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anni 1 - 222
222 - 336
336 - 432
432 - 530
530 - 606
607 - 640
640 -752
752-816
816-882
882-928
928-999
999-1048
1048-1119
1119-1292
1294-1455
1455-1691
1691-1831
1831- 2005

ANNI DAL 1294 AL 1455

CELESTINO V, Pietro da Morrone, di Isernia ( pontificato 1294-1294 )Quelle lacerazioni e palesi ostilità che nei mesi precedenti con un singolare compromesso erano poi state - dalle tre potenti famiglie romane (Savelli, Colonna, Orsini) - composte e placate ma non del tutto eliminate, ricominciarono quasi subito a riaggravarsi, e non alla dipartita di Niccolò, ma mentre questi si trovava ancora in agonia. Gli Orsini e i Colonna, ognuno di loro iniziò subito a ingraziarsi o a essere ostili con i cardinali del Sacro Collegio che nell'imminente conclave avrebbero dovuto eleggere il nuovo pontefice. I cardinali erano dodici, due francesi e dieci italiani, di cui sei di Roma, con la metà a favore di una famiglia e l'altra metà dell'altra.

Niccolò era poi spirato il 4 aprile 1292; i cardinali che si erano riuniti a quel gravoso compito di dargli un successore dentro Santa Maria Maggiore, armeggiarono fino a luglio, senza però trovare un accordo. Poi, come si era verificato nel precedente conclave quando fu eletto Niccolò, anche questa volta nell'afoso luglio romano, scoppiò nuovamente un epidemia, questa volta di peste. Memori di quel drammatico precedente (dove erano morti 6 cardinali), quando uno di essi - il cardinale francese Cholet - si ammalò e morì, gli altri, terrorizzati, abbandonarono precipitosamente il luogo per tornarsene a casa. Chi a Rieti chi ad Anagni. Mentre i sei romani, pur tornandosene pure loro a casa, non si mossero da Roma. O meglio i Colonna e gli Orsini non si mossero per non lasciare in mano all'avversario la città.

Anche questa volta, cioè solo dopo l'inverno inoltrato, nel febbraio del 1293, il collegio cardinalizio tornò a riunirsi frettolosamente, ma non per il conclave, ma per decidere in quale località tenerlo; non ne volevano sapere di tornare a rinchiudersi sull'Aventino che sembrava un posto maledetto.
Ma anche per fare questa semplice scelta non si trovarono tutti d'accordo. Alle porte c'era ormai un'altra estate, e ritennero cosa saggia di rimandare tutto in autunno. Ma anche in questa riunione non si giunse alla pur minima indicazione; le discussioni si prolungarono poi - come vedremo avanti- fino all'inizio del successivo anno 1294 ma senza costrutto.

Erano ormai passati quasi due anni dalla morte di Niccolò IV, e qualcuno immaginò che se si andava ancora avanti così con la "sede vacante" a oltranza, vi era il timore non infondato di uno scisma nella stessa Roma. Fra timori e chiacchiere, come abbiamo visto sopra, i cardinali avevano fatto passare la seconda estate, e solo in ottobre del 1293 i cardinali si erano trovati a Perugia.

Nel frattempo, cioè nel corso dello stesso anno, scadute anche le cariche senatorie, nel clima pacifico della Pasqua 1293, un Colonna e un Orsini si misero anche questa volta d'accordo e arrivarono a un compromesso, a un patto di reciproca neutralità e entrambi (ti pareva!) salirono in Campidoglio a fare i Senatori e a cercare di rimettere ordine alla città, che ormai era diventata una jungla; con le autorità assenti, ognuno si comportava da padrone, cioè da delinquente, saccheggiando palazzi, e perfino chiese, oppure, riunendosi in bande organizzate, queste si affrontavano nelle vie per il dominio di certi quartieri.

Quanto ai cardinali, nemmeno nell'incontro di Perugia in ottobre elessero un papa. Intanto la situazione fra Angioini e Aragonesi non si era fatta per nulla chiara, ma entrambi non essendoci più da due anni il papa a lanciare anatemi o a tessere trame pro e contro di loro, riuscirono comunque a convivere senza grandi scontri bellici. Anzi avevano trovato un punto d'incontro nelle spartizioni, ma perchè avesse valore un qualsiasi trattato occorreva l'approvazione di un papa, che seguitava a non esserci.

Tuttavia il più zelante a darsi da fare - anche perchè era sul luogo - era Carlo II d'Angiò (lo Zoppo) e il figlio Carlo Martello; del resto dal papa lui aveva avuto l'investitura ed è chiaro che aspettava un papa filo-angioino che riconfermasse la vacillante corona che portava in testa. Carlo mentre i cardinali erano a Perugia, si portò in questa città col figlio ed entrò spudoratamente nella sala delle adunanze dei conclavisti (mai nessuno lo aveva fatto prima di allora) con l'intento di sollecitare ma anche spingere i conclavisti ad eleggere un papa, ovviamente a lui favorevole. Fra i cardinali italiani giganteggiava il cardinale BENEDETTO CAETANI di Anagni, il quale a quella invasione di campo e a quelle sollecitazioni, indignato, rispose con tutta la sua fierezza di uomo di chiesa, di dotto, di giureconsulto e di canonista. Gli disse perfino di "...farsi gli affari suoi a casa sua e di stare alla larga dalle vicende della Chiesa". Ma quello invece di tornarsene a Napoli fece uno strano viaggio, pellegrinaggio nei pressi della Maiella, a Sulmona.

Anche in questa riunione perugina non si combinò nulla. I mesi passarono, si entrò nell'anno 1294, e finalmente i cardinali si convinsero che un papa bisognava pur farlo.
La sollecitazione nel conclave ai cardinali non arrivò dalle dirette interferenze angioine, ma da un un eremita Pietro da Morrone (Pietro Angeleri) , che dal suo isolamento ascetico, in odore di santità per i fatti miracolosi a lui attribuiti, profetizzando, minacciava divini castighi alla Chiesa se non si fosse provveduto all'elezione del papa entro il 1° novembre.

La lettera di Pietro fu portata a conoscenza dei conclavisti riuniti dal cardinale latino Malabranche, che aveva una venerazione per quel santo uomo, figlio di poveri contadini, il penultimo di undici figli, nato negli Abruzzi, che da giovane si era fatto benedettino, poi spinto dal misticismo, si era chiuso nella solitudine in un misero eremo, quasi inaccessibile, sul Monte Morrone a Palleno (oggi Porrara, fra Sulmona e Castel di Sangro) in una grotta scavata con le sue stesse mani su una roccia a stappiombo, sulla parete dell’Orso, alla Ripa Rossa, sempre in fuga dalle fastidiose turbe di fedeli poveri, infermi, disperati che, attratti dalla sua fama di taumaturgo, insediavano la sua solitudine.
Tuttavia più a valle diede vita a una comunità di "poveri eremiti" con una regola molto rigida. Sulla Maiella (ma senza mai abbandonare il suo solitario eremo) aveva poi fondato il "convento dello Spirito Santo" e lì era nata e cresciuta questa congregazione di religiosi, poi in seguito chiamati i "Celestini".

A dire il vero tale fame di taumaturgo, non era vista di buon occhio dall'episcopato; era del resto il periodo che nascevano come funghi le sette ereticali, i cosidetti "sovversivi" della Chiesa, e quindi a ragione la sua congregazione - invisa alle gerarchie ecclesiastiche - fu minacciata di essere soppressa al Concilio di Lione nel 1273. Come aveva fatto a suo tempo S. Francesco, l'eremita per sostenere la causa della sua Congregazione compì un'impresa leggendaria, a piedi nudi, d'inverno, attraversando le Alpi, comparve al Concilio Lionese presieduto da Gregorio X, che colpito dall'alta religiosità del frate ritenne di poterlo escludere dalla lista dei "sovversivi".

Torniamo alla lettera: sembra che la minacciosa e profetica missiva giunta al conclave di Perugia, fosse stata sollecitata da Carlo, con quello strano viaggio-visita fatta all'eremita,dopo l'onta subita a Perugia, e dopo essersi come un penitente arrampicato sulle rocce del nuovo eremo di Pietro a S. Onofrio; e il monaco pur non prendendo una chiara posizione, quella pia visita del preoccupato re, con l'animo crucciato, e con chissà quali ambigue promesse, indubbiamente anche se con lui inconsapevole lasciò un segno che si riversò nella lettera del frate in quella minacciosa sollecitazione. Quando i cardinali si decisero a fare un nome, la proposta fatta dal Malabranche ai suoi colleghi fu quella di ritenere che la persona più degna a fare il vicario di Cristo era proprio l'eremita. Ci furono perplessità dei cardinali per la sua inesperienza, perchè i complessi affari di Curia nella logica di questa, non erano di sicuro un elemento distintivo del monaco, così estraneo alle cose del mondo e per di più alla bella età di quasi 70 anni.

Tuttavia quel nome prese il sopravvento, all'unanimità, forse per la limpida religiosità dell'uomo, o forse perchè si andava incontro ad un'altra torrida e famigerata estate (la terza), o forse perchè il potente e freddo calcolatore cardinale Benedetto Caetani, era convinto che una volta messo il monaco sul soglio, abbisognando questi di un consigliere, proprio lui avrebbe potuto esercitare una decisiva influenza sul pio uomo negli affari curiali.

Il 5 luglio, dopo ventisette mesi di "sede vacante", il monaco fu eletto. Alcuni espressero dei dubbi che il frate non avrebbe accettato quella nomina di così altissima responsabilità. Ed è curioso che nessuno dei presenti volle assumersi il compito di andare a comunicargli nella sua grotta di eremita l'altissima dignità a cui era elevato. Furono alla fine incaricati tre vescovi, con al seguito una processione di popolo, che s'ingrossò man mano quando nei dintorni si sparse la voce. Molti dissero che era un prodigio, un miracolo, una "ispirazione" venuta dall'alto dei cieli ai cardinali. All'incontro era presente il giovane figlio del senatore allora in carica, Iacopo Stefaneschi, e fu lui a lasciare in versi, i momenti toccanti dell'annuncio fatto all'eremita. E questi alla lieta novella oltre che essere sorpreso, ebbe un vero e proprio dramma interiore.

Se si rifiutava era allora inutile poi lamentarsi - come aveva fatto nella lettera - che la Santa Sede fosse mancante di un papa. La provvidenza aveva deciso così, e quindi non si poteva rifiutare. Certo che quando si rendeva conto del gravoso impegno che doveva assolvere, veniva preso dal panico. Si chiedeva: "chi mi darà il sapere, la saggezza, l'esperienza che mi manca?; e una volta a Roma di chi mi posso fidare come consigliere".
Alla fine - illudendosi di poter dare un contributo alla risoluzione della crisi generale della chiesa, o forse perché non aveva capito le strumentalizzazioni che si stavano operando dietro la sua nomina, si fece convincere ad accettare. I cardinali lo aspettavano a Perugia, invece lui li convocò all'Aquila, perchè così voleva Carlo che insieme al figlio si era nuovamente arrampicato fino alla grotta dell'eremo, e Pietro non avendo altri accanto, al re e al principe ingenuamente si affidò per i consigli. Del resto Carlo era un sovrano creato dal suo predecessore, e il monaco era pur sempre un suo suddito, quindi e un certo spirito di obbedienza stava nella logica delle cose.

Quando scese a valle all'appuntamento con i cardinali per andare a prendere la tiara, lo fece con una tale umiltà che i confratelli che lo seguivano e il popolo che aveva improvvisato una imponente processione lo paragonarono a Gesù Cristo quando fece il suo ingresso a Gerusalemme. Con la sua povera tonaca era salito in groppa a un asino, e questo aveva alle briglie il re e il principe.
All'Aquila l'accoglienza fu imponente, tutti volevano vedere quell'umile monaco in odore di santità che stava per essere incoronato papa.
La consacrazione avvene il 29 agosto 1294 alla chiesa di S. Maria di Collemaggio. Pietro assunse il nome di CELESTINO V.

Non avendolo il re e il principe mai mollato, Celestino iniziò il suo pontificato in piena dipendenza da Carlo. Ripristinò immediatamente la costituzione di Gregorio X sull'elezione pontificia; fece di Carlo il "mareciallo di un futuro conclave; nominò dodici cardinali, tra i quali 6 francesi (quindi filo-angioini), quattro dell'Italia meridionale (anche questi sotto il regno di Carlo) e due della sua stessa congregazione.
Riprese poi in mano il trattato che il suo predecessore non aveva ratificato, quello di Carlo con Giacomo d'Aragona, con il quale quest'ultimo benevolmente cedeva la Sicilia all'angioino. Cosa che Niccolò non aveva ratificato perchè la Sicilia non era nè di uno nè dell'altro, ma della Chiesa. Celestino invece, non sappiamo con quanta sua autonomia, con un trattato segreto, stipulato poi a Junquera a novembre ratifico il trattato tra Carlo e Giacomo.
In questo trattato, l'Angioino prometteva di riuscire ad ottenere dal Papa all'Aragonese l'assoluzione dalla scomunica, il perdono delle offese recate alla Santa Sede, la restituzione del reame di Aragona e la rinuncia del re di Francia e di Carlo di Valois; Giacomo a sua volta si obbligava di restituire gli ostaggi che Carlo aveva lasciati in mano d'Alfonso al tempo della sua liberazione, le Calabrie e le isole presso Napoli; quanto alla Sicilia e a Malta s'impegnava di darle alla Chiesa nel termine di tre anni, usando contro i Siciliani anche le armi se si fossero opposti.

Infine, appena eletto, invece di scendere Celestino a Roma come desiderava, e ovviamente lo desideravano i Romani orfani di un papa da due anni, Carlo convinse il papa a trasferire la sede della Curia a Napoli, dove giunse nell'autunno fissando la sua residenza al Castelnuovo.

Preso dentro questa morsa angioina, Celestino che non aveva cessato anche nel suo palazzo di fare l'eremita (si era fatto costruire una piccola cella dove si rifugiava a pregare in ascetica solitudine), i dubbi che aveva già espresso si fecero ancora più grandi. Forse si avvide che stava esercitando il potere venendo meno ai più semplici dettami della morale cristiana. Faccendieri del re gli facevano firmare bolle in bianco per poi concludere chissà quali turpi affari. Lui trovò la forza di opporsi a questo scempio.

Inoltre a Roma - sede naturale della cristianità - il trasferimento del papato a Napoli, era stato oggetto di contestazioni, tali da riunire anche i più acerrimi avversari su un unico fronte: quello anti-angioino.

Per l'una e l'altra ragione, Celestino iniziò a maturare l'idea di rinunciare alla dignità pontificia. Sapeva che abdicare era cosa difficile e contro il costume. In un primo momento voleva trasformare tre cardinali come suoi reggenti nel governo della Chiesa, poi chiedendo al Caetani se era contemplata nella giurisprudenza canonica una vera e propria abdicazione, ricevutane conferma che era legittima, a quattro mesi dalla sua nomina, il 13 dicembre 1294 riunito un concistoro lesse la formula della sua abdicazione. Forse Dante fu ingeneroso con lui quando lo liquida come "colui che fece per viltade il gran rifiuto....". Non conosceva i particolari, e non fu la viltà a fargli fare il gran passo.

La formula della sua abdicazione non l'aveva stilata lui, ma lo stesso Caetani, che apparve piuttosto subdola quando lo stesso Caetani uscì poi dal nuovo conclave con in testa la tiara con i voti dei cardinali francesi e filoangioni.
Non solo, ma una volta divenuto lui il Pontefice, temendo che i suoi avversari convincessero il santo monaco a tornare sul soglio (esautorando così lui), gli impedì di rifugiarsi nel suo isolato eremo come Celestino desiderava fare. Poi non volendo perderlo di vista, quando il monaco volle tentare di allontanarsi per rifugiarsi in Puglia e di qui imbarcarsi per la Grecia, il 16 maggio 1295 il Caetani lo fece con un prestesto fernare e sotto scorta come un delinquente fu portato prima a Capua e poi da lì ad Anagni, dove aveva la sua residenza il cardinale; questi rinchiuse il frate nella rocca di Fumone, sopra Ferentino, dove l'anno dopo, il 19 maggio 1296, dopo trecentodiciannove giorni di carcere, Celestino morì.
La verità su questa morte è piena di ombre, e il dubbio che sia stato barbaramente assassinato, non è si è mai attenuato. Il "Delitto Clestino" è ancora oggi oggetto di accuratissime indagini.
l'elezione di PAPA BONIFACIO VIII ....

BONIFACIO VIII, Benedetto Caetani, di Anagni
( pontificato 1295-1303 )
Come abbiamo letto nelle ultime righe nella biografia di Celestino V, quando questi il 13 dicembre 1294 riunito un concistoro lesse la formula della sua abdicazione preparatagli dall'ambiguo cardinale Benedetto Caetani, nella stessa Napoli (dove Carlo aveva convinto Celestino a trasferire la sede papale) si riunì il 23 dicembre il conclave. Fu brevissimo, il giorno dopo la maggioranza diede il voto proprio a Benedetto Caetani, che assunse il nome di BONIFACIO VIII.

Chiaramente prima aveva fatto di tutto, aveva colto al volo e con opportunismo il disagio che provava l'ex eremita con addosso i panni di papa, perchè schivo di ogni ambizione, lo aveva poi consigliato e infine gli aveva scritto perfino la formula dell'abdicazione. Poi si era accordato con i suoi colleghi elettori per uscire lui dal conclave papa. Dante in questa elezione ci ravvide la simonia e lo destinò all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "lo principe de' novi farisei".

Dante non fu il solo, Ferreto di Vicenza cronista dell'epoca, in "La cronaca Fiorentina" narra che una volta salito sul soglio, i suoi avversari fecero girare per Roma tre libelli attribuiti a due cardinali Colonna, che accusavano Bonifacio di aver ottenuto la sede apostolica simoniacamente. 17 cardinali dei 22 che lo avevano eletto a Napoli, intervennero a queste accuse subdole, firmando una dichiarazione che tutto era proceduto regolarmente secondo le prescrizioni del conclave.

Caetani sessantenne, era un grande esperto di diritto, e proprio per questo aveva fatto una rapida carriera ecclesiastica con molte missioni di fiducia all'estero. Ciò gli era valsa l'entrata nel Sacro Collegio dei cardinali nel 1287.
Era nato ad Anagni nel 1235, apparteneva a una nobile famiglia che discendeva da Papa Gelasio II, papa per un solo anno nel 1119. Nobili ma non ricchi erano i Caetani, e quindi a Roma non erano potenti. Potenti e ricchi i Caetani lo divennero con Benedetto, che per nove anni rimase su soglio, dotando la famiglia di grandi proprietà terriere e grandi mezzi finanziari.

Suo primo atto appena eletto, pur essendo smaccatamente filo-angioino, fu quello di revocare tante bolle firmate da Celestino perchè inesperto di affari di Curia quelle erano viziate e troppe condizionate da chi gli era stato vicino a Castel Nuovo e strappato soverchie concessioni. Chiaramente si riferiva agli uomini di Carlo, e a Carlo stesso, e questi cominciò a non essere entusiasta di questo nuovo papa, che come secondo atto decide subito di trasferirsi a Roma e nella sede naturale del papato esercitare liberamente la sua missione.
Se l'angioino contava di averlo a Napoli con la speranza di poterlo dominare, come aveva fatto con Celestino, fece male i suoi conti. Così male che a Roma come sovrano lo dovette perfino accompagnare e poi presenziare al rito. Il 23 gennaio in San Pietro in una solenne giornata, con tutta Roma presente alla fastosa cerimonia, Bonifacio VIII fu incoronato. Dopo la funzione religiosa sul cavallo bianco poi fece la trionfale cavalcata fino alla basilica di San Giovanni in Laterano, con Carlo II e suo figlio Carlo Martello a tenergli le briglie.

La festa fu grande, parteciparono tutti i nobili romani, ma le insinuazioni dei subdoli avversari si fecero subito sentire; affermavano che quell'elezione era viziata perchè estorta con un' abdicazione che consideravano nulla, perchè scritta dal suo successore. Era voce di popolo, voci infamanti, forse solo pretestuose dei suoi avversari, ma quando tre cardinali francesi che a Napoli non avevano votato per il Caetani accreditarono queste voci, le insinuazioni iniziarono prima a dare fastidio, poi anche a preoccupare Bonifacio, quando a Roma corsero altre voci che qualcuno voleva convincere Celestino a recedere dai suoi propositi, convincendolo che quella bolla di abdicazione era nulla perchè viziata all'origine.

