riguardi dell'Austria-Ungheria. Tale comunicazione fu fatta a Vienna il 4 maggio.

Successivamente a tale nostra dichiarazione, e dopo che noi avevamo già dovuto provvedere alla legittima tutela dei nostri interessi, il Governo Imperiale e Reale presentò nuove offerte di concessioni, insufficienti in sé, e nemmeno corrispondenti al minimo delle nostre antiche proposte; offerte che ad ogni modo non potevano più essere da noi accolte. Il R. Governo, tenuto conto di quanto è sopra esposto, confortate da voti del Parlamento e dalle solenni manifestazioni del Paese, ha deliberato di rompere gli indugi; ed ha dichiarato oggi stesso in nome del Re all'ambasciatore austro-ungarico a Roma di considerarsi, da domani, 24 maggio, in stato di guerra con l'Austria-Ungheria.
Ordini analoghi sono stati telegrafati ieri al R. Ambasciatore a Vienna. Prego V. S. di render noto quanto precede a codesto Governo".

Nel pomeriggio del 22 maggio l'on. SONNINO aveva fatto telegrafare all'ambasciatore italiano a Vienna il testo della dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria perché fosse presentato al barone BURIAN. Essendo interrotte le linee telegrafiche fra l'Italia e l'Austria e non risultando, la mattina del 23, che la dichiarazione fosse stata presentata, Sonnino faceva quel giorno presentare all'ambasciatore austriaco a Roma la dichiarazione medesima insieme con i passaporti. Solo ad ora tarda del 23 SONNINO ricevette dal duca d'AVARNA il telegramma con cui gli annunciava di aver consegnato al ministro BURIAN la dichiarazione.

Il testo era il seguente:
"Secondo le istruzioni ricevute da S. M. il Re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l'onore di partecipare a S. E. il ministro degli Esteri d'Austria-Ungheria la seguente dichiarazione: già il 4 del mese di maggio furono comunicati al Governo Imperiale e Reale i motivi per i quali l'Italia, fiduciosa del suo buon diritto, ha considerato, decaduto il Trattato d'Alleanza con l'Austria-Ungheria, che fu violato dal Governo Imperiale e Reale, lo ha dichiarato per l'avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso la sua libertà d'azione. Il Governo del Re, fermamente deciso di assicurare con tutti i mezzi a sua disposizione la difesa dei diritti e degli interessi italiani, non trascurerà il suo dovere di prendere contro qualunque minaccia presente e futura quelle misure che siano imposte dagli avvenimenti per realizzare le aspirazioni nazionali. S. M. il Re dichiara che 1' Italia si considera in stato di guerra con l'Austria-Ungheria da domani. Il sottoscritto ha l'onore di comunicare nello stesso tempo a S. E. il ministro degli Esteri austro-ungarico che i passaporti sono oggi consegnati all'ambasciatore imperiale e Reale a Roma. Sarà grato se vorrà provvedere fargli consegnare i suoi. Duca d'Avarna".

La sera stessa del 23 maggio partivano da Roma per il Quartier generale Italiano il generale CADORNA e il generale Porro, salutati alla stazione da S. E. Salandra. Al momento della partenza il presidente del Consiglio e il generalissimo si abbracciarono e si baciarono mentre la folla gridava commossa: "Viva l'Italia ! Viva l' Esercito ! Viva Cadorna ! Viva Salandra !"

Il 23 stesso il barone MACCHIO, ambasciatore austriaco presso il Quirinale e il principe GIOVANNI SCHÒNBURG-HARTENSTEIN, ambasciatore austriaco presso il Vaticano, ricevettero i passaporti; il barone Macchio affidò all'ambasciatore Spagnolo don RAMON PINA MILLET la protezione dei sudditi austro-ungarici residenti in Italia e prese congedo, quello stesso giorno, dal ministro Sonnino. Anche al principe di Bulow, dietro sua richiesta, gli furono consegnati i passaporti.
Il barone Macchio e il principe di Schónburg-Hartenstein partirono il giorno 24 alle ore 20, alle 21.30 partì il principe di Bulow; alle 21.45 partirono il barone De Taun, ministro di Baviera presso il Quirinale, e il barone De Ritter, ministro di Baviera presso la Santa Sede. La sera stessa del 24 partiva da Vienna il duca d' AVARNA e qualche giorno dopo lasciava Berlino l'ambasciatore italiano BOLLATI.

IL MANIFESTO DI FRANCESCO GIUSEPPE AI SUOI POPOLI

Il 24 maggio l'imperatore Francesco Giuseppe lanciava da Vienna ai suoi popoli il seguente manifesto:

"Il Re d'Italia mi ha dichiarato la guerra. Un tradimento di cui la storia non conosce l'esempio fu consumato dal Regno d'Italia contro i due alleati, dopo un'alleanza di più di trent'anni, durante la quale l'Italia poté aumentare i suoi possessi territoriali e svilupparsi ad impensata floridezza.

" L'Italia ci abbandonò nell'ora del pericolo e passa con le bandiere spiegate nel campo dei nostri nemici. Noi non minacciammo l'Italia; non minacciammo la sua autorità; non toccammo il suo onore e i suoi interessi. Noi abbiamo sempre fedelmente corrisposto ai nostri doveri di alleanza; e la abbiamo assicurata della nostra protezione quando essa è scesa in campo. Abbiamo fatto di più; quando l'Italia diresse i suoi sguardi bramosi verso le nostre frontiere, eravamo decisi, per conservare le nostre relazioni di alleanza e di pace, a grandi e dolorosi sacrifici che toccavano in modo particolare il nostro paterno cuore. Ma la cupidigia dell'Italia, che ha creduto di poter sfruttare il momento, non era tale da poter essere calmata. La sorte dove così cambiarsi.

"Durante dieci mesi di lotte gigantesche nel più fedele affratellamento d'armi dei miei eserciti con quello dei miei augusti alleati abbiamo vittoriosamente tenuto fermo contro il potente nemico del nord. Il nuovo perfido nemico del sud non è un avversario sconosciuto: i grandi ricordi di Novara, Mortara, Custoza, Lissa, che formano la gloria della mia gioventù, lo spirito di Radetsky, dell'arciduca Albrecht, di Tegethof, che con le forze di terra e di mare vivono eternamente, ci sono garanzia che noi difenderemo vittoriosamente le frontiere della Monarchia anche verso il sud. Io saluto le mie truppe vittoriose e agguerrite e confido in esse e nei loro condottieri. E confido nel mio popolo il cui spirito di sacrificio senza esempio merita il mio più profondo ringraziamento. Prego l'Onnipotente che benedica le nostre bandiere e prenda la nostra causa, sotto la Sua benigna protezione".


Senza la burbanza e l'albagia che era nel manifesto imperiale e con grande sobrietà, il 24 maggio Vittorio Emanuele III lanciava il suo proclama a tutte le forzo armate della Nazione:

 

IL PROCLAMA DI VITTORIO EMANUELE III ALL' ESERCITO E ALLA MARINA

"Soldati di terra e di mare ! L'ora solenne delle rivendicazioni nazionali ó sonata. Seguendo l'esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamentî dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomabile slancio saprà di certo superarla. Soldati ! A voi la gloria di piantare il tricolore d' Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri".

…ma retorica e esaltazioni a parte, l'Italia era pronta per un guerra ?

Verso il primo mese di guerra

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