Bonifacio aveva avuto l'accortezza, che nel lasciare Napoli, si era portato dietro a Roma anche l'eremita, temendo che i malcontenti della sua elezione ma anche il popolo ammaliato dalla santità dell'uomo convincessero Celestino dell'errore che aveva fatto a rinunciare. Però a Roma Celestino non dava questi segni nè incoraggiava chi aveva quelle intenzioni, anzi aveva espresso il desiderio di tornare a fare l'eremita nei suoi monti della Maiella. Rimase sotto il controllo di Bonifacio, ma un bel giorno lasciò Roma e se ne ritornò a Sulmona accolto con una venerazione maggiore di prima; aver rifiutato un papato per far ritorno alle sue grotte, non era mai accaduto nella storia dei papi, fu accolto come un santo. Ma questa fama che si stava diffondendo diventava ancora più pericolosa e Bonifacio dopo aver consultato i suoi colleghi, questi furono del parere che lo si dovesse tenere gelosamente custodito, "per impedire che la pace e l'unità della Chiesa corressero pericolo". Celestino stava diventando una bandiera scomoda per la Curia romana. Bisognava prendere provvedimenti.
Questo lo aveva capito anche Celestino, e volendo tagliare i ponti, con Roma ma anche con il suo eremo, che era diventato più affollato di Roma stessa, scese in Puglia con l'intenzione di imbarcarsi a Bari e raggiungere qualche luogo anonimo e solitario in Grecia.
Ma era già scattata la caccia e furono gli sgherri di Carlo a fermarlo nei pressi del Gargano; con tutti i riguardi lo condussero nuovamente a Roma e di qui ad Anagni. Finì sotto la "protezione" di Bonifacio, dentro il suo palazzo. Gli fece perfino allestire un grotta simile e quella del suo eremo sulla Maiella, così il monaco poteva soddisfare la sua ascesi isolandosi nelle sue preghiere, anche se era guardato a vista e tenuto "in custodia non quidem libera sed honesta".
Ma temendo qualche colpo di mano per liberarlo, Bonifacio lo fece rinchiudere in una torre, nella rocca di Fumone, sopra Ferentino, dove l'anno dopo, il 19 maggio 1296, dopo trecentodiciannove giorni di carcere, Celestino morì.
Nel frattempo Bonifacio, ben saldo sul suo trono pontificale, aveva preso altre iniziative, e una delle prime fu quella di rivedere il trattato di Junquera stipulato segretamente da Celestino con gli angioini e gli aragona (ne abbiamo parlato nella biografia di Celestino). Era convinto che il termine di tre anni stabilito per la cessione della Sicilia era troppo lungo. Voleva il Pontefice che la cessione fosse fatta immediatamente e in un convegno tenuto ad Anagni il 5 giugno del 1295 con gli ambasciatori d'Aragona, di Napoli e di Francia riuscì a far modificare nel senso che lui voleva. Giacomo col "Patto di Anagni" riconsegnava la Sicilia alla Chiesa, che la riassegnava a Carlo ma solo in affidamento, e sempre sotto la Chiesa. Il compenso di Giacomo fu l'ufficiale investitura del regno di Aragona.

Ovviamente il passaggio delle consegne della Sicilia non ci fu. Perchè in Sicilia c'erano i Siciliani. E il fiero popolo che da solo aveva saputo cacciare i Francesi, ora non intendeva essere venduto con un pezzo di pergamena. Non volevano rinunciare alla loro autonomia, da tempo riconoscevano unico signore formalmente Giacomo ma di fatto signore era il fratello Federico, già governatore dell'isola da quando il fratello era salito sul trono paterno in Aragona. La politica pontificia fece accelerare i tempi di investire ufficialmente Federico con la corona, anche perchè con quel patto di Anagni fatto da Giacomo con Carlo sembrò un tradimento. Lui che viveva in Aragona, come si permetteva di cedere la Sicilia?

Federico invece crescendo nell'isola, aveva imparato ad amar la nuova patria accettò così di farsi incoronare, dichiarandosi pronto a dare il suo sangue nella difesa dell'indipendenza della Sicilia contro Carlo, contro Bonifacio, e anche contro i suoi parenti d'Aragona (chiaro il messaggio per suo fratello). Il 15 gennaio del 1296 dal parlamento radunato nel duomo di Catania Federico fu proclamato re. Il 25 marzo 1296, giorno di Pasqua, nel duomo di Palermo i siciliani lo incoronarono col nome di Federico III,
per continuità con la dinastia sveva da cui discendeva. Federico III era nato nel 1272, figlio di Costanza che era la figlia di Manfredi e nipote di Federico II.

La città era in festa, gremita di gente venuta ad assistere alla cerimonia da ogni parte dell'isola.
La cronaca di questa incoronazione e i primi atti di Federico (fra questi una moderna costituzione) e le cronache belliche che seguirono, li riportiamo in dettaglio nelle pagine storiche della "Storia d'Italia" .

Era una bella sconfitta per il papato (e non ci fu solo questa) che firmava allegramente trattati, paci, e bolle, che però non avevano poi un'applicazione pratica; faceva e disfaceva lasciandosi guidare dalle vecchie ideologie senza avvertire che la realtà era ben diversa. Restavano però le trame, e su queste si affidò, sbagliando, chiudendo il suo pontificato con un bilancio umiliante per lui e la Chiesa.
Caetani non era nè debole nè inabile, profonda era la sua scienza giuridica, preparato in quella che noi chiamiamo "politica estera", e ci si meraviglia che concepisse ancora - come nel medio evo che stava lasciandosi alle spalle - che la sovranità papale non doveva aver limite, e che la sfera del potere ecclesiastico dovesse dilatarsi fino ad assorbire quello temporale dei re e dei principi. Egli voleva riunire nelle sue mani ambedue le spade del potere spirituale e temporale, e non volle mai riconoscere come la sua reale potenza fosse illusoria.
Non riuscì a intravedere che un'epoca stava finendo, che il Medio Evo era al tramonto, e che già si stavano profilando le grandi nazioni con il potere in mano allo Stato laico e non alla Chiesa.
Mentre a Palermo incoronavano Federico III, Bonifacio il 25 febbraio 1296 pubblicò una sconcertante bolla, la "Clericis laicos". Proibiva ai laici, sotto la minaccia della scomunica e interdetto, d'imporre qualsiasi tassa e imposta agli ecclesiastici senza il consenso della Chiesa (ricordiamo qui che gli ecclesiastici possevano su ogni territorio immense proprietà terriere, immobili e mobili). Iniziava insomma una ostilità tra laicato e clero. Secondo le parole di Seppelt "...si impostava la grande questione, se oltre al papato, padrone assoluto dei beni della Chiesa in virtù del suo potere giurisdizionale, spettava anche allo Stato un diritto autonomo di esazione tributaria dalle sue chiese, conventi, proprietà terriere e mobiliarie". Cioè per lo Stato era in gioco addirittura la sua stessa esistenza.

Le ripercussioni oltre che in Italia, ci furono in Inghilterra, in Germania, in Francia; in quest'ultima il papa cominciò ad essere malvisto dagli stessi cardinali, rinfocolando sentimenti di autonomia in seno alla Chiesa francese; Filippo il Bello rispose perfino con due editti che isolavano (e nemmeno potevano più entrare in Francia) i legati della Curia che erano addetti alle riscossione dei tributi. Bonifacio a quel punto dovette fare marcia indietro, e quel potere dispotico che lui voleva esercitare, si rivelò non solo una tigre di carta, ma fece subire una umiliazione alla Chiesa.

Anche nella stessa Roma, eserciò questo potere dispotico, inimicandosi molti membri dell'aristocrazia, e le potenti e facoltose famiglie. I Colonna accusarono apertamente Bonifacio di non essere degno della tiara, il veemente Jacopone da Todi arrivò a chiamarlo "novello anticristo", e il 10 maggio 1297 nelle strade di Roma comparve il cosiddetto "Manifesto di Lunghezza", questo perchè era un lungo e dettagliato memoriale anti-Bonifacio, che alla fine veniva dichiarato pontefice decaduto e intimava ai fedeli di negargli l'obbedienza. Era sottoscritto dai Colonna e da diversi Spirituali.
Bonifacio andò su tutte le furie, reagì in modo violento. Con una bolla i due cardinali Colonna furono destituiti, scomunicati e "dannata la loro stirpe e dannato il loro sangue"; e quando i Colonna reagirono con un altro nuovo memoriale, il papa ordinò la confisca dei loro beni, che a Roma e dintorni non erano poca cosa. E che ovviamente vennero divisi tra i Caetani suoi parenti e qualche briciola rimasta ai tradizionali nemici dei Colonna.
Agli indomabili seguaci dei due Colonna nella loro sede di Palestrina e Zagarolo, inviò il 12 giugno una bolla minacciosa (e fu un severo monito per tutti gli altri rivoltosi). Alla prima scrisse che se non smettevano le ribellioni, avrebbe fatto deportare tutti gli abitanti, fatto radere al suolo il paese, e fondato una nuova città con nuovi abitanti nella pianura col nome di Civita Papale. Si ritornava ai metodi dei barbari che tutti avevano stigmatizzato; quando entravano in possesso di un paese o di una fortezza radevano al suolo ogni cosa fino alle fondamenta.

Roma visse gli ultimi mesi di fine secolo in una apparente pace. Le fazioni ostili per non fare la fine dei Colonna si acquietarono. Regnava la sovranità papale.
A voler far regnare questa sovranità papale anche in altre regioni, a Bonifacio gli venne il desiderio di voler dominare anche il Toscana. Questa trovandosi quasi completamente circondata da terre papali, non poteva essere per lo Stato della Chiesa, che un covo di ghibellinismo pericoloso. Come per la Sicilia, concepì anche qui di incorporare allo Stato pontificio la Toscana e quindi anche la stessa Firenze. Gli Asburgo con Alberto d'Austria non avevano ancora ricevuto la corona. A Firenze le discordie fra Guelfi e Ghibellini non si erano mai placate, e si stavano perfino accendendo quelle nuove con l'arrivo a Firenze dei Bianchi e dei Neri di Pistoia. Come di solito accadeva quando gli avversari erano soccombenti una fazione chiedeva aiuto e armi a re e principi, un'altra al papa con le sue armi spirituali. Questa situazione come sappiamo era iniziata ancora ai tempi della contessa Matilde, nè era mai cambiata.
Bonifacio si mise in testa di revocare alla Santa Sede la Toscana. Non ci voleva molto a trovare un pretesto, i torbidi erano frequenti, ad affrontarsi, Grandi e popolani era ormai cosa quotidiana. Un'azione forte Bonifacio la fece il 26 gennaio 1296, quando con una bolla indicò il capopopolo Giano "pietra dello scandalo e suscitatore di torbidi, animato da spirito diabolico e maligno, che nella città solleva la tempesta della rivoluzione, ha sconvolto la quiete, distrutta la concordia e la pace". Minacciò la scomunica e l'interdetto se i fiorentini permettevano il ritorno del tribuno.

Bonifacio avendo chiesto l'aiuto del re di Francia per appoggiare Carlo II d'Angiò nella conquista della Sicilia, pensò prima di servirsi di lui per la pacificazione di Firenze. Carlo il primo novembre entrò solennemente in Firenze come paciere "per titolo di imperio" mostrando il mandato del papa, in nome del quale egli veniva. Poi dopo aver giurato di rispettare gli Ordinamenti di Giustizia e gli Statuti, nel far ritorno al suo quartier generale affidò ai Neri la città.
M
entre il 7 novembre si eleggeva una nuova Signoria intitolando gli atti in nome di papa Bonifacio e per lui entrava in carica un suo podestà, venuto col seguito armato di Valois, con giudici, cavalieri e donzelli, si verificarono disordini in città. I Bianchi che si erano sentiti messi da parte da Carlo, ricominciarono a inveire e a scagliarsi contro i Neri, i quali tronfi dell'appoggio di Carlo risposero per le rime.
Iniziarono i primi tumulti, le prime vendette, seguirono devastazioni, incendi, saccheggi. In cielo vi era la cometa di Halley presagi di sventure. A difendere i Bianchi dalla sua nuova carica di Priore, Dante Alighieri ("Tutti li mali e tutti gli inconvenienti miei dagli infausti comizi del mio Priorato ebbero cagione e il principio"). Fu infatti bandito dalla città dopo l'opera nefanda di Valois ("con la lancia giostrò Giuda..")
L'errore grande di Bonifacio fu quello di aver inviato - fidandosi - il Valois, che invece di sedare i tumulti preferì appoggiare i Neri; ma non per fare un favore al papa ma per cercare di trascinare i Neri - e quindi Firenze e la Toscana - nell'orbita della influenza francese sottraendola al papa. Filippo il Bello infatti stava facendo di tutto per sovrapporsi a un pontefice che credeva di essere un Cesare e l'Imperatore del mondo. E come tale si comportava.

Ma la sovranità papale come la intendeva Bonifacio non doveva avere limiti, la sua potenza anche, il prestigio pure. Bonifacio le tre cose le consolidò tutte contemporaneamente con un'idea grandissima, nuova nella storia della Chiesa, nuova per Roma, singolare per tutti i cristiani d'Europa. Un'idea che servì a rinvigorire in lui la consapevolezza di avere il primato tra i sovrani della terra.
In quei giorni, un anno intero, scrive il Gregorovius "potè assaporare nella sua pienezza il senso della propria potenza quasi divina".
L'idea straordinaria fu quella di indire con una bolla del 22 febbraio 1300 il Giubileo. Il primo della storia. Si decretava un indulgenza plenaria per tutti coloro che nell'anno in corso avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo a Roma (che fu poi esteso
in ogni futuro centesimo anno, in seguito ogni 50 anni, o in anni particolari).

Fu un avvenimento - come riferiscono i cronisti del tempo - che fece affluire a Roma da tutte le parti del mondo centinaia di migliaia di pellegrini (il Villani calcola che superarono di molto i due milioni) incrementando il turismo e in parallelo le finanze pontificie derivanti dalle altrettanto milioni di offerte. Ma ciò che rese al papa questa manifestazione religiosa quanto a prestigio fu enorme.
Quando i pellegrini assistevano alle funzioni religiose dov'era qualche volta presente anche Bonifacio, si assisteva a delle scene indescrivibili "giungevano fino al suo trono per gettarsi nella polvere davanti a lui come di fronte a un essere soprannaturale" (Gregorovius).

Fu un successo di immagine grandissimo. Di normali pellegrini, mentre i grandi sovrani a Roma non si fecero vedere, salvo il solito angioino Carlo Martello. A Bonifacio di re e principi importava poco, sotto le insegne imperiali, lui compiacendosi esclamava "Sono io il Cesare, sono io l'Imperatore".
Era una potenza illusoria, un delirio di potenza, perchè appena finito l'Anno Santo, in Francia Filippo il Bello, anche lui superbo e ambizioso, non riconosceva nessuno al di sopra di sè, pure lui nel suo regno si considerava un Cesare un Imperatore. E così entrambi impersonando questi concetti non poterono che finire in aperte ostilità. A cominciare fu però Bonifacio che con una bolla del 4 dicembre 1301 tolse al re francese alcuni privilegi che secondo lui aveva male onorato; seguì il giorno successivo un'altra bolla con la quale convocava a Roma per il novembre del 1302 in un concilio l'episcopato francese e lo stesso Filippo re di Francia, per definire una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa. E concludeva la bolla affermando che "solo il papa è stato posto da Dio; posto al di sopra di qualsiasi sovrano; per cui anche il re di Francia è sottomesso al papa".

Non sappiamo se veramente c'erano scritte queste frasi, quando la bolla fu recapitata da un legato alla corte di Francia, nel leggerla uno zelante cancelliere di Filippo, indignato da ciò che leggeva gli strappò la bolla dalle mani e la buttò fra le fiamme del caminetto. Il legato poi a memoria riportò il contenuto scritto su un banale foglio e non sappiamo se fu lui ad aggiungere quelle frasi oppure erano state veramente vergate e siglate dal papa.

Filippo reagì facendo diffondere il contenuto delle due bolle in Francia e aggiungendo che lui nelle cose temporali non si sentiva secondo a nessuno, e nel contempo invitava a Parigi nell'aprile del 1302 il clero francese agli Stati Generali. Quando si riunirono, i prelati all'unanimità approvarono una lettera da inviare al papa con la quale protestavano per le offese rivolte al re di Francia. Filippo ne approfittò per proibire all'episcopato francese di recarsi a novembre al concilio papale indetto da Bonifacio a Roma.
Il Papa tenne ugualmente il concilio, anche perchè trentanove vescovi francesi non osservando il veto posto da Filippo andarono ugualmente a Roma (al ritorno come punizione trovarono tutti i loro beni fatti confiscare dal re).
Bonifacio al concilio fu ancora più severo contro il re di Francia, e con un'altra bolla emanata nell'assemblea (la "Unam Sanctam") il 18 novembre, ribadì ancora più chiaramente i concetti espressi nella precedente bolla, e aggiunse che la "potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale" e che "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote".
Disapprovava fortemente la condotta dei vescovi francesi per il servilismo verso il sovrano e con la stessa bolla lanciava la "scomunica contro "quelli" che impediscono ai vescovi l'andata a Roma". Sembrò chiara l'allusione a Filippo.
In Francia conosciuto il tenore di quest'altra bolla ne furono tutti indignati e Filippo a quel punto convocò a Parigi un concilio generale. Si cominciò a parlare di papa illegittimo, di papa eretico, di papa simoniaco, e i Colonna che erano stati scomunicati, privati dei beni, costretti a fuggire, ma erano presenti pure loro a Parigi, all'assemblea lessero il famoso "lungo" memoriale con tutte le note accuse rivolte al pontefice. Si aggiunsero quelle di Nogaret che lo accusava di essere sodomita e di aver prima fatto abdicare e poi ucciso Celestino V per poter lui salire e rimanere sul soglio.
Insomma si stava iniziando un vero e proprio pericoloso processo a Bonifacio, e Nogaret ebbe perfino l'incarico dal re di una missione segreta a Roma per arrestare il papa e condurlo in catene a Parigi.

Bonifacio si rese conto che la situazione non volgeva a suo favore, e con una delle solite manovre di retromarcia, inviò in tutta fretta un messo in Francia per fare una precisazione: Filippo era incorso solo indirettamente nella scomunica perchè aveva impedito ai vescovi di recarsi a Roma; poi con una delle solite ambigue trame, cercò l'amicizia di Alberto d'Asburgo. Questi da tempo aveva buonissimi rapporti col re di Francia. Lui era sì re di Germania ma nessun papa l'aveva mai incoronato. Bonifacio intrigò per spezzare questa alleanza franco-tedesca; si fece avanti, il 30 aprile lo incoronò re di Germania, si fece promettere solennemente che lo avrebbe difeso contro tutti i nemici, e per tale promessa-impegno gli promise l'incoronazione imperiale e re sovrano di tutti i re della terra. L'altro accettò anche se poi non tenne fede alla promessa.
In un nuova assemblea degli Stati Generali, il re - compatto popolo e clero - decise di convocare un concilio ecumenico, nel mentre si apriva una sorta di istruttoria contro Bonifacio per valutare una vera e propria sua destituzione.

Bonifacio riunito ad Anagni respinse tutte le accuse francesi in un suo concistore, e lo terminava preparando una bolla di scomunica al re che avrebbe reso pubblica l'8 settembre 1303. Ma non fece in tempo, Nogaret in missione a Roma aveva svolto il compito assegnatogli. Preso contatti con gli avversari di Bonifacio, in prima fila i Colonna, aveva organizzato una congiura e organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, che avvenne il 7 settembre con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L'unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi. L'unico a non fuggire e a non lasciare Bonifacio il cardinale Niccolò Boccasino.
L'irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest'ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l'indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia "ecco la mia testa!". Sembra - almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.

Nogaret - com'era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto. Per decidersi su cosa fare impiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all'assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l'assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.

La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l'ultimo suo fatale errore.
Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l'ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.

Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l'incolsero e quindici giorni dopo, l'11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.

Gregorovius così commentò quel monumento: " è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui... fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo".
Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza.
Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva - con questa smodata ambizione della fama postuma - con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.
Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi.

Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimonio con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.

Ferreto da Vicenza scrisse invece che "...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, fino a far sanguinare la testa incanutita",
Francesco Pipino nel suo "Chronicon" scrive che "nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane". Altri raccontarono cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca" le riportò tutte con una certa acrimonia.
Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".

Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "lo principe de' novi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX, 86-93).
A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V, per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza, poi seguito - paradossalmente - dal breve e arrendevole pontificato del mite Benedetto XI .

Sopra abbiamo parlato delle manie di grandezza di Bonifacio, del suo culto della personalità, della magnificenza nei suoi palazzi, del fasto e della pompa (enorme in occasione del giubileo), delle statue disseminate un po' ovunque, della famosa monumentale cappella in S. Pietro che doveva accogliere le sue spoglie.
Ma non ci dobbiamo meravigliare di tutto questo, erano quelli i tempi che per affermare la superiorità sulle genti (e Bonifacio era - a suo modo - effettivamente superiore ai re e principi suoi contemporanei) gli stessi popoli valutavano il potere dalla magnificienza dei palazzi, dalle feste, dal fasto, dalla pompa, cioè dalle apparenze.
Si afferma che l'ultimo pontefice del Medio Evo fu proprio Bonifacio, e anche se espresse a dismisura la sua alta dignità rendendosi perfino odioso per la sua superbia e boria, fu poi rimpianto perchè come successori seguirono papi che espressero a dismisura la loro debolezza.

Trecento anni dopo - l'11 ottobre 1605 - nel demolire la vecchia basilica, per far posto alla nuova, fu abbattuta anche la monumentale cappella della famiglia Caetani. Nel farlo fu scoperchiato il sepolcro di Bonifacio. La sua salma apparve intatta, nel volto, nelle mani. Nessuna lesione nel cranio smentendo le secolari dicerie. Trasferito nelle grotte vaticane, anche lui cominciò ad essere venerato come un grande papa. Era quello che lui aveva sempre desiderato: la fama postuma.
Torniamo agli eventi. Con BONIFACIO VIII, era dunque finita la teocrazia e il Papato pareva che avesse esaurite tutte le sue energie...l'elezione di PAPA BENEDETTO XI ......

BENEDETTO XI, Niccolò Boccasini, di Treviso
( pontificato 1303-1304 )
Morto Bonifacio - in un modo drammatico come abbiamo visto nella sua biografia - sembrò quindi finita la sua illusoria teocrazia, il Papato pareva che avesse esaurite tutte le sue energie. Un successore con la sua tempra non era del resto facile trovarlo.
I funerali di Bonifacio si erano svolti con la città in armi. Ci furono vari tumulti e scontri delle opposte fazioni. Carlo II e i due figli Roberto e Filippo, erano giunto da Napoli e, temendo proprio i tumulti, l'angioino si era portato dietro diverse truppe. Ma anche Federico aveva inviato dalla Sicilia alcune navi e queste si misero all'ancora al porto di Ostia in attesa.
Con i tumulti in città, e i due sovrani nei dintorni in armi la situazione non prometteva nulla di buono.
Turbolenti erano anche i cardinali elettori, potenti per ricchezze e parentele, come gli ORSINI, e c'erano anche i COLONNA, che malgrado la scomunica, erano subito rientrati in Roma.

I cardinali riuniti a conclave a Perugia, capirono subito che di papa bisognava eleggerne subito uno in gran fretta, e un accordo sul nome lo trovarono quasi subito, il 22 ottobre 1303 elessero il cardinale Niccolò Boccassini. Era quell'unico cardinale che ad Anagni durante l'assalto al palazzo dei cospiratori non aveva abbandonato Bonifacio. Cinque giorni dopo, il 27 ottobre lo incoronarono in S. Pietro col nome di BENEDETTO XI.

Niccolò aveva già 64 anni, era nato a Treviso nel 1240. Figlio di un notaio, dopo aver studiato, giovanissimo a 15 anni era entrato come precettore nella casa di un nobile veneziano, ma poi scelse il convento per farsi domenicano. A 46 anni fu eletto generale del suo Ordine. Abile, colto, studioso, riuscì a percorrere una ottima carriera ecclesiastica, fino ad essere nominato nel 1298 cardinale da Bonifacio VIII.
Di carattere mite - e forse per questo lo scelsero i timorati suoi colleghi cardinali - invece di scontrarsi con le forze laiche in tumulto, o parteggiare per uno dei due sovrani scelse la strada pacifica della diplomazia, che poi era una resa del papato.
Del resto non aveva alleati per opporsi ai Francesi di Filippo il Bello; quanto ai tedeschi morto Bonifacio, Alberto d'Asburgo non aveva nessuna intenzione di mantenere la promessa che aveva fatto.

Ma nella Chiesa e non solo in questa, lo smacco per l'affronto subito ad Anagni aveva lasciato il segno, l'indignazione era nell'animo di tutti, anche dei vecchi avversari di Bonifacio. Benedetto sapeva che non poteva far dimenticare quell'oltraggio, i cospiratori bisognava pur punirli. Ed infatti pochi giorni dalla sua elezione, il 6 novembre 1293 istruì un processo contro i congiurati. Non dimentichiamo che fra essi c'era un Colonna, e gli altri due Colonna che erano in esilio con l'interdetto, la scomunica e le confische fatte da Bonifacio, ma come abbiamo detto sopra dopo la sua morte erano rientrati precipitosamente a Roma.

Nel processo -che durò circa quaranta giorni e si concluse il 23 dicembre 1293 - i Colonna erano sul banco degli imputati, ma seppero così bene difendersi, elencando uno a uno i gravi torti subiti, che ebbero l'ardire di chiedere perfino un indenizzo. Su questo punto ci si mise d'accordo, furono restituiti i territori confiscati, ma quando i due chiesero di essere reintegrati come cardinali, il papa negò loro questa richiesta. I due non si arresero, e chiesero la protezione a Filippo il Bello. Questi anche se Bonifacio era morto aveva l'intenzione di convocare un concilio per condannare tutto il suo operato. Benedetto onde evitare anche quest'altro oltraggio al papa morto, si piegò alla volontà del re di Francia e reintegrò i due Colonna nella loro carica e li tolse dalla scomunica. Il processo finì quindi in una farsa. Anche se la scomunica non la tolse nè allo Sciarra nè al Nogaret, i due maggiori responsabili dell'assalto al palazzo, dell'oltraggio, e delle violenze fatte a Bonifacio.
Certo che non poteva agire diversamente, per dominare i partiti ci voleva un Pontefice che potesse contare su potenti relazioni, e fosse dotato di carattere energico e battagliero. Invece Benedetto XI era povero, mite d'animo e alieno dalla lotta.

Si barcamenò per qualche mese, poi dopo aver celebrata la Pasqua 1294 comprese, che rimanendo a Roma, gli sarebbe stato impossibile  governare la Chiesa, e adducendo come pretesto l'aria malsana della città, la lasciò col proposito forse di stabilire la sede apostolica nell' Italia settentrionale. Invece si fermò a Perugia e, incline com'era alla pace, tentò di conciliare a Firenze i BIANCHI e i NERI, ma fallito il tentativo riconfermò l'interdetto che il suo legato aveva lanciato sulla città toscana. Il Valois invece di averle attenuate le discordie le aveva inasprite con la regia oscura di Filippo. (per questi fatti "guerre a Firenze" , vedi queste pagine di Storia d'Italia)

Da Perugia sono datati gli atti più importanti di Benedetto XI, che sono consacrati in due bolle: quella del maggio e quella del giugno del 1304. Con la prima egli commetteva un atto di estrema debolezza assolvendo Filippo il Bello e i suoi ministri dalla scomunica in cui erano incorsi per aver maltrattato quelli che andavano a Roma o mandavano alla Santa Sede il legittimo denaro; con la seconda però dava prova di un'energia di cui nessuno lo avrebbe creduto capace. Sembrò il Bonifacio dei tempi migliori.

In questa bolla il Pontefice condannava con indignazione l'ingiuria fatta al suo predecessore ed esprimeva la ferma volontà di punire i colpevoli. «Abbiamo — scriveva — prorogata fino ad ora, per giusti motivi, la punizione dell'esecrando delitto che alcuni scellerati commisero contro la persona del nostro predecessore, Bonifazio VIII, di felice memoria. Ma non possiamo più oltre tardare a muoverci, anzi Dio medesimo deve muoversi con noi per disperdere i suoi nemici e scacciarli dalla sua presenza ».

Quindi elencava tutti i nomi di coloro che erano stati partecipi della brutale aggressione di Anagni, tra i quali erano Guglielmo di Nogaret e quattordici nobili, la maggior parte italiani, e dopo aver rievocato a foschi colori la triste scena, aggiungeva: «Avendo pertanto osservate le forme di diritto, dichiariamo che i su nominati, e tutti quegli altri che parteciparono alla delittuosa azione, e tutti coloro che con la propria persona concorsero nelle violenze commesse contro Bonifazio VIII in Anagni, e, infine, tutti quelli che fornirono aiuto, consiglio e favore, sono incorsi nella sentenza di scomunica pronunciata dai sacri canoni. Con il consiglio dei nostri fratelli e in presenza di questa moltitudine di fedeli, li citiamo categoricamente a comparire personalmente davanti a noi prima della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, per udire la giusta sentenza che con l'aiuto del Signore pronunzieremo sugli attentati di cui abbiamo discorso».   

Come aveva fatto in precedenza il suo predecessore, non faceva il nome di Filippo, ma era evidente che parlava di lui e "anche" sopra di lui cadeva la scomunica che, con la prima bolla, aveva abrogato. O forse si riferiva solo al Nogaret, il caporione autore del misfatto.
Le due bolle fecero appena in tempo ad arrivare ed essere lette, che il 4 luglio Benedetto moriva.

Anche questa morte - come quella di Celestino e dello stesso Bonifacio - è avvolta nel mistero. Narra il cronista vicentino Ferreto che Filippo di Francia, volendosi vendicare del Pontefice, per mezzo dei cardinali Orsini e Giovanni il Monaco, corruppe due scudieri del Papa, i quali diedero a Benedetto XI dei fichi di cui era ghiotto, avvelenati. Anche il cronista Villani parla di fichi avvelenati, ma li dice inviati dalla badessa di Santa Petronilla, sua devota. O per veleno (si disse polvere di diamante) o, come altri affermano, per una indigestione fatta con questi frutti, era trascorso meno di un mese dalla pubblicazione dell'ultima bolla.

Castiglione osserva che "fu uno strano modo di avvelenamento". Mentre il Gregorovius ritiene che la morte per avvelenamento, o l'indigestione di fichi, è tutta una favola, che il pontefice - appoggiandosi alla testimonianza degli "Annali di Perugia" - "passò a miglior vita, di morte naturale".

Altri dicono che gli avvelenatori furono Sciarra Colonna e il Nogaret per la scomunica data loro da Benedetto. Ma sappiamo anche che nel 1319 Papa Giovanni XXII instituì un processo contro il francescano Bernardo Deliziosi, indiziato come "strumento di morte" del papa. Deliziosi fu espulso dall'ordine e condannato al carcere perpetuo, ma non si è mai saputo il motivo della condanna. E il mistero rimase.

Benedetto fu un papa mite, generoso, conciliativo, arrendevole, ma purtroppo proprio per questo, come nota il Gregorvius "quelle bolle (in Francia) rappresentarono la sentenza di morte del papato come organismo politico; segnarono il suo ritiro dalla posizione di dominio che esso vantava nell'universo e furono il solstizio della sua storia".

Per le suddette ragioni, dopo i suoi soli dieci mesi di pontificato, dietro di sè Benedetto XI non lasciò odi; sepolto a Perugia nella chiesa di S. Domenico, i fedeli alla sua tomba prestarono subito culto; Clemente XII lo approvò, e Benedetto XIV gli attribuì il titolo di Beato.
Morto Benedetto, fu riaperto nello stesso palazzo di Perugia il conclave per dare un degno successore, avevano tutti fretta per non avere ingerenze esterne, ma non fu semplice nè breve la scelta che poi cadde undici mesi dopo su un cardinale francese, nemmeno presente al conclave. l'elezione di PAPA CLEMENTE V .....

CLEMENTE V, Bertrando de Got, francese
( pontificato 1305-1314 )
Benedetto XI appena spirato, i cardinali in numero di venticinque, si riunirono in conclave nel palazzo arcivescovile di Perugia; avevano fretta di eleggere il successore, per il motivo che temevano ingerenze esterne. Ma allo stesso interno le fazioni era due, una francese che era per la pace con la Francia, e l'altra italiana che non aveva dimenticato l'oltraggio di Anagni di Filippo il Bello.

Quindi non
era facile procedere all'elezione del nuovo Pontefice. Come appena detto, in due parti era diviso il Sacro Collegio: quella fedele alla politica di Bonifazio VIII, era capeggiata da Matteo Rosso degli Orsini insieme a Francesco Caetani; l'altra ligia al re di Francia era guidata dal cardinale Napoleone degli Orsini. Nonostante la fretta, passarono giorni e mesi senza che si venisse ad una decisione. Ne passarono di mesi dodici e i Perugini spazientiti fecero come si usava a Viterbo, scoperchiarono il tetto del palazzo, li misero a pane e acqua e, costretti i cardinali a questo severo digiuno finalmente in pochi giorni fu fatto un compromesso tra le due fazioni cardinalizie: su proposta del cardinal D'Acquasparta, che segretamente favoriva il partito francese, si stabilì che la fazione italiana dovesse proporre tre nomi di prelati stranieri tra i quali la fazione avversa avrebbe scelto il futuro Papa. I cardinali italiani proposero tre prelati francesi notoriamente nemici di Filippo il Bello, tra i quali un arcivescovo di Bordeaux sempre stato favorevole a Bonifacio VIII  nella contesa col re di Francia. Ma non sappiamo se veramente sentita o se - con lui vivo - era la sua solo una forma di gratitudine a chi lo aveva nominato vescovo.
Il 5 luglio, il nome prescelto dalla terna fu proprio l'arcivescovo di Bordeaux, Bertrando De Got. Era nativo di Villandraut nella Gironda, aveva studiato a Orleans e Bologna, e proprio Bonifacio VIII, lo aveva eletto arcivescovo (ma non ancora cardinale) di Bordeaux. Tuttavia non era come il suo protettore in cattivi rapporti con Filippo il Bello, anche perchè risiedeva in Francia, dove c'era un episcopato con una gran voglia di autonomia da Roma. Più servile nei confronti del sovrano che non alla Santa Sede.
E proprio per questi buoni rapporti, sono sorte leggende intorno a questo papa che andò a sconvolgere il papato, la sua sede naturale, e di conseguenza tutta la politica della Santa Sede in Italia per un settantennio.

Si narra che avuta la notizia della nomina dai cardinali elettori, il De Got s'incontrò con Filippo il Bello. Se veramente tra i due vi erano alcune divergenze, queste sparirono subito. Il primo era desideroso di mettersi la tiara, e all'altro non gli parve vero di avere un papa in casa.
Il Villani riferisce di un accordo. Il De Got come futuro papa avrebbe promesso al re di Francia alcune concessioni, e fra queste l'uso delle decime del reame per cinque anni e altre cose che via via il sovrano gli chiese e lui concesse.
Oltre il Villani, anche Dante, afferma che il "pastor senza legge", pur di diventare papa si "comperò" il potente appoggio di Filippo, ecco perchè gli assegnò un posto all'Inferno tra i simoniaci (XIX, 85-87).
Ma il più bello doveva venire. Ai cardinali che gli avevano comunicato la nomina e l'invito a scendere subito a Roma per l'incoronazione e la consacrazione "sulla cattedra di Pietro, dove sarete lontano dai re e dai popoli, dove ispirerete ad essi più profondo rispetto, e sarete meglio obbedito", lui rispose ai suoi elettori e futuri consacratori di trasferirsi in Francia, perchè voleva essere incoronato nella sua patria. Indicò loro perfino la città e la chiesa per la solenne cerimonia.

Non era mai accaduto, ma tra lo sconcerto e le polemiche, i cardinali loro malgrado, dovettero ubbidire, fecero la trasferta in Francia, e il 14 novembre 1305, nella chiesa di S. Giusto a Lione, alla presenza di Filippo il Bello, che nel corteo gli reggeva le briglie del cavallo, Bertrando De Got fu consacrato papa col nome di CLEMENTE V.
La cornice della cerimonia fu maestosa, ma fu funestata da tristi presagi (in seguito venne interpretato come un castigo di Dio per l'abbandono di Roma) al passaggio del corteo ci fu il crollo di un muraglione che fece diverse vittime, dodici baroni morirono sul colpo, il Valois restò ferito gravemente, il duca di Bretagna morì più tardi per le ferite, e anche un fratello del pontefice ci lasciò la vita. Anche il neo-papa investito cadde da cavallo e nella confusione la famosa tiara di S. Silvestro portata da Roma per la sua investitura, cadde a terra; quando frettolosamente fu raccolta mancava un prezioso diadema (altro presagio funesto).

In qualche modo furono portati a termine i riti. L'incoronazione nella sua patria era stata fatta, quindi ci si aspettava il suo viaggio verso Roma, per sedersi sulla cattedra di Pietro. Ma ci fu la seconda delusione, il neo-papa, espresse timori per i tumulti romani, preoccupazioni per quelle fazioni forse a lui contrarie, quindi declinò il viaggio romano e mise sede temporaneamente a Lione, poi a Cluny, a Bordeaux, a Poitiers, infine ad Avignone.
Clemente V non tardò a rivelarsi un servo devoto del re di Francia: restituì un mese dopo la sua incoronazione la porpora a Giacomo e a Pietro Colonna, creò dieci (su 11) nuovi cardinali francesi, assolse dalla scomunica Filippo e tutti i suoi complici, concesse al sovrano le decime ecclesiastiche per cinque anni, lo autorizzò a scacciare dal reame tutti gli Ebrei e a confiscare i loro beni; infine bandì una crociata che, sotto la guida di Carlo di Valois, doveva conquistare l'impero bizantino, togliendolo ad Andronico Paleologo accusato di non sapersi opporre ai progressi d'un nuovo nemico della Cristianità: il Turco.

 Sollecitato dal Valois, che, essendo sposo di Caterina di Fiandra, vantava diritti su Costantinopoli, Clemente V scrisse all'arcivescovo di Ravenna e ai vescovi della Romagna, della marca di Ancona e dello stato di Venezia perché bandissero la crociata contro i Greci; minacciò la scomunica a quei principi cristiani che osassero sostenere il Paleologo; tentò di far partecipare all'impresa Federico III di Sicilia e invitò anche le repubbliche di Genova e di Venezia affinché fornissero le loro flotte. Le due repubbliche marinare erano ancora ai ferri corti, inoltre, una era a favore del papa l'altra di Costantipoli dove faceva dal tempo delle prime crociate ottime affari in Oriente con i bizantini.
Poi a Valois morì la moglie, le sue finanze andarono esaurite, la crociata non ebbe più luogo.
Senza muoversi mai dalla Francia, Clemente V, volle occuparsi della questione Toscana, dove nel suo breve pontificato, Benedetto XI aveva tentato ma anche fallito, di smorzare quelle animosità che il Valois aveva creato, parteggiando per i Neri. Il Valois invece di attenuarle le discordie fra Bianchi e Neri parteggiando per quest'ultime le aveva inasprite. La città era un perenne campo di battaglia. Il legato inviato da papa per la riconciliazione, visto crollare la sua missione di pace ed essendo stato perfino minacciato durante una sommossa, aveva lasciato Firenze, lanciandole l'interdetto (4 giugno del 1304).  Dopo la partenza del cardinale, Firenze era ripiombata nel disordine. Saccheggi, distruzione, scontri e un apocalittico incendio che aveva provocato la distruzione di 1700 case e numerosi importanti monumenti.

Quando si arrivò al punto critico, con le crudeltà inaudite, e con gli assedi di città che duravano mesi e mesi (come Pistoia), qualcuno si rivolse per chiedere aiuto a Carlo II d'Angiò, il quale mandò il figlio Roberto, mentre altri si rivolsero a papa Clemente. Che cambiò spartito alla musica che stava suonando perchè nelle cose di Toscana Clemente V seguì una politica opposta a quella di Bonifacio VIII mostrando di voler favorire più i Bianchi che i Neri per far piacere ai Colonna che  erano ghibellini e al cardinale da Prato che non era rimasto contento del contegno dei Neri.

Mentre questi avvenimenti accadevano a Firenze altre discordie avevano luogo  in altre città dell'Alta Italia. Nel gennaio del 1308 moriva Azzo d' Este, lasciando la signoria di Ferrara al figlio naturale Fresco, contro cui subito si levò Francesco, fratello del defunto marchese, che sI impadronì di Rovigo. Non sentendosi abbastanza forti, i due contendenti ricorsero all'aiuto di altri: il primo chiese il soccorso di Venezia, il secondo quello di Clemente V. Sia il Pontefice che la repubblica accolsero volentieri l'invito. 
« II Papa, infatti,— scrive il Battistella, uno degli ultimi ed accurati storici di Venezia — erede legittimo di tutti i beni della contessa Matilde di Toscana, tra cui Ferrara, intendeva profittare dell'occasione per ridurre questa città sotto il proprio dominio diretto. Venezia che da oltre tre secoli si affaticava per assoggettarsela anche territorialmente, giudicò che questa era una buona occasione.  Iniziando in tal modo trent'anni prima di quel che comunemente si creda, la sua politica di terraferma". 

 Ed ecco pertanto la repubblica di fronte al Pontefice accingersi ad un impari lotta nella quale le armi spirituali, onnipotenti nell'ambiente morale di quei tempi, conseguiranno la decisiva vittoria. Infatti l'intervento pontificio non fu un successo di armi, di conseguenza il 25 ottobre usarono l'altra arma, e fu pronunciata contro Venezia la scomunica se entro dieci giorni non si fosse piegata alle ingiunzioni della Chiesa. L'aveva pronunciata lo sconfitto legato papale, ciononostante fece impressione ai Veneziani, che ritennero di fare con lui il 1° dicembre 1308 una vera convenzione di pace a certe condizioni. Quando però Clemente ebbe in mano il trattato non ne volle sapere di ratificarlo, e il 27 marzo 1309 con una bolla ammonì Venezia che se entro un mese non gli avesse dato piena soddisfazione sarebbe incorsa nei castighi più terribili che la Chiesa avesse mai fulminati.
Venezia tentò con l'invio di tre ambasciatori di far esaminare al papa bene le condizioni contenute nel trattato. ma non furono nemmeno ricevuti.
Il momento era molto grave e nel Maggior Consiglio e nella commissione dei Savi eletti pro factis Ferrarie si discusse a lungo sul partito da prendere, essendo non i soli consiglieri, ma l'intera cittadinanza divisa in due parti, che erroneamente fu dette guelfa e ghibellina; una reputava esser saggio che si dovesse a qualunque costo venire a una conciliazione col Pontefice, mentre l'altra decisa a non cedere di un punto, incitava a non lasciarsi sfuggire l'occasione di conquistare una città tanto importante come Ferrara.

La cosa si fece molto seria quando t
rascorsi i termini fissati dal Papa, questi iniziò ad agire. Il cardinale Arnaldo di Pelagrua, legato pontificio, pronunziò le censure canoniche comminate con la citata bolla del 27 marzo. Con esse deponeva la Repubblica da ogni potere e dignità e la si abbandonava di diritto a chiunque avesse voluto impadronirsene; si proclamava la confisca di tutti i beni mobili e immobili che essa e i suoi magistrati e cittadini possedevano nella città e in qualsiasi altro luogo; si dichiaravano nulli tutti i trattati e le convenzioni da essa stipulati con chicchessia; si vietava sotto pena di scomunica di portar merci e viveri a Venezia; e  incitavano tutti i popoli e gli stati cristiani ad andare contro di essa.

Le conseguenze furono nefaste. Con la scusa di un simile interdetto, non solo tutti i nemici di Venezia, ma anche quelli del suo entroterra ne approfittarono per regolare certi conti con la loro dominatrice. Infine ne approfittarono le terre e gli stati anche lontani, che per gelosie, per paure, e sopratutto per il suo opprimente predominio marittimo e commerciale nutrivano malanimo contro Venezia, e si atteggiarono ostilmente, sequestrando mercanzie, navi, fondachi, che essa aveva nelle loro pertinenze, catturando sudditi suoi, chiudendole tutti i porti e gli scali, ribellandole luoghi a lei soggetti, quali Lésina, Curzola, Zara e, per opera del patriarca aquileiese, la stessa Istria iniziò a suo danno violenze soprusi e infamie sotto la giustificazione dell' interdetto; e quando Arnaldo di Pelagrua le predicò contro una crociata, da ogni parte d'Italia accorsero combattenti bramosi di sfogare il vecchio livore, di spartirsi le spoglie della sua decantata opulenza, e di compiere, con la benedizione della Chiesa, quelle vendette che la sua potenza aveva ad essi fino allora vietate. 

Quest' ira di Dio scatenata da un Pontefice con poca carità cristiana si ripercosse su gran parte d'Europa e dalla Francia alla Turchia, dall'Austria alla Sicilia, offese e danni gravissimi vennero a colpire la repubblica nell'onore e negli interessi. In siffatte condizioni non era possibile che l'impresa contro Ferrara avesse un buon esito e, infatti, non l'ebbe: Venezia fu sconfitta sanguinosamente il 28 agosto 1309 a Castel Tedaldo, dovette rassegnarsi a chieder pace e dopo lunghe e difficili trattative e dolorose umiliazioni, fare un vero atto di dedizione a Clemente V, il quale solo dietro  il pagamento di 50.000 fiorini d'oro per risarcimento dei danni e delle spese di guerra, le restituiva gli antichi privilegi in Ferrara al cui possesso reale essa però rinunziava; e più tardi, nel gennaio 1313, levata la scomunica, l'accoglieva di nuovo nel grembo della Chiesa.
In questo medesimo anno (1309) Clemente V fissava la sede pontificia in Avignone, che vi rimase fino al 1376, ospitando sette papi, ovviamente giostranti sull'orbita francese, "papi di Corte". Tale influenza in italia ebbe funesti effetti, cadde in preda alla disgregazione e lo Stato pontificio all'anarchia. Questo periodo fu chiamato "schiavità babilonica" a ricordo della settantenne servitù del popolo ebreo sotto i Babilonesi. Per mille anni la storia della cristianità era legata a Roma, e il mondo cristiano ebbe l'impressione che la Chiesa era diventata una "donna di servizio" dei re di Francia e che la nazione francese si arrogava di dominare spiritualmente tutta la cristianità.
Diede maledettamente ai nervi a Dante (lui ghibellino !), è fu ancor più impietoso quando nel Purgatorio Clemente V lo chiama "una puttana sciolta" alla mercè di Filippo il Bello (XXXII, 148-150).


Nello stesso anno a Napoli (il 5 maggio) moriva Carlo II d' Angiò lasciando, come di diritto, legittimo erede il giovane nipote Cariberto, primogenito del defunto sovrano Carlo Alberto, morto nel 1301 in Ungheria di cui era re; invece ignorando tale diritto gli succedette sul trono il terzogenito Roberto, già duca di Calabria (il secondogenito Ludovico era vescovo).
Ora siccome Cariberto reclamava per sé il reame, Roberto si recò ad Avignone dal Pontefice affinché questi, come sovrano feudale del regno, lo concedesse a lui.
La causa di Roberto fu calorosamente perorata da Bartolomeo di Capua, il quale convinse Papa Clemente che sarebbe stato un male dare la corona di Napoli a un giovanotto nato e vissuto in Ungheria (Cariberto), non conosciuto né amato dai  nuovi sudditi e che inoltre avrebbe dovuto governare da lontano. Fu così che il Pontefice, dichiarò, nell'agosto di quell'anno, Roberto erede legittimo, lo coronò in Avignone con grande solennità, e gli condonò i debiti del padre e del nonno  verso la Chiesa. Infine poiché una grave minaccia per l'Italia sorgeva in Germania col nuovo imperatore, gli diede l'incarico di organizzare il partito guelfo e la difesa contro questo nuovo pericolo imperiale (facciamo qui bene attenzione - "contro un pericolo imperiale")
 
Ma cos'era accaduto in Germania da rappresentare un pericolo?
L'anno prima nel maggio del 1308, sulle rive del fiume Reuss, l' imperatore Alberto d'Absburgo veniva pugnalato dal nipote Giovanni d'Austria. Avuta notizia del regicidio, Filippo il Bello concepì il disegno di fare ottenere la corona imperiale al fratello Carlo di Valois e pregò il Pontefice affinché adoperasse tutta la sua autorità in favore dell'elezione di quest'ultimo.
A questo punto Clemente rinsavì, o fece altri calcoli, o perchè stanco di fare la "donna di servizio, o perchè si accorse che aveva troppo concesso al re di Francia e il pericolo in cui aveva messo la Chiesa; ma non potendo o non sapendo apertamente opporre un rifiuto, promise al monarca che si sarebbe adoperato a favore del conte di Valois, ma preoccupato, e non a torto, dalle conseguenze che sarebbero derivate all'equilibrio politico europeo e all'egemonia del Papato dall'elezione di Carlo di Valois, segretamente consigliò gli elettori tedeschi di dar la corona ad Enrico di Lussemburgo, principe savio e leale, ma non ricco e potente, il quale appunto proprio per questo - se fosse riamsto quello che era - non avrebbe mai potuto recare ombra nè alla Santa Sede nè ai potenti signori germanici.
Nel
  novembre, con molto dispetto al re francese e con grande meraviglia di tutta l'Europa, Enrico di Lussemburgo fu eletto imperatore a Francoforte, poi il 6 gennaio 1309 incoronato ad Aquisgrana.
In Germania
nessuno si oppose perchè egli annunziò che, con il consenso del Pontefice, sarebbe sceso in Italia a cingervi la corona imperiale.

Filippo e il Valois si rosero dalla rabbia, mentre in Italia fu grande
la commozione da questo annuncio. Da sessant'anni la penisola non aveva più visto imperatori; molte vicende erano successe dopo la morte di Federico II; agli Svevi ghibellini erano successi gli Angioini guelfi; si erano sviluppate ed affermate le libertà comunali; erano sorte e si erano consolidate non poche signorie; guelfismo e ghibellinismo, avevano lasciato a poco a poco col volger degli anni il primitivo significato politico e conferito il loro nome a partiti mossi da altre cause e guerreggianti per altri scopi; gli imperatori, infine, riconoscevano ora la supremazia papale e, vivendo in pace con la Chiesa, non potevano incuter timore agli avversari di una volta e nemmeno rinverdir le speranze degli antichi fautori.

Malgrado però le mutate condizioni sociali e politiche, l'Idea imperiale in Italia non era morta; non poteva esser morta un' idea che i secoli avevano radicata nelle coscienze, che la grandezza antica (Roma) aveva tramandata in retaggio, che era presente nelle leggi, che riempiva di sé la tradizione, che pervadeva la letteratura e le scuole di diritto, che tante passioni aveva destate, tante lotte suscitate, tanto sangue fatto spargere; non poteva esser morta anche perché all'autorità imperiale pensavano con nostalgia, nell'anarchia presente, molti spiriti indipendenti, non accecati da sentimenti faziosi, e perché la politica ingiusta di Bonifazio VIII e le intemperanze dei Neri avevano non pochi uomini fatto volgere dall' idea guelfa alla ghibellina. 
Fra questi il più grande dei nostri poeti, DANTE ALIGHIERI; la sua voce si fa interprete del sentimento di tutti coloro che piangono la patria perduta e invocano, per il bene di essa, la fine delle discordie civili. Per l'Alighieri l'impero non ha più l'aspetto di tirannide come era stato una volta considerato, ma acquista il simbolo di pace e di libertà e si presenta come tutta una cosa col diritto di Roma; per lui l'impero — scrive il Carducci — « significa il dominio del popolo romano sopra la terra, e nell'imperatore, di qualunque nazione sia, egli vede trasferita la maestà del popolo romano. Giardino dell' Impero è l'Italia, non la Germania; e di qui il principe romano distende lo scettro su tutte le altre monarchie e su tutti i popoli, intendendo fare del mondo una cristiana repubblica, della quale siano mèmbri tutti gli Stati, dal Regno di Francia al più piccolo Comune italiano".

Certe teorie, Dante le espose in un trattato (De Monarchici) esse troveranno conferma nell'alta poesia della Commedia, in cui il poeta aveva lanciato l'appello supremo al morto Alberto "...Vieni a veder la tua Roma che piagne Vedova e sola, e dì e notte chiama: Cesare mio, perché non m'accompagne": e si era rivolto agli stessi signori e ai popoli d'Italia scrivendo loro: « Ecco ora il tempo propizio in cui i segni spuntano della consolazione e della pace; chè il nuovo giorno splende mostrando l'alba, da cui son diradate le tenebre...».


Ora morto Alberto, l'incoronato Enrico aveva dunque fatto annunziare che veniva in Italia come messo di pace e come  tale ansiosamente lo aspettavano tutti coloro che da lui attendevano giustizia. Un po' meno lieti furono i signori dell'alta Italia che temevano di perdere quei vantaggi che nell'anarchia si erano presi da soli; e ci fu perfino che propose di sbarrare le Alpi alla discesa di Enrico. Ma come sempre accadeva, dopo tante riunioni, alcuni si riserbarono libertà d'azione, il che significava chiaramente che quei signori speravano di acquistarsi il favore dell'imperatore e per mezzo di esso non perdere la propria posizione. Banderuole insomma. Qualche ghibellino per reazione diventò guelfo, ma molti guelfi si misero la (opportunistica) casacca di ghibellino.

Nell'estate del 1310 Enrico VII si recò a Losanna, dove si raccoglievano le sue milizie, e qui ricevette gli ambasciatori di molte città italiane venuti ad ossequiarlo e a presentargli ricchi doni: mancavano quelli di Firenze, di Siena, di Lucca e di Bologna, che avevano preparati gli ambasciatori, ma, avendo saputo che l' imperatore si proponeva di fare rientrare nelle città gli esuli, non li fecero più partire; si dice anzi che Betto Brunelleschi esclamasse: « mai per niun signore avere i Fiorentini inclinato le corna ». Pisa, lietissima, mandò invece un donativo di sessantamila fiorini d'oro. Anche i legati di Clemente V ricevettero Enrico di Lussemburgo e nelle loro mani giurò devozione alla Chiesa, confermò tutti i privilegi che le avevano concessi i suoi predecessori e s'impegnò di non esercitare alcuna giurisdizione sui domini della Santa Sede. Buone insomma erano le intenzione, del resto a lui conveniva, era l'appoggio del papa se lui otteneva successo.

Verso la fine del settembre Enrico VII mosse da Losanna, con un seguito di circa duemila cavalli, alla volta d'Italia ; il 24 ottobre 1310 giunse a Susa, il 30 entrò a Torino. Qui l'imperatore ricevette un'ambasceria romana, fra cui erano i capi delle fazioni di quella città, i Colonna, gli Orsini, gli Annibaldi, la quale ambasceria da Torino proseguì per Avignone per andare a pregare il Pontefice di fare ritorno all'antica sede del Papato. Anche Enrico mandò ad Avignone un'ambasciata, per invitare il Papa a recarsi a Roma ad incoronarlo o, in sua sostituzione, a inviare cardinali con pieni poteri. Clemente V si scusò di non potere andare in Italia adducendo come motivo il concilio che aveva convocato a Vienne, ma promise che avrebbe inviato tre cardinali a celebrare l' incoronazione.
A Torino l'imperatore ricevette inoltre parecchi signori dell' Italia superiore che gli recarono buon numero di milizie e gli presentarono i loro omaggi; nei due mesi ch'egli rimase in Piemonte, con l'aiuto di Amedeo V di Savoia -che gli era largo di consigli- iniziò la pacificazione e la restaurazione dell'autorità imperiale, tolse dalle mani dei signori ogni potere, ordinò che fossero riammessi nelle città gli esuli e mise nei comuni suoi vicari che in suo nome governassero e vi amministrassero la giustizia. Nessun ostacolo incontrò in quest'opera Enrico VII: i vicari venivano accolti con gioia; i signori deponevano spontaneamente i loro poteri; nelle città da lui visitate il Popolo lo accoglieva con manifestazioni di giubilo riguardandolo come l'angelo della pace. Egli fu a Casale, a Vercelli, a Novara e ad Asti. In quest'ultima città venne ad unirsi a lui Matteo Visconti, che lo eccitò a recarsi in Milano, dove Guido della Torre si trovava in una situazione spinosa: egli aveva stretto alleanza con le città toscane per opporsi all'imperatore, ma quando ebbe saputo che la maggior parte dei signori era andata a fare omaggio al sovrano, inviò anche lui ambasciatori con promessa di obbedienza; ora però, sapendo presso la corte imperiale il suo nemico Visconti e vedendo che i signori venivano privati del potere, non sapeva se gli convenisse fare atto di sottomissione o schierarsi apertamente contro Enrico VII. Chi lo fece decidere fu il contegno del popolo milanese che non faceva mistero della propria simpatia per l'imperatore.  Il Torre andò a incontrarlo il 23 dicembre quando Enrico giunse in vicinanza della città, s'inginocchiò davanti al sovrano ed umilmente gli baciò un piede. Quel giorno stesso Enrico VII fece il suo solenne ingresso in Milano, dove fu il 6 gennaio del 1311, incoronato nella basilica di Sant Ambrogio.

Fu una incoronazione cara. Com'era costume bisognava fare un donativo all'Imperatore. Il Consiglio con il Purterla a capo propose 50.000 fiorini, il Visconte per guadagnarsi la simpatia di Enrico, propose un donativo in più, di diecimila fiorini per l'imperatrice, e Guido della Torre, non si sa se ironicamente o sul serio, disse che la cifra si dovesse portare a centomila. Era una somma enorme e il senato per disporla inasprì le tasse ai cittadini suscitando un malcontento generale, che aumentò quando l'imperatore, per scendere verso Roma con un magnifico seguito chiese che lo accompagnassero ventiquattro nobili ghibellini ed altrettanti nobili guelfi tra cui Galeazzo Visconti e Francesco della Torre, figli di Matteo e di Guido e poiché parecchie delle persone scelte si lamentavano di non poter far fronte alle spese, il sovrano ordinò che il loro equipaggiamento fosse provveduto da tutta la cittadinanza.  Altre tasse. A quel punto mettendo da parte le liti e gli odi i Torriani i Visconti e i milanesi, presero accordi per cacciare il Tedesco. Il complotto fu scoperto, e pagarono caro la congiura. (vedi la cronaca nel link già indicato sopra)

Dominata la situazione in Alta Italia, Enrico rivolse le stesse attenzioni prima a Genova poi alla Toscana dove anche Robertò d'Angiò aveva le sue mire. In Toscana prima e a Roma poi, ci furono doppi giochi sporchi. A Roma dove poi era sceso per farsi consacrare imperatore in S. Pietro, Enrico, trovò la città in mano ai suoi avversari, e perfino S. Pietro era occupata. Gli imperiali scatenarono una guerra, ma alla fine Enrico soccombente dovette rifugiarsi a Tivoli.
Contro di sé aveva ormai Roberto d'Angiò, metà Roma e quasi tutta la Toscana e la Romagna. Se proprio non era in trappola poco ci mancava.

A Tivoli — scrive il Bertolini — «...Lo colsero nuove difficoltà. Il Papa, che fino allora aveva sostenuto una doppia parte verso Enrico, incoraggiato dai successi conseguiti dai Guelfi, levò la maschera, e diresse all'imperatore uno scritto dettato nello stile e con le idee di Ildebrando. Il Papa esponeva, cioè, la pretesa che Enrico si obbligasse a non portare mai le armi su Napoli, a concludere con quel re un armistizio per un anno, a uscire da Roma subito dopo la sua incoronazione (la lettera papale era giunta ad Enrico tardivamente), e a non fermarsi fino a che non fosse uscito dal territorio della Chiesa. E rincarando la dose delle sue pretese il Papa ordinava all'imperatore di restituire i prigionieri e le torri di Roma venute in suo possesso, e di dichiarare con pubblico strumento, che gli atti di sovranità compiuti in Roma non creavano all' impero alcun diritto su questa metropoli, né portavano alcun pregiudizio ai sovrani diritti del Pontefice".
Ci si chiede perchè allora lo aveva chiamato.
Clemente giaceva malato, le sue vaghe speranze di restaurare lo Stato della Chiesa le aveva riposte nel nuovo re di Germania, ma poi le difficoltà in cui era caduto questi, e gli eventi a lui poco favorevoli, sollecitato da Filippo il Bello e ascoltando i Neri di Firenze, il papa era finito per schierarsi contro di lui.  Un'antimperiale insomma.

La lettera papale con l'ingiunzione, era stata recata ad Enrico a Tivoli subito dopo il suo arrivo in quella città. Oltre ai suoi consiglieri,  la diede ad esaminare ai frati Minori, i quali avevano già aperto la loro crociata contro i possedimenti terreni della Chiesa. Nella risposta data dall'imperatore allo scritto papale, la quale era segnata da Tibur in urbe fratrum Minorum (1 e 6 agosto 1312), si scorge la collaborazione che vi ebbero quei frati liberali. Infatti, essa negava al Papa il diritto d'immischiarsi nelle cose civili, e affermava che l'imperatore per la elezione dei principi dell'Impero era nella sua piena potestà, onde il Papa non aveva alcun diritto di ordinargli che partisse da Roma, capitale dell' Impero.
Tuttavia con la situazione a Roma molto critica, l'imperatore il 19 agosto partì da Tivoli diretto nuovamente in Toscana, il 19 settembre Enrico giunse nei dintorni di Firenze per assediarla. Ma i fiorentini si erano attrezzati bene per difenderla, mentre invece la stanchezza, la sfiducia, le malattie, serpeggiavano nelle file imperiali; a queste si aggiunsero le diserzioni e la scarsezza delle vettovaglie di modo che verso la fine del 1312 Enrico VII tolse quella specie d'assedio e si trasferì a S. Casciano, donde il 6 gennaio del 1313 andò a Poggibonsi, due mesi dopo era a Pisa era deciso oramai a muover contro Roberto, che considerava come il suo maggior nemico ed il principale sostenitore delle città guelfe, specie di Firenze che lo aveva nominato rettore, protettore, governatore e signore della repubblica.

Ma quando Enrico si mosse ed era giunto giunse nelle vicinanze di Siena per un male, che da tempo lo travagliava, fu costretto a fermarsi a Buonconvento. Qui dovevano improvvisamente aver fine le speranze dei Ghibellini e il sogno imperiale di Dante. 
Il 24 agosto del 1313 Enrico VII moriva, e la sua morte fu così inaspettata che si sparse la voce, non confermata del resto da alcun documento, che l'imperatore fosse stato avvelenato.
Con lui svanirono i sogni dei Ghibellini che come Dante avevano visto nell'imperatore tedesco il salvatore di un'Italia; e che invece in breve tempo ricadde nell'anarchia. 
Mancando il condottiero l'esercito tedesco si disperse; alcuni soldati imperiali fecero ritorno in Germania, ma un buon numero di loro rimasero in Italia al servizio della repubblica di Pisa e costituirono la prima di quella compagnie di ventura che tanto danno doveva poi arrecare alla penisola. 

I Guelfi invece alla notizia di quella morte gioirono e festeggiarono, e il papa colse la (inopportuna) occasione per nominare vicario imperiale Roberto d'Angiò, ma il re di Napoli tutto intenzionato a fare i propri interessi (il primo: quello di far guerra al successore Federico per diventare così padrone di gran parte d'Italia) aveva già avocato a se il potere imperiale rimasto vacante con la morte di Enrico. Lui nella sua testa aveva grandi progetti.
Quello di Clemente V, fu il suo ultimo atto di debolezza. Lui era minato fin da quando era salito sul soglio da una male incurabile, e in questi critici tempi si era ritirato a Carpentras, dove a Roquemaure il 20 aprile 1314 morì.
Moriva il Papa che aveva resa affarista di Filippo il Bello la Chiesa, che aveva proclamato la soppressione dell'Ordine dei Templari al solo scopo di incamerare le grandi ricchezze da questi possedute, e chiamando in Italia il tedesco, aveva fatto correre rischio al Papato di vedere restaurata in Italia la sovranità imperiale.

« Clemente V — scrive il Sismondi — aveva accumulate grandi ricchezze vendendo i benefici ecclesiastici e con altri scandalosi affari venali che lo resero odioso ai suoi contemporanei. Oltre il denaro che teneva nei forzieri, aveva arricchito tutti i suoi congiunti e i familiari: cinque di loro li aveva fatti cardinali e ammessi al Sacro Collegio, parecchi altri furono corredati di episcopati e taluni di ricchi benefici; ma le sue generosità non gli avevano procurato l'affetto di nessuno: appena morto, tutti quelli che abitavano nel suo palazzo si scagliarono sui suoi tesori, come su una preda legittima; e fra tanti non vi fu un solo fedele servitore che si prendesse cura del cadavere del padrone; tanto che, essendo caduti alcuni ceri accesi intorno al feretro,si sviluppò un incendio, il quale, divampando nell'appartamento, fece accorrere finalmente i servi, che lo spensero; ma ormai il palazzo e ogni stanza erano stati talmente svaligiati che non vi si trovò altro che un logoro mantello per ricoprire il corpo mezzo bruciato del più ricco Papa che avesse governato la Chiesa ».  


Pochi mesi dopo moriva anche Filippo il Bello. Per lui, Clemente aveva compiuto non solo atti di debolezza, ma si era piegato fino al limite estremo del servilismo. Il re di Francia aveva un implacabile rancore e una insaziabile brama di vendetta verso Bonifacio VIII. Voleva cancellarne la memoria per i posteri e quando nel concilio fu intentato il processo contro di lui, a esserne complice fu proprio Clemente, che con una bolla del 27 aprile 1311 ordinò che si cancellassero tutti gli atti di Bonifacio VIII, che suonassero pregiudizio e disonore verso il re francese. E sotto pena di scomunica ordinava ai notai e ai giudici di distruggere tutte le copie di quegli atti pontifici. Il regesto di Bonifacio fu quindi diligentemente raschiato nelle pagine che contenevano parole ritenute offensive o dannose a Filippo il Bello.
Paolo Tosti, quando vide quelle pagine ne ebbe una dolorosissima impressione: "fu una miserabile vista vedere quelle pagine rase per violento imperio del Bello, e piansi più per la fiacchezza di quel pontefice che su la tristizia del Principe".

Altri più benevoli, affermano che essendo infermo già al momento della sua elezione non gli fu possibile ribellarsi alle prepotenze del suo patrono e tiranno. Ma allora perchè in tutta coscienza condurre un pontificato senza piena libertà d'azione? Sarebbero semmai ancora più gravi perchè irresponsabili le manovre da lui architettate pur cosciente delle sue incapacità fisiche.
A sua futura memoria iniziò e lasciò la fastosa costruzione di Avignone che nel corso del settantennio con gli augusti abitatori sorse in un misto di reggia e fortezza. "Il Vaticano avignonese costruito sul colle del duomo fu uno dei più poderosi monumenti del medio evo, e dura ancora con merli e torri, tetro e grandioso, ma morto e vuoto come un sepolcro di faraoni" (Gregorovius, Storia di Roma, VI, 254).Il suo successore, anche lui si insediò (per diciotto anni) ad Avignone, continuando a erigere il grandioso palazzo che fu poi ancora ampliato dai successivi cinque papi. Nei dintorni i cardinali costruirono bellissime ville e palazzi ove si diedero convegno le più raffinate mondanità.l'elezione di PAPA GIOVANNI XXII ....

GIOVANNI XXII, Giacomo Duese, di Cahors
( pontificato 1316-1334 )
 Appena morto Clemente (il 20 aprile 1314) i cardinali, in numero di ventitré, si riunirono nella stessa Carpentras (lì era radunata tutta la corte papale da quando vi era andato a soggiornare il papa) per procedere all'elezione del nuovo Pontefice. Sei erano i porporati italiani, ma tutti fermamente decisi a dare i loro voti soltanto a chi avesse dichiarato di ricondurre la Curia a Roma. Tutti gli altri erano francesi o comunque filo-francesi.

L'atteggiamento degli italiani provocò una sedizione popolare; furono incendiate le case dei cardinali e di molti cortigiani e mercanti italiani, furono minacciati di morte i prelati che non fossero disposti ad eleggere un Pontefice francese. A luglio erano ancora riuniti, ma il tumulto si fece in breve tempo così minaccioso che sei porporati italiani (alcuni affermano che furono invece vittime) si videro costretti a fuggire dopo che qualcuno aveva appiccato il fuoco all'edificio. Vi era stata infatti una vera e propria invasione al palazzo episcopale di bande guidate da Bertrand e Raimondo de Got, nipoti del defunto papa.  
Il conclave ovviamente si sciolse e la Santa Sede "avignonese" rimase vacante per oltre due anni. 


Nel corso di tutti questi mesi (27) , Luigi X, figlio maggiore subentrato al padre Filippo il Bello, anche se intervenne a sollecitare i cardinali a sedersi sugli scranni, non riuscì a farli riunire in conclave, ma morto lui, suo fratello successore Filippo V, piuttosto energico, invece delle parole usò la forza (si era intanto giunti al 28 giugno 1316) e segregò i cardinali in un convento dei Domenicani. Ciononostante bisognò attendere un altro mese, fin quando il giorno 7 agosto la loro scelta cadde sul nome di un altro guascone: Giacomo di Euse, vescovo di Porto.
Costui oriundo di Cahors, amava e conosceva bene l'Italia, era stato professore di diritto a Napoli, e per le sue alte qualità, il re Carlo d'Angiò II lo scelse come precettore dei suoi due figli, Roberto che divenne poi suo successore, e Lodovico che invece scelse la vita francescana e che era poi finito fare il vescovo proprio a Porto, ma vi morì ancora molto giovane e gli subentrò il suo maestro e futuro papa, uomo zelante, attivo, ma di una pietà ammirabile, fervente devoto verso Maria Santissima ( fu lui a estendere la recita del Santo Rosario a tutta la cristianità), evangelicamente molto operoso non solo nel salvare le anime ma anche premuroso a raccoglire ingenti fondi per la Chiesa in modo che nel funzionamento non avesse alcun problemi economici.

Se i suoi elettori, nel vederlo pensavano che durasse poco, si sbagliarono di grosso. Campò fino a 90 anni, lasciandosi dietro per la Chiesa un produttivo pontificato di 18 anni.
Infatti quando fecero il suo nome, Giacomo di Euse, aveva non solo 72 anni, ma era un uomo piccoletto, malandato e anche deforme. Ma incredibilmente attivo, certe volte impetuoso, ma grande studioso e intelligentemente prudente; il Petrarca ce lo tramanda "home perstudiosus et vehementioris animi"; Giovanni di Andrea "scientia magnus, statura pusillus, conceptu magnanimus"; il cronista Ferreto "licet venustae deformis, non minus prudent quam ingeniosus".

Così attivo che moltiplicò le sedi episcopali, ed essendo stato un precettore e quindi amante della cultura, aprì molte scuole, vigiliò sulle università. Riordinò l'amministrazione della Chiesa e organizzò la cancelleria papale; creò un tribunale per gli affari più importanti da discutere, destinandovi 12 giureconsulti non fissi ma a rotazione (rotatim), che divenne la Sacra Rota. E prendendo in mano le Decretali, nel Corpus Iuris aggiunse così tanto che furono chiamate le sue note "Extravagantes". (ne parleremo a fondo pagina)

Ciò che fece poi a fin di bene ma che qualcuno cominciò ad approfittarsi, trasformandolo in un vizioso male, fu la creazione di tanti offici e dignità, sviluppando così enormemente le commende, che potevano essere conferite non solo ad ecclesiastici ma anche a laici. E proprio per questo motivo, cominciarono gli abusi, furono oggetto di mercimonio, dando origine a scandali che fu in seguito difficile estirpare; le simonie si moltiplicarono e si aggravarono fino al Concilio di Trento.

Consacrato papa il 25 settembre 1316 con nome di Giovanni XXII, il pontefice si trovò subito tra le mani la questione tedesca. Nei due anni di "sede vacante" in Germania era accaduto di tutto. Se ricordiamo, alla morte in Italia del giovane Enrico VII, Clemente V (pur avendolo chiamato lui in Italia) aveva poi cambiato improvvisamente bandiera, e alla sua precoce e improvvisa morte, aveva (inopportunamente) nominato vicario imperiale Roberto d'Angiò. Questi tutto intenzionato non a fare gli interessi per quel papa assente da Roma, ma solo i suoi, aveva già avocato a se il potere imperiale, e si era messo in testa di diventare lui il padrone di gran parte dell'Italia. Avendo questi progetti Roberto era pronto a far la guerra a qualsiasi altro tedesco che avesse varcato nuovamente le Alpi.
I tedeschi dietro le Alpi ci rimasero per un bel po. Infatti durante la "sede vacante", i contrasti non erano solo ad Avignone tra le due fazioni di cardinali, ma anche in Germania si era aperta una grave crisi tra i principi elettori per la successione di Enrico VII, e non trovando un accordo ma semmai inasprendo i contrasti avevano fatto alla fine una duplice elezione. Il 19 ottobre 1314, alcuni principi avevano proclamato Federico d'Austria, ma il giorno dopo gli altri principi avevano eletto Lodovico il Bavaro. Scoppiò quasi subito una guerra civile e quando fu eletto Giovanni XXII papa, era in pieno corso, e continuò per altri sei anni, perchè da guerra civile si era trasformata in una vera e propria guerra tra i due contendenti.
L'uso delle armi premiò il Bavaro, che nella battaglia di Muhldorf, vinse e fece prigioniero il rivale, ma non lo fece uccidere, ma lo rinchiuse in un castello (Traunitz).
Giovanni XXII aveva cercato di sottomette i due contendenti, ma inutilmente, forse perchè essendo neo-papa non aveva ancora carisma.

Le ripercussioni di quella vittoria di Lodovico il Bavaro si ebbero anche in Italia. Per l'inopportuna nomina di Roberto fatta dal precedente papa (vicario imperiale, e capo del partito Guelfo) e per le palesi ambiziose intenzioni che l'angioino non nascondeva di avere, le città Toscane e Lombarde si erano allarmate, a ragione, perchè Roberto disponendo un esercito di quasi l'intera penisola, le avrebbe certamente sopraffatte. Cosicchè Ghibellini Lombardi (con a capo i Visconti) e Ghibellini Toscani si unirono per trovare una via d'uscita, che era una sola, la solita, quella di chiamare in aiuto uno straniero; cioè Lodovico il Bavaro, che aveva vinto a Muhldorf, aveva eliminato l'avversario, e si era incoronato da solo imperatore, re di Germania, d'Italia e di Borgogna.
A questo punto, seguendo la linea del suo predecessore, venne fuori Giovanni XXII, a parteggiare nuovamente per l'Angioino. L'8 ottobre 1323, sulla porta della chiesa di Avignone faceva affiggere un severo monito per il Bavaro.
La notizia degli aiuti forniti da Ludovico il Bavaro ai Visconti provocò -come era naturale-  l'ira di Giovanni XXII, il quale affermando che solo la S. Sede era amministratrice dell'impero durante l'interregno e che nessuno poteva usare il titolo ed esercitare l'ufficio di imperatore senza l'approvazione papale, l' 8 ottobre del 1323 pubblicò una sentenza: sotto la minaccia della scomunica, ordinava a Ludovico di deporre entro tre mesi il titolo e l'ufficio e di non riprenderli se prima l'elezione non veniva confermata dalla Sede Apostolica e di annullare tutte le deliberazioni prese come imperatore, inoltre proibiva a tutti gli ecclesiastici, sotto pena di sospensione, e ai laici sotto pena di scomunica e di interdetto, di aiutare il Bavaro o di ubbidirgli in qualità di Re dei Romani. 
. Dichiarava inoltre nemico della Chiesa il già scomunicato Galeazzo Visconti per aver chiesto l'aiuto di Lodovico, e aggiunse perchè aiutava la ribelle Ferrara e perchè aiutava i frati eretici (le varie sette che predicavano apocalitticamente la riforma della Chiesa corrotta).

Il tedesco dal monito non si fece intimorire, rispose con una dieta a Norimberga, dove precisò che l'impero non era vacante, che la nomina l'aveva ricevuta dai principi elettori, e aggiungeva con impertinenza, che il papa avrebbe fatto meglio a pensare alla sua dignità e alle proprie colpe. E nel dirlo fece diffondere libelli infamanti contro il pontefice.
Giovanni il 23 marzo 1324 lo scomunicò. Poi con la sentenza dell'11 luglio 1324, lo privava ufficialmente della dignità, e proscioglieva i sudditi dal giuramento di fedeltà.
I maligni ben informati dissero che il papa francese volesse dare la corona imperiale al re di Francia; del resto questo era da tempo un sogno sempre rincorso dal defunto Filippo il Bello, quello di diventare lui imperatore.

Il Bavaro giocò invece d'astuzia. Liberò dalla prigionia Lodovico, da tre anni rinchiuso nel castello di Traunitz, lo convinse a rinunciare a qualsiasi pretesa al trono, e lo convinse pure di adoperarsi per convincere i suoi amici elettori e soprattutto suo fratello Leopoldo d'Austria; così la sua incoronazione diventava legittima e non usurpata.
Ma ormai Giovanni XXII aveva deciso a chi doveva andare la corona imperiale, e sembra che anche in Germania i principi a favore del Bavaro furono pochi.

Indubbiamente pochi, perchè il Bavaro, raccolto un discreto esercito scese in Italia, e quando giunse a Trento lanciò al papa una serie di infamie, dando ragione e facendosi alleati tutte le sette eretiche. Poi proseguì per Milano, e qui il 30 maggio 1327, nella basilica di Sant'Ambrogio, le mani del vescovo Tarlati (un guelfo diventato ghibellino) gli metteva sul capo la corona regia d'Italia. Scese poi in Toscana, creando Duca un signore di Lucca, infine si mosse per Roma, dove al suo avvicinarsi una insurrezione aveva già cacciato da Roma i Guelfi e le truppe di Roberto d'Angiò.
Saputo dell'arrivo di Ludovico il Bavaro a Viterbo, i Romani gli inviarono una deputazione e il sovrano, il 7 gennaio, entrò nella capitale dell'impero accolto dal popolo con manifestazioni di gioia. Il legato pontificio lanciò su Roma l'interdetto, ma questo non valse a impedire l'incoronazione imperiale che ebbe luogo il 17 gennaio. 
Un corteo imponente accompagnò da Santa Maria Maggiore alla basilica di San Pietro il sovrano attraverso vie addobbate con ricchissimi tappeti; Ludovico era preceduto dai capitani del popolo, dai consiglieri e dai baroni romani, che indossavano vesti ricamate di oro, ed era seguito dai quattromila cavalieri del suo esercito; Castruccio, che era stato creato cavaliere e conte palatino del Laterano, portava la spada imperiale. Il Bavaro fu ricevuto in San Pietro da Giacomo Alberti vescovo di Venezia e Gerardo Orlandini vescovo di Aleria, entrambi scomunicati, che lo consacrarono; poi Sciarra Colonna
(l'uomo dell'oltraggioso schiaffo a Bonifacio VIII ad Anagni - Come avevano dimenticato in fretta i Romani!) "in nome del popolo romano" gli pose sul capo la corona e il Castracani gli cinse al fianco la spada. 

Scrive il Villani: "In nessuna cronaca antica o novella, un imperatore cristiano mai si facesse incoronare se non al papa o a suo legato".
Era insomma una incoronazione rivoluzionaria.

Ma Lodovico andò anche oltre la presunzione; dando ascolto alle sette eretiche della più cattiva fama, agli apostati, a Marsilio da Padova (che il Bavaro nominò addirittura Vicario della Chiesa Romana) istituì un processo in contumacia contro Giovanni XXII. Il 18 aprile 1328 tredici membri rappresentativi del clero romano lo dichiarava eretico, delinquente, lo deponeva e nominava il 12 maggio 1328 nuovo pontefice l'eresiarca francescano Pietro Rinalducci (capo dei ribelli Spirituali, che Giovanni XXII aveva messo al bando come eretici fin dal 1317) , che prese il nome di Niccolò V. Il neo-papa come primo atto con la solita tradizionale cerimonia incoronava Lodovico il Bavaro imperatore.
Altri atti non ne fece più; era sì stato un ribelle, ma era un insignificante umile frate, e forse si rese conto da solo che tutto ciò che era avvenuto era una grande farsa, che non giovava di certo il cristianesimo. Nell'agosto del 1330, andò a fare atto di pentimento ad Avignone, Giovanni lo perdonò con un bacio e di lui non si sentì più parlare. Forse lo trattenne prudentemente in qualche segreta del palazzo finchè uscì di vita tre anni dopo.
A proposito di questi francescani, bisogna dire che l'intransigenza di Giovanni, che seguitava a disprezzarli con nome di "fraticelli" (ma alcuni finirono sotto l'inquisizione, altri condannati al rogo) non aveva portato serenità nell'Ordine; questo seguitava a far riferimento alla povertà di Cristo e dei suoi apostoli; povertà e beni comuni affermavano - questo doveva essere il "vero cristianesimo" predicato dalla Chiesa, non quello sommerso nelle mollezze e nel lusso. Con una bolla emanata nel 1323, Giovanni dichiarò tale asserzione eretica, e l'Ordine dei Francescani si risentì molto; perfino il loro generale Michele da Cesena convocato ad Avignone per giustificare il suo atteggiamento, preferì rifugiarsi alla corte di Lodovico insieme a Guglielmo d'Occam; poi furono colpiti entrambi dalla scomunica.Ma oltre i due, molti Frati Minori iniziarono ad accusare, proprio lui, il papa, di eresia. Ecco perchè da Trento e fino a Roma, oltre i laici, il bavaro trovò un considerevole appoggio dei Frati Minori.
Fra l'altro i Minori a Giovanni gli contestavano il primato di Pietro. Lui non era stato mai a Roma, e dato che il diritto divino, solo a Roma e sulla cattedra dell'Apostolo veniva dato a un papa da Dio, dunque lui non era un legittimo papa, e non aveva alcun diritto di eleggere o deporre imperatori. Quanto a quest'ultimi, anche sotto il profilo laico, solo il popolo romano poteva acclamare un imperatore.
Ma torniamo a Roma. Se l'antipapa nel 1330 era andato ad Avignone a chiedere perdono, l'anno prima (dicembre 1329) ad abbandonare Roma lo aveva preceduto Lodovico. I Romani che lo avevano applaudito il 7 gennaio 1328 imperatore, ben presto si resero conto con chi avevano a che fare; i tributi imposti dal tedesco nel corso dei due anni provocarono subito risentimenti nei suoi confronti; qualcuno già stava sollecitando Roberto D'Angiò a intervenire; e questo già si stava muovendo; una flotta era già ad Ostia e si era impossessata di un presidio tedesco. L'aria che tirava si era fatta insomma pesante, e il Bavaro che forse era convinto anche lui che era stato tutta un farsa, e continuarla sarebbe stato pericoloso, nel dicembre del 1329 accantonò l'idea di andare a punire a Napoli il D'Angiò, e preferì abbandonare la città e far rientro in Germania, non prima di aver collezionato una serie di fallimenti in Toscana, in Lombardia, in Emilia e aver subito una continua diserzione di milizie.
(La cronaca di questi fallimenti nelle pagine di Storia d'Italia, nel link a fondo pagina )


La discesa in Italia di Lodovico il Bavaro ebbe insomma poca storia. "Partiva dall'Italia - scrive il Muratori - lasciando una abominevole memoria di sè medesimo presso i Guelfi e forse non minore presso i Ghibellini"
Da Milano a Firenze, nemici e amici l'avevano capita. Come a Roma che cercarono subito dopo di riconcialirsi con il papa.
Lodovico era sceso in Italia e a Roma per abbassare il prestigio della S. Sede e del Guelfismo e rialzare quello dell' impero e del Ghibellinismo, e invece Roma era caduta completamente in mano della Chiesa.


Lodovico non ebbe fortuna nemmeno in Germania. Si agitò ancora per qualche anno, e ogni sconfitta l'attribuiva al papa che governava illegalmente, e fino a tutto il 1334, seguitò a cercare senza successo alleati per far deporre l'eretico Giovanni XXII. Questi tolse il disturbo dalla vita terrena il 4 dicembre dello stesso anno. Stava compiendo il suo 90mo anno.


A parte la lotta, in questo periodo fecondo di Giovanni, fra Impero e Chiesa - ci fa notare Castiglioni nella sua Storia dei Papi - andò delineandosi una questione di principio che le due parti avevano affrontato in pieno, giacchè maturò un nuovo diritto costituzionale dell'Impero, che capovolgeva la medievale istituzione di Carlo Magno e di Leone II.

"Giovanni XXII si era irrigidito sui punti di diritto che erano stati fissati dalle Decretali di Innocenzo III, e in particolare nella lettera Venerabilem fratrem Salisburgensem. I punti essenziali erano questi:
1°) l'elezione del re di Germania compete ai principi di Germania;
2°) anche dopo che il pontefice ha congiunto col regno di Germania il Sacro Romano Impero, l'elezione del re compete ai principi;
3°) fatta la elezione, spetta al papa il diritto di esame utrum electus dignus sit, qui imperator constituatur;
4.°) se l'eletto non è ritenuto degno della maestà imperiale, i principi devono eleggerne un altro: rifiutandosi di ciò fare, il papa è libero di conferire la corona imperiale ad un altro principe;
5°) nel caso che l'elezione fatta dai principi sia dubbia su parecchi candidati, il papa può invitare i principi ad accordarsi su di uno solo, oppure lo stesso pontefice decide da arbitro fra i contendenti, in base alle qualità morali dei medesimi, giacchè la Chiesa non deve rimanere priva dell'imperatore che ne deve essere il protettore e il difensore.

"Di contro a questi principi affermati dal diritto canonico, s'erano già levate voci contrastanti, come aveva fatto DANTE stesso col suo De Monarchia, in cui negava alla Chiesa ogni ingerenza, anche indiretta, nelle cose temporali. Altri sostenevano che l'eletto, ipso iure, diveniva imperatore senza bisogno di alcuna conferma da parte del pontefice o del popolo romano; altri ancora dicevano bastare l'accettazione da parte del popolo romano.
I Regalisti ora bandivano teorie ancora più radicali, come Guglielmo Ockam e gli pseudo-frati Minori, i quali giungevano fino a sostenere che il pontefice non era che un suddito dell'imperatore; questi anzi ha il diritto di eleggere il pontefice e di deporlo, qualora si fosse reso indegno. I teorici di queste nuove dottrine, che capovolgevano la costituzione del Sacro Romano Impero, furono MARSILIO DA PADOVA e GIOVANNI JANDUNO dell'università di Parigi, i quali di comune accordo compilarono il famoso libello De fensor Pacis, e lo dedicarono appunto a Lodovico il Bavaro. Il libello fu condannato con la bolla Licet iuxta doctrinam, e gli autori si ebbero la scomunica. Anche l'università di Parigi proscrisse e condannò il libro rivoluzionario.
Nel De fensor Pacis, con stile vigoroso ed affascinante, col pretesto di ristabilire la pace nel mondo, viene sovvertita la stessa costituzione della Chiesa. Eccone i punti fondamentali:
1°) il potere legislativo e giudiziale della Chiesa risiede nella comunità e quindi nell'imperatore, che ne è il rappresentante;
2°) la gerarchia ecclesiastica è stata creata dalla comunità e dall'imperatore;
3°) alla medesima l'imperatore un tempo ha demandata l'autorità, e quindi l'imperatore gliela può revocare. Cristo non ha costituito alcun capo dei suoi apostoli, e non si può dimostrare che Pietro sia stato a Roma;
4°) il papa non ha di per sè alcuna autorità: egli ha incoronato Carlo Magno come mandatario del popolo romano;
5°) il papa non ha diritto nè di eleggere, nè di giudicare, nè di deporre l'imperatore, il quale anzi può far tutto questo nei riguardi del papa; 6° ogni autorità che il papa e la Chiesa esercitano è loro conferita dall'imperatore, il quale può entrare in possesso di tutti i beni ecclesiastici quando gli aggrada, poichè Cristo medesimo pagò il tributo a Cesare. Il contesto del libello inoltre è tutto infarcito di invettive contro Giovanni XXII, «l'immane dragone, l'antico serpente ».
Sorsero a difendere la dottrina cattolica valenti teologi, quali Alessandro di S. Elpidio, arcivescovo di Ravenna; il frate minore Alvaro Pelagio; il domenicano Pietro de Palude; l'agostiniano Agostino Trionfo e Corrado di Megenberg. Confutarono essi l'asserzione che l'impero fosse di immediata origine divina e al disopra della Chiesa. All'incontro fecero causa comune coi Regalisti quei frati Minori che a questa epoca passarono all'eresia e allo scisma".
Il novantenne, piccoletto, malandato e anche deforme, morendo aveva lasciato dietro di sè non poche polemiche.l'elezione del successore PAPA BENEDETTO XII ....

BENEDETTO XII, Giacomo Fournier, francese
(
pontificato 1334-1342 )
Morto Giovanni XXII il 4 dicembre 1334, ad Avignone, nella stessa città si riunì il conclave per eleggere il suo successore. Dieci giorni dopo, il 20 dicembre dello stesso anno, veniva fatto il nome del neo-papa: Jacques Fournier, consacarato poi l'8 gennaio 1335 col nome di BENEDETTO XII.
Il Sacro Collegio era composto in prevalenza da cardinali francesi, e ovviamente venne fuori un papa francese. Cinonostante appena eletto lui aveva tutte le intenzioni di trasferirsi a Roma, ma le pressioni dei cardinali francesi fecero naufragare il suo progetto.

Jacques Fournier era un monaco Cistercense, aveva studiato a Parigi e nel 1317 era stato creato vescovo di Pamiers, successivamente di Mirepoix.
Venendo dal convento era un uomo dai rigidi costumi e, sempre immerso negli studi era un buon teologo e ottimo canonista. Essendo anche di animo mite e conciliativo, proprio con questa sua ultima dote si diede molto da fare per pacificare l'Italia piena di contrasti e di delusioni dopo la brutta e fallimentare esperienza del tedesco Ludovico il Bavaro. Anche se poi nella sostanza i suoi nobili tentativi approdarono a ben poco.

Costretto a rimanere ad Avignone, si dedicò con zelo alla costruzione di quell'immenso palazzo, fino a farla diventare quella gigantesca costruzione di torri massicce, mura colossali, che ricoprirono una superficie di 6400 mq. Un poderoso edificio - tra fortezza, chiostro, carcere, palazzo - che il Pastor - dice "riflettere la condizione della Santa Sede di quel tempo".
Era allora indubbiamente austero (dopo furono fatti lavori di abbellimento, rendendolo un palazzo lussuoso) ma benedetto era un monaco, disprezzava il lusso, e lo tolse anche a molti che erano stati beneficiati nel precedente pontificato, anche perchè molti (ecclesiastici e laici) i benefici se ne erano appropriati o comprati con gli abusi. Di benefici ne concesse pochi, e a quanto pare - odiando il nepotismo - non li concesse nemmeno ai suoi parenti. Solo un suo nipote assurse alla carica di arcivescovo di Arles, ma non era stato lui a intercedere, lo avevano proposto alcuni cardinali.
Nell'opera di pacificazione, oltre che in Italia, Benedetto fu subito impegnato nella pacificazione con l'imperatore tedesco Lodovico il Bavaro, ma questi tentativi furono intralciati dal re di Francia Filippo VI, che aveva il fondato timore che il riavvicinamento tra i due, avrebbe agevolato il rientro a Roma del papa, come del resto Benedetto XII desiderava fare; più volte rispondendo alle sollecitazioni dei romani (che gli offrirono anche la potestà senatoria), ebbe parole piene di attenzione, e tramite dei nunzi inviati a Roma riuscì pefino a far ristabilire l'ordine.
Premurosamente inviò anche grosse somme per far restaurare San Pietro e il Laterano.

Tuttavia Roma soffriva.  Malgrado le velleità repubblicane del popolo e i propositi dei nobili di costituirsi una signoria, sia i grandi che i popolani sentivano la nostalgia della Curia la cui assenza aveva disseccato l'unica fonte di lucro, e ne desideravano fervidamente il ritorno.
Non era la prima volta che Roma rimanesse priva del Papa; per un motivo o per un altro, mai però l'assenza dei Pontefici da Roma era stata così lunga, tanto lunga da sembrare che volesse esser definitiva (l'assenza si protraeva da 30 anni, una generazione!); e mai come al tempo dell' esilio avignonese la Santa Sede aveva esercitato così scarsa autorità sopra i suoi stessi domini. Pareva anzi che fosse stata cancellata del tutto tale autorità dallo stato pontificio, dove, accanto ai comuni quali Roma, Ancona e Perugia, erano sorte e si erano affermate non poche signorie: quella dei Pepoli a Bologna, i da Polenta a Ravenna, gli Ordelaffi a Forlì, i Malatesta a Rimini, i Varano a Camerino, i Montefeltro a Urbino, i Prefetto da Vico a Viterbo e Civitavecchia.
« La città eterna — scrive Pietro Orsi — presentava a quest'epoca un aspetto di desolazione e di miseria; la popolazione, che era andata man mano diminuendo, aveva abbandonato la periferia per restringersi attorno al Campidoglio, così che molti dei grandi monumenti dell'antichità s'innalzavano in mezzo alla campagna deserta. Eppure tanto decadimento non aveva cancellato nella mente dei suoi abitanti la memoria dell'antica grandezza, cui il nome dei suoi magistrati municipali (senatori) sembrava perpetuare. Queste vecchie tradizioni però non avevano impedito che anche a Roma penetrasse l'elemento feudale; anzi i baroni si servivano degli antichi monumenti per innalzare al disopra delle loro case quelle torri, dalle quali sostenevano lotte continue contro i rivali". 
Fra le famiglie potenti di Roma - come sappiamo - due si segnalavano sulle altre: i COLONNA (che si erano sempre atteggiati a Ghibellini) e gli ORSINI (che per contro si dicevano Guelfi): entrambe approfittando dell'assenza dei Papi miravano ad impadronirsi della signoria della città seguendo l'esempio dei tiranni dell'Alta Italia -, perciò si combattevano più aspramente di prima.
Cosicchè in questa anarchia, nel corso del pontificato di Benedetto, nel 1339 il popolo insorto contro i grandi si ordinò a repubblica democratica e mandò ambasciatori a Firenze a studiare quella costituzione ed a richiedere copia degli ordinamenti di giustizia. Ma fu un fuoco di paglia, A Roma mancava quasi del tutto quella borghesia, che reggeva il governo fiorentino; e la repubblica allora proclamata non poté conservarsi di fronte agli attacchi dei nobili ed alle opposizioni del Papa».(Pietro Orsi)
E quando Benedetto XIII morì - come leggeremo nella prossima biografia di Papa Clemente VI - subito partì un'ambasciata da Roma guidata da Stefano Colonna che si onorava della compagnia di Francesco Petrarca (leggeremo la cronaca nella successiva biografia).

In Germania quelle manovre e quelle pressioni fatte su Benedetto dal re di Francia, i principi elettori, indubbiamente le avevano capite e scoperte, l'indignazione verso il re francese si faceva sentire, e di riflesso colpivano anche il papa, perchè sempre francese lui era. La lotta divenne esasperata nel 1338, quando gli elettori tedeschi il 16 luglio si raccolsero a Rense, dichiarando che Lodovico il Bavaro era stato eletto da loro, e quindi aveva il diritto di amministrare l'impero e di assumere il titolo di imperatore, anche senza l'approvazione di Roma. Nell'agosto dello stesso anno, in un'altra dieta a Francoforte, Lodovico protestò che l'imperatore non poteva essere giudicato dal papa per il fatto che l'autorità imperiale viene direttamente da Dio. E nel dirlo, forse per far un ulteriore dispetto, si mise a sostenere apertamente l'Inghilterra che da qualche tempo stava maturando simili idee, e come i tedeschi da tempo si era mossa contro la Francia.
A ingarbugliare le cose, e a renderle ancora più difficili, perfino in casa sua, fu Lodovico stesso, quando nel 1342, mise di traverso alle vicende politiche una vicenda matrimoniale di suo figlio. Con losche manovre fece sciogliere il matrimonio di Margherita Multash erede del Tirolo e della Carinzia, con Giovanni di Boemia, per darla a suo figlio Lodovico. Le intenzioni erano quelle di mirare all'eredità della prima, per poter ingrandire i possessi del secondo, suo erede al trono. La cosa non era per nulla gradita ai principi elettori, cosicchè se li trovò sempre più contro. Lui, sfidando l'impopolarità, fece l'ostinato, e quelli si rivolsero al papa, che intervenne energicamente affinchè nè quello scioglimento nè quell'unione avvenisse.

Ma Benedetto non compì l'opera fino in fondo, il 25 aprile 1342 moriva ad Avignone. Ma ci sono dubbi che potesse andare oltre nella questione, negli affari ecclesistici era energico e risoluto, ma negli affari politici era esitante ed incerto. Lasciò però un successore piuttosto avveduto e come leggeremo, per nulla esitante.
l'elezione di PAPA CLEMENTE VI ....



CLEMENTE VI, Pietro Roger, francese
(
pontificato 1342-1352 )
Morto Benedetto XII il 25 aprile 1342, nella stessa Avignone i cardinali del Sacro Collegio riuniti in conclave, dopo appena tredici giorni, si misero d'accordo sul nome del successore. Erano ormai quasi tutti cardinali francesi, e quindi quel nome non poteva ancora una volta che essere francese.
Il 7 maggio 1342 il neo-papa Pierre Roger de Beaufort, nato 51 anni prima a Malmont, veniva eletto papa, e il 19 maggio veniva consacrato col nome di CLEMENTE VI.

Anche lui era un monaco come Benedetto XII, fin dalla giovanissima età era entrato in un convento di Benedettini, ma al contrario di quello non era un uomo di rigidi costumi; ma era anche lui uno studioso (e non solo
di affari ecclesiastici ma politici), un dotto canonista oltre che pio e zelante pastore di anime, e ricoprì l'incarico di docente di Teologia a Parigi, fu poi vescovo di Sens e Rouen, infine era stato creato cardinale proprio da Benedetto XII. Negli anni si era distinto così tanto da diventare guardasigilli alla corte di Francia, e qui aveva appreso e apprezzato il fasto, la munificenza e la liberalità.
Il Castiglione dice che "ancora quand'era cardinale era megalomane nello spendere, con soldi anche presi in prestito, e quando fu eletto papa, fu buona ventura per i suoi creditori, furono saldati tutti e con la giunta di laute ricompense".
Lo si vide subito alla festa della sua incoronazione la sua munificenza e prodigalità, a parte le molte spese per i lussuosi addobbi che fecero cornice alla solenne cerimonia, ci fu un banchetto enorme, una ecatombe di buoi e vitelli (oltre 200), montoni (oltre 1000), capponi (oltre 3000), capretti, maiali, polli e galline (oltre 11.000), lucci, storioni e si vuotarono 102 botti di vino.
(Vol 195, Introitus et Exitus, nell'Archivio Vaticano)

Insomma quando salì sul soglio al contrario del suo predecessore che era stato molto parco e molto rigoroso nel distribuire benefici ecclesiasistici, e severo nell'estirpare gli abusi, Clemente VI invece, piuttosto liberale, largheggiò, beneficiando inopportunamente anche alcuni avventurieri, che qualche volta con i loro loschi traffici coinvolsero la Chiesa. Del resto qualche anno prima Avignone era solo un borgo, poi con la sede papale da lui resa magnificente, era diventata prospera, un vero e proprio centro commerciale, con quattromila addetti che gravitavano intorno alla corte papale e altrettanta era la gente che lavorava nell'indotto: negozianti, agenti di commercio, affaristi di ogni specie, banche che avevano aperto le loro filiali ad Avignone. E non sempre tutti questi affari nella nuova capitale della cristianità erano puliti. E ci sarà stato un valido motivo il perchè il Petrarca nelle sue "Rime" la chiama Avignone ".... la novella Babilonia ond'è fuggita ogni vergogna, ond'ogni bene è fori, albergo di dolor, madre di orrori..."(CXIV, 1-4).

Tuttavia, Clemente generoso lo era anche con i poveri e i bisognosi; e quando l'Europa fu messa in ginocchio dalla terribile pestilenza del 1348, Clemente VI (e fu poi accusato di aver dissipato il tesoro pontificio) largheggiò di soccorsi e di aiuti. A Filippo VI diede mezzo milioni di fiorini d'oro, al regno di Napoli quasi quattro milioni, e dato che la regina Giovanna aveva la sovranità feudale di Avignone, Benedetto la comperò per 18.000 fiorini. Avignone ora diventava a tutti gli effetti un piccolo regno della Chiesa incastonato nel regno di Francia.
Ma a parte questo tipo di cronaca affaristica e mondana, quando Clemente VI era salito sul trono, vi era la famosa questione "politica" di Lodovico il Bavaro non risolta. Questi non aveva per nulla dato ascolto - sulla vicenda matrimoniale - al debole Benedetto XII, poi morto questo, col nuovo papa trovò che era opportuno riappacificarsi mandandogli un'ambasceria. Ma se il primo aveva dimostrato debolezza, esitazioni e incertezze, il suo successore piuttosto avveduto non fu per nulla esitante e tanto meno debole.
Lasciò trascorrere qualche mese, poi si fece vivo con la bolla del 12 aprile 1243, che era piuttosto severa: iniziava enumerando i delitti e le sopraffazioni di Lodovico nelle cose acclesiastiche, e gli imponeva di abdicare entro tre mesi alla dignità imperiale.

Lodovico che fino allora aveva tenuto cattivissimi rapporti col re di Francia, si rivolse proprio a lui perchè facesse da intermediario. I principi elettori tedeschi che già da tempo si stavano mettendo contro di lui per la faccenda del matrimonio, con la mossa fatta in Francia si indignarono e nemmeno furono insensibili alla bolla papale, stavano rischiando il disonore. Cominciarono a non volerne più sapere del Bavaro che aveva con tutti i suoi fallimenti condotto l'impero alla rovina.

A Clemente non passò inosservata questa presa di posizione dei principi e con un'altra bolla li invitò e sollecitò a riunirsi e a nominare un nuovo re di Germania. La scelta degli elettori cadde su Carlo IV, figlio del re di Boemia e nipote di Enrico VII. Il 26 novembre 1346, il giovane principe si fece incoronare a Bonn e prestò giuramento al papa. Abbiamo detto a Bonn e non ad Acquisgrana dove da sempre avveniva l'incoronazione, ma in quella città era forte la fazione a favore di Lodovico e la città in mano loro aveva chiuso le sue porte al neo-re.
Questi seguaci di Lodovico a quella incoronazione, protestarono, volevano far tornare in Germania la guerra civile, senonchè tutto terminò quando pochi mesi dopo - 11 ottobre 1347 - Lodovico scese nella tomba con lo strano incidente in una partita di caccia. In breve tempo tutti riconobbero Carlo IV e perfino gli eretici che avevano fino allora appoggiato il Bavaro si calmarono, e molti di essi e lo stesso Ockam si sottomisero a Clemente VI.
E se qualcuno aveva ancora qualche dubbio, non poteva che prendere atto che ancora una volta il potere spirituale si era imposto sul potere temporale.Si era intanto arrivati al 1349. A Roma si seguitava a languire e a soffrire . Abbiamo già detto nella precedente biografia, che nell'anarchia dei grandi, i romani si erano ribellati ed avevano di nuovo ricreato una repubblica.  Malgrado le velleità repubblicane del popolo e i propositi dei nobili di costituirsi una signoria, sia i grandi che i popolani sentivano la nostalgia della Curia la cui assenza aveva disseccato l'unica fonte di lucro, e ne desideravano fervidamente il ritorno.Nell'ambasceria inviata subito dopo l'elezione di Clemente, guidata da Stefano Colonna che si onorava anche della compagnia di Francesco Petrarca, presentatisi al Papa, lo invitarono a nome di tutti i Romani, a ricondurre la Santa Sede a Roma; e dato che la città languiva nella miseria, memori delle favolose entrate del famoso anno santo del 1300, lo pregarono di ridurre da cento a cinquant'anni il tempo del giubileo; tale evento avrebbe ridato vitalità a una città che senza la sede papale stava da diverse decine di anni morendo di inedia.
Clemente VI in quella occasione ci penso sù dei mesi, poi rispose ritenendo possibile il giubileo e promettendo infine che sarebbe tornato in Roma non appena il momento gli fosse sembrato propizio. Per quanto la amasse, di tornare a Roma non aveva proprio voglia, e riguardo al giubileo erano passati un paio d'anni di silenzio. Bisognava quindi sollecitare.
I romani inviarono una seconda ambasceria ad Avignone. Faceva parte di questa ambasceria un giovane popolano, COLA DI RIENZO, figlio di un taverniere e di una lavandaia, anima ardente di sognatore, che aveva studiato appassionatamente l'antica storia di Roma, e sdegnato della miseria in cui era caduta la patria, vagheggiava un ritorno di Roma alle antiche glorie repubblicane.
Tornato da Avignone nella capitale, Cola ricominciò con maggior fervore a diffondere  le sue idee, a scuotere gli animi intorpiditi, a prepararli alla grande opera che lui vagheggiava.
 
Cioè che fece dopo questo tribuno, che si era un po' montato la testa (si cinse di sei corone) e come finì, lo raccontiamo nelle molte pagine nei link di Storia d'Italia.
Finalmente giunse il 1350 a confortare i Romani affranti da tante calamità e a sollevarli dalla miseria. L'Anno Santo, portò a Roma un numero grandissimo di pellegrini, tra cui ci fu il re d' Ungheria. Da tutta l' Europa, provata dalla terribile peste, accorsero a frotte i romei nella capitale della Cristianità a ricevervi il perdono, a portarvi le generose elemosine per il loro scampato pericolo, e a far fiorire per un anno la vecchia città, esausta da tante dolorose vicende. Ma finito l'Anno Santo Roma ricadde nel disordine e il Pontefice credeva proprio di potere dare pace alla città incaricando un Collegio di quattro cardinali di trovare una forma di governo che eliminasse gli eccessi della nobiltà e quelli della democrazia.

Fu un fallimento e si arrivò a richiamare nuovamente Cola di Rienzo. Questi quand'era stato cacciato era finito nelle prigioni di Praga con le accuse di eresia e scomunicato. Ma poi fu consegnato a quelle di Avignone nell'estate del 1352 e contro di lui fu istruito un processo. Ma i giudici erano stati clementi e non l'avevano condannato. Il Pontefice non aveva voluto mettere a morte quell'uomo che il Petrarca stimava ancora, che la plebe romana invocava e che avrebbe potuto costituire nelle mani della curia avignonese un prezioso strumento per la sua politica romana. 

Ma Clemente VI non ebbe il tempo di servirsi di Cola di Rienzo.
Cessò di vivere ad Avignone il 5 dicembre del 1352.
Lasciò al suo successore il difficile compito, e questi tirò fuori dalla galera il tribuno e lo utilizzò lui.l'elezione di PAPA INNOCENZO VI .....

INNOCENZO VI, Stefano Aubert, francese
(
pontificato 1352-1362 )
Morto il 5 dicembre del 1352 Clemente VI, i cardinali del Sacro Collegio raccolti in conclave, avedno ormai acquisito una loro certa indipendenza (ormai Avignone era diventata una potenza papale formale e di fatto, spirituale e temporale) si misero in allarme quando seppero che Giovanni il re di Francia si stava portando ad Avignone.
Temendo di doverne subire le influenze, accelerarono i lavori, e dopo pochi giorni, il 18 dicembre dello stesso anno 1352, fecero il nome del cardinale Stefano Aubert della diocesi di Limoges, che fu poi consacrato il 30 dicembre col nome di INNOCENZO VI.
Vescovo di Noyon e Clermont, Stefano Aubert godeva di una buona fama di canonista, come il precedente papa, ma rispetto a quello, questi era un uomo modesto, integro di costumi. Di conseguenza con la sua ascesa al soglio, nella corte avignonese diminuì quel fasto che il suo predecessore aveva promosso e incentivato. Quanto ai benefici che molti - e spesso senza alcun merito - avevano non solo ricevuto ma moltiplicato, ne proibì la comulazione. E negli stessi uffici ecclesiastici fece una radicale "pulizia" circondandosi di leali e onesti collaboratori degni del loro compito.
Agì insomma da uomo irreprensibile, cosciente dei suoi compiti che erano poi quelli di rendere la Chiesa degna del suo primato e non accusata di essere una "Babilonia" , "madre di dolor" e "per nulla apostolica".
Non cadde nella trappola e non mise in pratica nemmeno un accordo che rischiava di imporsi come un governo oligarchico in seno alla Chiesa. L'accordo era stato fatto dai cardinali che lo avevano eletto e contemplava: di non eleggere altri cardinali del Sacro Collegio; la divisione in parti uguali tra loro dei redditi; il divieto di nominare propri parenti alle cariche importanti. Volevano insomma restare solo loro i "padroni", senza alcun altro inserimento nella loro "congrega", e questo era lesivo al primato assoluto del pontefice.
Dell'autorità assoluta del suo potere Innocenzo VI ne ebbe subito coscienza, e restaurò in pieno la "pleninudo potestatis".
Dobbiamo credere a questa irreprensibilità e saggezza, perche il Petrarca che con i papi avignonesi era sempre e comunque avverso, ammira e chiama Innocenzo VI " Magnus vir et iuris consultissimus".
In queste sue prime cure Innocenzo VI - come forse stava facendo o aveva intenzione di fare il suo predecessore - tolse dalle galere di Avignone Cola di Rienzo, lo rimise in libertà e lo inviò in Italia, con lo scopo di rimettere l'ordine a Roma e recuperare gli Stati del patrimonio di S. Pietro dai numerosi signori che avevano cancellato l'autorità papale; scacciando i Visconti da Bologna cui l'avevano venduta  i Popoli; gli Ordelaffi da Forlì, Forlimpopoli e Cesena; i Manfredi da Faenza; i da Polenta da Eavenna e Cervia; i Malatesta da Rimini, Fano, Pesaro, Sinigaglia, Ascoli, Osimo, Ancona; i Montefeltro da Urbino e Cagli; i Varano da Camerino; i Gabrielli da Gubbio; gli Alidosi da Imola; Giovanni da Vico da Viterbo, Orvieto, Toscanella, Corneto, Civitavecchia e Terni.

 A questa impresa che non era facile Innocenzo VI prepose il cardinale EGIDIO D'ALBORNOZ, grande di Spagna, un diplomatico, un esperto di diritto ma anche un valido militare che aveva combattuto vittoriosamente contro i Mori in Andalusia ed aveva diretto con grande abilità l'assedio di Algesiras; nello stesso tempo scrisse ai Romani che aveva perdonato a Cola di Rienzo e che lo inviava a Roma assieme al suo legato, per far cessare il malgoverno e ripristinare il buono Stato. Difatti, insieme col cardinale d'Albornoz, Cola fu mandato in Italia dal Pontefice, il quale evidentemente intendeva servirsi del tribuno per ristabilire nella città eterna l'autorità papale. Cola per la "massa" che non l'aveva dimenticato, sarebbe stato molto utile.

Cosicchè il famoso agitatore che aveva cominciato la sua carriera politica da repubblicano e a Praga per opportunismo aveva vestita la casacca ghibellina, si accingeva a recarsi a Roma da guelfo.

Cola di Rienzo fece il suo ingresso solenne a Roma il 1° di agosto, accolto dalla moltitudine delirante, con l'aureola dell'esilio e lo splendore della dignità senatoria; la folla sentì nuovamente la parola calda e vibrante del suo idolo e fu ancora conquistata dal suo fascino e dal suo carisma.
Ma Roma non era più quella che aveva lasciata, era difficile da governare e non era cosa agevole conciliare la volontà del Pontefice con quella del popolo e d'altro canto c'era sempre l'aristocrazia, l'eterna nemica del tribuno, che, come  l'aveva avversato quand'egli rappresentava la riscossa popolare così anche ora non voleva piegarsi a lui come vicario del Papa.

Tutta la cronaca di questi eventi, piuttosto turbolenti si conclusero con la morte poco onorevole di Cola di Rienzo sulle scale del Campidoglio.

"Così — scrive il Bertolini — quest'uomo straordinario espiava le contraddizioni che aveva rivelato in sé stesso. L'uomo che aveva proclamato dal Campidoglio l'indipendenza e l'unità d'Italia, le riforme della Chiesa e del genere umano, doveva cadere quale tiranno disprezzato e maledetto anche dopo morto. Ma di queste contraddizioni la colpa non fu tutta sua; pieni di contraddizioni erano i suoi tempi, fra le barbarie medioevali non ancora del tutto estinte e l'aurora che stava annunciando il rinascimento del genio latino e dell'antichità classica. 
Con tutto questo, la storia non può dimenticare che, quando l'Italia andava sempre più allargando la sua dissoluzione politica, Cola si fece banditore della unità nazionale. Se la nazione italiana avesse allora potuto ascoltare la voce di Cola di Rienzo, essa avrebbe visto procedere in parallelo il rinascimento letterario col suo risorgimento politico; il quale non si effettuò invece che cinque secoli dopo. Il cardinale legato ordinò una inquisizione sull'assassinio di Cola; ma il Papa, temendo che il processo provocasse altri tumulti popolari, stroncò l'idea, concedendo a tutti l'amnistia (7 ottobre 1355)». (Bertolini ).
A Roma fu ben presto restarurato lo Stato pontificio. A questo punto divenne possibile anche una l'incoronazione imperiale di quell'uomo che era stato scelto dai papi di Avignone. Ma nel frattempo molte altre cose erano accadute nel Nord Italia. Oltre la conferma ottenuta in patria, Carlo IV come imperatore cominciò ad essere riconosciuto anche in Italia, ed infatti vi scese: prima a Milano, dove Il 6 gennaio del 1355, ricevette nella basilica di Sant'Ambrogio la corona ferrea. Poi in Toscana nella prima decade di marzo del 1355 con un trattato l'imperatore confermava la libertà e i privilegi dei Fiorentini; annullava tutte le condanne pronunciate contro di essi; ratificava le loro leggi presenti e future; conferiva il titolo di vicarii imperiali ai priori e ai gonfalonieri di giustizia. Poi proseguì per Roma per andare a farsi incoronare in S. Pietro.
Vi giunse 2 di aprile 1355. La cerimonia dell' incoronazione dell' "imperatore dei romani" era stata fissata per il giorno di Pasqua, 5 aprile. Avendo il sovrano promesso al Pontefice di non trattenersi a Roma che per il solo giorno della incoronazione e desiderando di veder la città e visitarne le chiese, entrò in incognito vestito da pellegrino. Il suo ingresso ufficiale ebbe luogo con grande pompa solo  la domenica. 

Nella basilica del Vaticano Carlo IV ricevette la corona imperiale dal Cardinale Pietro d'Ostia, assistito da Giovanni di Vico, poi, alla testa di uno splendido corteo, si  recò al palazzo lateranense dove gli era stato preparato un banchetto. La sera dello stesso giorno, secondo la promessa, uscì da Roma e si rimise in viaggio per la Toscana; il 13 aprile giunse a Siena.

Vi rimandiamo alla cronaca indicata nel link sopra per cosa accadde in tutta la Toscana, e cosa accadde subito dopo quando dopo averla abbandonata volle ritornare in Lombardia.

A Milano ricevette accoglienza del tutto diversa da quella che gli era stata fatta sei mesi prima; molte città si rifiutarono di aprirgli le porte e a Cremona, dopo di essere rimasto ad aspettar due ore fuori le mura fu ricevuto a patto che entrasse senza armi. La sua avidità di denaro e la sua ambigua e fiacca politica lo avevano reso odioso e disprezzato. Gli si fece anche chiaramente capire che la sua dimora in Italia era poco gradita ai signori: infatti quando egli disse che voleva rimettere la pace tra i vari stati, gli risposero seccamente di non prendersi questo disturbo. Per lui non c'era più nulla  da fare nella penisola e se ne tornò in Germania... «colla borsa -scrive Matteo Villani-  piena di danari avendola portata con sè vuota, ma con poca gloria delle sue virtuosa operazioni e con assai vergogna in abbassamento dell'imperiale maestà ». 
Nel frattempo l'Albornoz impegnato e riconquistare gli Stati della Chiesa in Emilia e Romagna, stava ottenendo un successo dietro l'altro e facevano sperare al cardinale che presto sarebbe stata compiuta la restaurazione dello Stato pontificio. All'inizio dell' impresa l'Albornoz non aveva pensato che tutte le città sulle quali la Chiesa vantava dei diritti potessero essere ricondotte alla sua obbedienza. La sottomissione di Bologna, ad esempio, non era stata inclusa nel programma del legato, parendogli impresa da non doversi nemmeno tentare quella di togliere tale città a signori cosi potenti come i Visconti.
Aveva tentato con le armi, non gli era riuscito, e allora contro i nemici lanciò su di essi la scomunica e bandì una crociata concedendo il perdono dei peccati a tutti quelli che personalmente o indirettamente aiutavano la Chiesa.
Ma non smise di assediare città e paesi. Una di queste fu Cesena, dove la resistenza diede fama a una donna di animo virile che, nella strenua difesa della sua città si acquistò la fama imperitura di eroina: Marzia, detta Madonna Cia, figlia di Vanni da Susinana degli Ubaldini.
(i particolari nel link già citato sopra)
Mentre si combatteva in Romagna, conflitti rinascevano in Toscana tra Pisa e Firenze e una guerra si accendeva tra Siena e Perugia (vedi nel suddetto link).

Oltre che in Romagna anche da queste parti non ci furono grandi successi, anche perchè a guidare le truppe pontificie era stato messo un abate di Cluny. Era la fine del 1358, quando il Pontefice, avendo visto la cattiva prova fatta dall'abate, rimandò in Romagna il cardinale d'Albornoz. Qui e in altri territori anche lui non è che colse dei grandi successi. Senonchè alcune sconfitte fra i grandi signori in lotta, rialzarono le sue sorti. Ma mentre la guerra infuriava tra i signori e lui ne coglieva i frutti, moriva il 22 settembre 1362 ad Avignone INNOCENZO VI.
Con la campagna dell'Albornoz - che durava ormai da dieci anni - Innocenzo nell'opera militare aveva proteso tutti suoi sforzi, convinto che dietro di essa ci fosse la salvezza del prestigio della Chiesa. In effetti alla sua morte quasi tutte le antiche province erano tornate sotto il suo scettro, e ad eccezione dei Visconti (il signore di Milano che non ubbidì all'intimazione), tutti i signori ex ribelli, furono di nuovo al servizio del papa come vassalli. E anche Roma, liberata dal predominio repubblicano ma anche da quello dei nobili, espresse a gran voce il ritorno tra le sue mura il papa, che non sordo alle preghiere (accorato l'appello del Petrarca) era quasi sul punto di cedere. Contrito si era offerto perfino l'imperatore Carlo IV ad accompagnarlo di persona, ma la salute malferma, seguita dalla morte, impedirono a Innocenzo VI di concretizzare la cosa. Il ROHRBACHER dice che « Innocenzo VI ha avuto tutte le qualità di un buon papa: la sua vita è stata esemplare e la sua reputazione senza macchia. Amante della giustizia, dette nella sua Corte esempio di severità contro gli scandali. Protettore dei letterati, ne innalzò molti, e ad altri fece del gran bene; la sua stima per la letteratura lo spinse a chiedere il Petrarca come suo segretario: ma quest'uomo indipendente si rifiutò di accettare un posto che lo privava della sua libertà... L'unico rimprovero che gli muove uno dei suoi biografi è di essersi lasciato trasportare dall'affetto naturale dei suoi parenti e amici, dei quali molti elevò alle dignità ecclesiastiche, di cui tuttavia in buona parte non erano indegni » (Storia ecclesiastica, tom. IX).Forse per queste sue buone qualità, e per i degni parenti e amici che lui aveva beneficiato, i cardinali del Sacro Collegio, fecero il nome del fratello di papa Clemente VI, Ugo Rogier. Ma questi rifiutò la tiara.Il 28 ottobre 1362 i conclavisti indicarono un altro degno nome...l'elezione di PAPA URBANO V .....

URBANO V, Guglielmo de Grimoard, francese
(
pontificato 1362-1370 )
Morto Innocenzo VI, il 12 settembre 1362, il Sacro Collegio dei cardinali riunito ad Avignone propose come suo successore il fratello di Clemente VI, ma questi rifiutò la tiara. I voti si concentarono allora su uno stimato monaco benedettino, Guglielmo de Grimoard. 52 enne, abate di S. Vittore a Marsiglia, docente di diritto canonico a Montpellier e nella stessa Avignone, ma non aveva raggiunto ancora la porpora cardinalizia, pur essendo legato pontificio a Napoli.
Era appunto a Napoli, quindi assente da Avignone; ne fece rientro il 6 novembre 1362; nello stesso giorno lo consacrarono papa col nome che lui si era scelto: URBANO V.
Il neo-papa incominciò subito nei primi mesi nel primo dei suoi otto anni di pontificato, a dare disposizioni per riordinare la curia papale, ad abolire alcuni benefici a persone che non li meritavano, e seguendo la linea del suo predecessore era anche lui intenzionato a rivendicare tutti i diritti della Santa Chiesa in Italia (aveva fra l'altro dei personali conti da regolare con un prepotente signore milanese - lo leggeremo più avanti).

Abbiamo detto già nella precedente biografia, che Avignone era ormai diventata un crocevia di persone di affari non sempre leciti. E dove ci sono questi si formano e mettono radici bande rivali che senza scrupoli e con audacia spadroneggiano.

Urbano ad Avignone cominciò a non sentirsi più sicuro e con impazienza aspettava che in Italia il Cardinale Albornoz riuscisse a completare la restaurazione dello Stato della Chiesa; aveva infatti serie intenzioni di sottrarre la Santa Sede alle solite ingerenze del re di Francia. Lui del resto conosceva l'Italia e quindi non era uno di quelli prevenuto come i suoi colleghi francesi.
Purtroppo Albornoz anche se aveva fatto un buon lavoro nel centro Italia, in Toscana e i Emilia, quello in Alta Italia era piuttosto più difficile e complesso. Era riuscito a farsi molti alleati ( Este, Gonzaga, ecc.) ma i Visconti erano un osso duro, questi spadroneggiavano a Milano e infuriavano nel Modenese, nel Bresciano e nel circondario di Bologna.
I Visconti rappresentavano l'ultimo baluardo ghibellino; inoltre non riconoscendo il papa come sovrano temporale, armi in mano, aveva incameratoi beni ecclesiastici.

Ancora con Innocenzo VI, si erano fatti tentativi per una conciliazione; e a Milano uno dei due ambasciatori inviati dal pontefice a Bernabò Visconti, era proprio il cardinale Guglielmo de Grimoard, il futuro papa Urbano V, latore di due lettere pontificie. Incontrato il potente signore milanese sul fiume Lambro; quando gli finirono di leggere le lettere, quello in modo sprezzante chiese loro se volevano mangiare o bere, e alla risposta affermativa fatta sulla prima scelta, fece loro mangiare le due lettere papali. Sarebbe bastato questo episodio per giustificare e spiegare i sentimenti poco favorevoli che Urbano V nutriva per Bernabò. 
Lo stesso mese della sua consacrazione citò il Visconti a comparirgli davanti entro tre mesi e, poiché il signore di Milano non ubbidì all'intimazione, il 3 marzo del 1363  lanciò la scomunica contro di lui.
Il Visconti non era il tipo che temeva una scomunica, fra l'altro da un papa che lui non riconosceva; quindi per altri tre anni mise a soqquadro città lombarde, piemontesi, genovesi e altre senza che l'Albornoz potesse fermarlo con i suoi alleati.
(di questo periodo di lotte, vi rimandiamo alle pagine della Storia d'Italia)

Si era così giunti al 1366, cioè al quarto anno di pontificato di Urbano V, senza che si aprisse uno spiraglio per il suo ritorno a Roma come lui desiderava fin dal primo giorno. Il Petrarca da Venezia il 28 giugno gli inviò un accorato appello di far ritorno presso la tomba degli apostoli. Altro invito accorato lo fece di persona il figlio di re Giacomo d'Aragona, un uomo in odore di santità perchè rinunciando ad ogni bene terreno era entrato nei poverelli dell'Ordine dei frati di S. Francesco.
Queste manovre di voler lasciare Avignone non erano sfuggite nè al clero locale, nè al re di Francia, che, per convincerlo a restare mobilitarono Niccolò Oresme maestro di Carlo V. e che tirò fuori una tesi che dimostrava che la Santa Sede doveva risiedere dov'era, perchè Avignone era il centro della terra. Qualcuno per convincerlo toccò argomenti più prosaici dicendo che a Roma non avrebbe trovato i suoi vini preferiti, il Borgogna e altri prediletti. Al che gli italiani presenti quasi offesi, fecero notare al papa che i vini romani o d'Italia era come bontà pari a quelli francesi, e che comunque se proprio non ne poteva fare a meno, il Tevere era navigabile fin quasi davanti alla sede papale romana, e quindi poteva far venire con una galea tutte le botti di Borgogna che voleva.

Ma Urbano aveva deciso, aveva perfino già dato ordine al suo vicario a Roma di allestirgli l'appartamento nel palazzo pontificio. Non solo a Roma si era sparsa la voce, ma buona parte dell'Italia esultò nell'apprendere la notizia che aspettavano da 60 anni. 23 galee inviate dalla regina Giovanna di Napoli, dai Veneziani, dai Genovesi, dai Pisani raggiunsero Marsiglia per far la scorta al papa nel suo rientro a Roma.
Il 30 aprile 1367, Urbano prese la via di Marsiglia, e qui si imbarcò con tutto il suo seguito (solo tre cardinali francesi si rifiutarono) approdando a Corneto sulla costa laziale il 3 giugno. Ad attenderlo l'Albornoz, tutti i Grandi dello Stato Pontificio, e una moltitudine di popolo, che da giorni e giorni avevano dormito in spiaggia per non perdersi l'avvenimento di una giornata storica. E lo fu veramente, appena giunto a terra Urbano celebrò una toccante messa; l'indomani giorno delle Pentecoste ne celebrò un'altra solenne ricevendo tutti i rappresentanti della città di Roma, poi si diresse a Viterbo dove avrebbe voluto fare una breve sosta prima di raggiungere Roma.
Purtroppo a Viterbo, il cardinale Albornoz, il braccio destro che Urbano aveva in Italia, cessò di vivere, forse colpito dalla peste o da una febbre malarica. Era da quattordici anni che era in Italia (chi dice temuto, chi dice amato) per rimettere un papa sulla cattedra di S. Pietro, e proprio mentre aveva raggiunto lo scopo, non riuscì a vedere il compimento della sua opera.

Solo il 16 ottobre 1367, Urbano si decise ad abbandonare Viterbo per fare il suo trionfale rientro a Roma. Oltre i romani, il clero, i nobili, c'era il Petrarca fuori sè dalla gioia, e proprio lui che non aveva tanta simpatia per i papi, scrisse un panegirico che era un'interminabile compendio di lodi.

Il primo anno romano di Urbano fu molto attivo, impegnandosi a ridare vita a una città da anni in decadenza, le costruzioni di inizio secolo erano pari agli antichi ruderi romani, quelle nuove devastate o svuotate dai saccheggiatori, e le strade da anni senza manutenzione erano diventati degli acquitrini. Urbano da Avignone era a conoscenza che Roma era una città in decadenza, ma quando la vide di persona si rese conto che era una città in disfacimento e a vederla faceva tristezza.
Per porre rimedi, fu infaticabile, forse fu anche troppo zelante a ricostruire chiese e basiliche, a riformare il governo mettendo al posto dei sette eletti dal popolo tre funzionari della Santa Sede, eliminando così quella democrazia che il popolo era convinto di aver ottenuto. Iniziarono i primi malcontenti. I cardinali francesi che Urbano si era portati dietro, non si erano adattati - o forse non volevano- all'ambiente, e si lamentavano delle offese che ricevevano dai romani e questi ricambiavano l'antipatia che quelli avevano per loro.
E loro, ogni volta che aprivano bocca era per rimproverare gli italiani; che in chiesa invece di cantare "belavano" come le pecore, che la musica era cattiva, ogni cosa cattiva, e si lamentarono pure di quel vino che gli italiani avevano decantato tanto ad Avignone e si fecero arrivare le botti da Borgogna.

Nella primavera successiva (1368), scese a Roma l'imperatore Carlo IV per ossequiarlo, ma anche per ricevere sul capo (questa volta da un papa) la corona; ma in questa incoronazione non ci fu come in passato molto entusiasmo. Giocato fu anche il papa, che perso il valido Albornoz, credeva di poter contare su un aiuto militare del tedesco in quelle contrade ancora in fermento. Invece questi presa la corona, risalì in fretta e furia la penisola (e qualcuno insinua che scontrandosi con i ribelli, invece di affrontarli, versò l'obolo per aver via libera per tornarsene in Germania) e lasciò al loro destino gli Stati della Chiesa e lo stesso Urbano che aveva in questo vontagabbana ingenuamente creduto.

All'inizio dell'anno seguente salì invece a Roma l'imperatore d'oriente Giovanni Paleologo, a fare anche lui gli omaggi a Urbano e ad abiurare lo scisma, ma il vero scopo della visita era quello di chiedergli di andare in aiuto al suo impero pericolante ormai quasi tutto in mano ai Turchi, bandendo una crociata. Il pontefice un appello lo fece ma nessuno si mosse, salvo Amedeo VI di Savoia che però arrivò fino a Gallipoli.
In Italia tutti gli Stati erano impegnati a difendersi dalle scorrerie delle compagnie di ventura, che con la massima indifferenza passavano al soldo ora di uno ora dell'altro potente signore per dedicarsi a scorrerie, guerriglie, assalti; per difendersi in casa, nessuno nelle popolazioni cristiane aveva tempo per fare crociate fuori casa.
Nè le avevano in Francia dove si erano in questi anni iniziate le guerre dei cent'anni con l'Inghilterra. E tantomeno in Germania con l'ipocrita Carlo IV e i suoi principi, che dall'Italia erano fuggiti a gambe levate, figuriamoci se andavano i Oriente.

La presa in giro di Carlo IV, la mancanca di un valido condottiero come l'Albornoz, la situazione critica negli Stati della Chiesa, quella sempre più caotica di Roma, dove di riflesso per colpa dei francesi anche Urbano V era malvisto, riempirono di amarezza il pontefice che era sceso a Roma con tanto entusiasmo. Quando poi la stessa Viterbo e poi Perugia e altre città tornarono alle vecchie rivolte, e il Visconti riprese a minacciare le terre pontificie, Urbano prima lasciò Ronma per Montefiascone, poi manifestò l'intenzione di tornare ad Avignone. I cardinali francesi zelanti nell'incitarlo fecero presto a tramutare l'intenzione in una vera e propria volontà di abbandonare Roma
A quel punto, i romani tornarono tutti papalini, implorarono il papa di non abbandonarli, lo supplicarono in ginocchio. Poi venne la profezia di santa Brigida. Una "voce" le aveva rivelato che se Urbano fosse tornato ad Avignone sarebbe morto".

«Alle prime voci - scrive l'Orsi- corsero delle sollecitazioni che venivano fatte al Papa, perché non tornasse in Francia, il Petrarca gli scrisse per persuaderlo a rimanere in Italia. Una pia principessa svedese che da vent'anni soggiornava a Roma, Santa Brigida, venne a Montefiascone a manifestare al Papa una rivelazione avuta dalla Vergine, secondo la quale gravi disgrazie lo attendevano se tornava nel luogo dov'era stato eletto.
I Romani gli inviarono un'ambasceria a supplicarlo di rimanere a Roma; ma Urbano non si lasciò smuovere dalla decisione presa, ed il 5 settembre 1370 in quello stesso porto di Corneto, dov'era approdato tre anni prima, si imbarcò con tutta la sua corte sulle navi inviategli dai re di Francia e d'Aragona, dalla regina di Napoli e di Pisa.
Il 16 dello stesso mese sbarcò a Marsiglia ...
il 24 settembre fece il suo solenne ingresso in Avignone. Ma nemmeno due mesi dopo cadde ammalato ed ...
il 19 dicembre dello stesso anno (1370) morì;
sembrava veramente che la profezia di Santa Brigida si fosse avverata, e che il cielo punisse questo nuovo abbandono di Roma (Orsi) ». 
l'elezione di PAPA GREGORIO XI.....

GREGORIO XI, Pietro Roger, francese
(
pontificato 1370-1378 )
Alla morte di Urbano V avvenuta il 19 dicembre 1370, i cardinali del Sacro Collegio si radunarono in Avignone per dargli un successore. Erano quasi tutti francesi solo due-tre erano italiani e uno inglese.
Si erano riuniti il 29 dicembre, ma bastò una sola seduta al conclave per decidere il nome. Il 30 dicembre elessero Pietro Roger, dei conti di Belfort, diacono di Santa Maria Nuova.
Era nipote di Clemente VI, e proprio dallo zio aveva ricevuto molti benefici fin dalla giovane età, infatti da lui aveva ricevuto circa 20 anni prima la porpora cardinalizia a soli 18 anni. Tuttavia pur con questi e altri benefici, volle rimanere sempre diacono, cosicchè ricevuta la nomina bisognò crearlo e consacrarlo prima sacerdote e poi vescovo. La cerimonia avvenne il 4 gennaio del 1371, e il giorno successivo seguì la sua consacrazione a papa col nome di GREGORIO XI.

Era giovane, non contava ancora quarant'anni, ma era di costituzione debole, sempre con un pallore mortale in viso, e il suo pontificato che si presumeva lungo durò invece solo otto anni, fino al 1378.
Era un francese, e quindi come i suoi predecessori, quando iniziò a distribuire benefici o a elevare i suoi collaboratori, alla porpora cardinalizia si comportò come quelli: i beneficiati erano tutti francesi, e fra questi - con il solito nepotismo - molti erano i suoi parenti.
E se c'era qualche ottimista che pensava di un ritorno a Roma della Sede Papale, dovette subito diventare un pessimista.
Eppure, fin dall'inizio sconcertò i suoi elettori, annunciando che aveva intenzione di far un ritorno a Roma; addirittura fissò perfino la data: maggio del 1372.

Più cose contemporaneamente fecero ritardare questo progetto.
Francia: C'era la guerra in corso della Francia con l'inghilterra e il re francese aveva bisogno dell'appoggio del papa, in male avendo in mano il potere spirituale (quindi le scomuniche a portata di mano), in bene perchè Gregorio XI poteva essere un mediatore per arrivare con gli inglesi a una pace non ingloriosa. Ma non servì a nulla la presenza del papa ad Avignone.

Germania: Carlo IV, pur essendo lui stesso incoronato a Roma dal suo predecessore (che poi abbandonò per far ritorno in Germania) aveva di sua iniziativa lui e i suoi principi fatto incoronare ad Aquisgrana suo figlio quindicenne Venceslao. La curia avignonese fece presente che non aveva validità perchè mancava l'approvazione del papa, ma quello ingarbugliò così bene le sue carte, che riuscì ad ottenere da Gregorio una ratificazione dell'elezione. E anche qui la dignità di un papa fu scossa. Avignone contava nulla.

Oriente: La visita in Italia dell'imperatore Paleologo quand'era in vita ancora Urbano V, per sollecitare una crociata contro i turchi, era già finita in un fallimento clamoroso prima ancora di iniziare, e con Gregorio non se ne parlò più. Da Avignone gli appelli non erano stati raccolti da nessuno. Altro fallimento della Santa Sede abignonese.

Per questo e altri motivi, il fallimento dell'operato di Gregorio era dunque piuttosto palese. Il desiderio di andarsene da Avignone si rifece strada. Ma non è che in Italia le cose erano a suo favore. Per il mondo laico il ritorno del papa ad Avignone era quello che voleva per poter i potenti signori e le compagnie di ventura spadroneggiare negli Stati Pontifici. Mentre il mondo cristiano da quando Urbano aveva lasciato Roma per far ritorno ad Avignone, era rimasto indignato, si sentirono abbandonati al loro destino. Se ci fosse stato ancora il sagace e genialoide Albornoz, forse avrebbero avuto qualche opportunità per recuperare i territori selvaggiamente saccheggiati, ma il suo sostituto il vicario pontificio Philippe de Cabassoles (francese) , era un inconcludente, in quasi tutti i territori pontifici l'amministrazione pontificia era assente politicamente e militarmente, e in quasi tutte queste città scoppiavano rivolte; insomma non ne volevano più sapere di vicari e inetti funzionari francesi disseminati nello Stato Pontificio che spesso erano accusati di malversazioni e tirannia. Cosicchè, comportandosi così, invece di favorire la causa pontificia, riuscivano ( di riflesso) solo a indisporli verso il papa (Sant'Anonino diceva che il loro era "un dominio di superbi e che erano intollerabili").

«Dopo che la Santa Sede era stata trasferita oltr'Alpe, ad Avignone — scrive Lionardo Aretino — tutte le contrade sottomesse alla Chiesa erano governate da legati francesi. Insopportabile era la loro alterigia nel comandare; essi tentavano di estendere la loro autorità sulle città libere, ed i loro ufficiali e cortigiani non erano uomini di pace, ma di guerra; essi riempivano l'Italia di stranieri, in tutte le città costruivano fortezze con grandissime spese e mostravano con ciò quanto fosse misera e forzata la servitù di queste popolazioni cui avevano tolto la libertà, giustificando l'odio dei sudditi e la diffidenza  dei vicini.
Le istigazioni di Firenze non solo trovarono il terreno propizio nel malcontento dei popoli, ma anche nel desiderio che avevano quasi tutti i signori di ricuperare il potere perduto"

Era buon gioco per il Visconti, che attizzavano qui e là rivolte, atteggiandosi a difensori della indipendenza d'Italia. Ad ascoltarlo furono anche i Fiorentini; la repubblica nel luglio del 1375 faceva lega proprio con i Visconti di MIlano, con Bologna, Perugia, Città di Castello, Siena, Lucca, Arezzo e Pisa e altre città pontificie.
A Firenze questo cambiamento di rotta non era avvenuto per caso. Firenze coinvolta in quella guerra che durava da dieci anni, era una città desolata per la carestia e per la peste, che dal marzo all'ottobre dell'anno prima (1374) aveva cagionato la morte di ben settemila persone. Davanti a sé c'era un inverno drammatico. Scarseggiando soprattutto il grano, Firenze si rivolse per averne — come in simili circostanze era solita fare — in Romagna, ma con sua grande meraviglia sentì dire che il cardinale GUGLIELMO di NOELLET, legato pontificio di Bologna, aveva proibito l'esportazione del frumento. 

I Fiorentini interpretarono questo divieto come un tentativo del cardinale di affamare la loro città per potersene rendere poi padrone, e si mostrarono molto irritati. E quando i pontifici mandarono in territorio fiorentino la compagnia di ventura guidato da Giovanni Acuto, ebbero proprio questa certezza: che la si voleva prendere per fame. Gli avventurieri però guardavano a chi pagava di più, e i fiorentini offrendogli centotrentamila fiorini se ne tornarono da dove erano venuti.
Ma i fiorentini che avevano sborsato tutto quel denaro deliberarono di vendicarsi, levandosi in armi contro la Santa Sede e facendole ribellare le popolazioni soggette. Ecco perchè si giunse alle alleanze citate sopra. Inalberarono perfino uno stendardo rosso dove c'era scritto in bianco la parola libertas
 Questo motto era la prova delle intenzioni che avevano i Fiorentini di muovere a ribellione tutte le terre che prestavano obbedienza alla Chiesa. Né questa era impresa difficile, dato l'odio che le popolazioni soggette alla Santa Sede nutrivano per i legati pontifici. 
In breve Firenze, divenne l'anima di questo movimento insurrezionale. Non si stancava di inviare incitamenti in altre città. Anche a Roma inviò lettere, vergate dal celebre umanista COLUCCIO SALUTATI, cancelliere della repubblica, nelle quali si esortavano i Romani a sollevarsi, a scacciare la tirannide, a difendere la libertà, a non credere alle promesse dei Papi e a seguire la sentenza di Catone: "Nolumus tam liberi esse quam cum liberis vivere".

Ma Roma, che già da qualche tempo guardava con gelosia l'ingrandirsi di Firenze, non prestò ascolto alle calde parole del Salutati che la invitava ad entrar nella lega. Questo però non era un segno a favore del papa, anzi a Roma persino il basso clero, era stanco di attendere un ripristino dell'autorità pontificia, e si univa ai rivoltosi repubblicani, e già si parlava di farla finita con questo sordo papa avignonese e di nominarne un altro, perchè il papato stava correndo il rischio di rimanere per sempre confinato fuori d'Italia, e che quindi non solo il potere temporale sarebbe andato perduto, ma anche quello spirituale.

Bologna invece non rimase insensibile alle esortazioni dei Fiorentini. La notte dal 19 al 20 marzo del 1376 il popolo bolognese, capitanato da TADDEO degli AZZOGUIDI e da ROBERTO SALICETTI, circondò la fortezza e costrinse il legato a consegnare le chiavi; il gonfalone del comune venne issato al sommo della torre e il giorno dopo fu nominato il Consiglio degli Anziani e concesso il perdono a tutti i fuorusciti, eccettuati soltanto i Pepoli. 

Gregorio XI, ad Avignone fu impressionato  dalle notizie che gli giungevano dall'Italia, e pur timoroso di natura, non trovò di meglio che prendere provvedimenti energici. Gregorio XI sapeva che istigatori delle ribellioni erano i Fiorentini e fin dal 3 di febbraio li aveva citati a comparire davanti al suo tribunale, ma avuta notizia della ribellione anche di Bologna e dell'aiuto che i fiorentini le avevano mandato (in denaro, in fanti, in cavalli) il 31 marzo del 1376 lanciò su Firenze l'interdetto e la scomunica. Poi abbandonò le armi spirituali che avevano fatto poco effetto e ricorse alle armi vere.
Gregorio però non si fidava più di Giovanni Acuto che per più soldi aveva cambiato bandiera, ma assoldò la COMPAGNIA dei BRETTONI, forte di seimila cavalli e quattromila fanti, di cui era capo GIOVANNI di MALESTROIT, e, messala al comando del cardinale ROBERTO  di GINEVRA destinato a governare la Romagna e le Marche, nel maggio del 1376 la fece scendere in Italia.
 Questi Brettoni avevano fama di essere i più feroci venturieri di allora. Certo erano i più spavaldi, come ne fanno fede le parole dette al Papa dal Malestroit, il quale, chiesto se i suoi soldati erano capaci di entrare a Firenze, rispose: se v'entra il sole, vi entreremo anche noi ed aggiunse che entro un mese la città sarebbe stata occupata. 
Inoltre il papa diede a Roberto di Ginevra, ai suoi uomini e ai pochi fedeli rimasti la facoltà di confiscare le merci dei Fiorentini, d'impadronirsi dei loro beni e di imprigionarli e venderli come schiavi. Un vero e proprio invito alla rapina.
Le terribile gesta di questi Bretoni e dal Malestroit stesso,
le riportiamo in dettaglio nelle pagine di Storia d'Italia
Mentre Roberto di Ginevra stava accampato presso Bologna, trattative correvano tra il Pontefice e i Fiorentini. Santa Caterina da Siena impegnata a distruggere l'opera nefasta iniziata da Filippo il Bello nel giugno del 1376 si recava ad Avignone e intercedeva presso il Papa in favore della pace esortandolo nello stesso tempo a fare ritorno in Italia. Gregorio XI desiderava vivamente di riconciliarsi con Firenze, che era stata sempre sostenitrice della causa della Chiesa, ma era sdegnato contro gli Otto (della guerra) e ne voleva la deposizione. Non avendola ottenuta, la guerra continuò con nessun vantaggio però delle milizie del Pontefice, il quale, convinto che solo la sua presenza avrebbe potuto estinguere l'incendio della rivolta, deliberò di scendere in Italia dove lo chiamava l'appassionata voce della Santa di Siena. Il re di Francia spedì ad Avignone suo fratello a dissuaderlo dal proposito. Perfino il vecchio genitore ancora in vita lo implorò a non lasciare la sua Patria che l'aveva onorato, fatto papa. E insieme al padre si portarono ad Avignone, la madre e quattro sorelle , che piangendo tentarono alla partenza di sbarragli la strada.
Fu tutto inutile. A parte le accorate lettere di Caterina (ed erano anche queste quasi delle profezie), Gregorio fin dal primo giorno dell'elezione aveva sempre pensato alla singolare e tragica profezia fatta da santa Brigida, a quella "voce" che "se il papa fosse tornato ad Avignone sarebbe morto". Su quella profezia (che si era poi avverata con Urbano a poche settimane dal suo rientro ad Avignone) Gregorio - che era un uomo timoroso- ci rimuginava sempre sopra. Fin dal primo giorno - come abbiamo letto all'inizio, fissando perfino la data - da quella città voleva fuggire.

Finalmente, presa questa volta la grande decisione, Gregorio partì da Avignone il 13 settembre del 1376, diretto a Marsiglia, dove lo attendevano ventidue galee comandate dal Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Si mise in mare il 2 ottobre. Il viaggio fu lento a causa dei venti contrari e delle soste. Undici giorni si fermò a Genova, parecchi altri a Porto Pisano e solo il 5 dicembre toccò Corneto, dove era sbarcato nove anni prima Urbano V.
Non potendo egli recarsi a Roma per via terra per la ribellione di Viterbo e di Civitavecchia, tornò ad imbarcarsi e si recò ad Ostia, da dove risalì il Tevere e il 17 gennaio del 1377 fece il suo ingresso trionfale da Porta Capena, accolto entusiasticamente dalla popolazione di Roma, che dopo circa settant'anni tornava ad essere la sede del Papato.
Prese residenza in Vaticano (come aveva fatto nel suo breve soggiorno Urbano V) e non in Laterano che da questo momento perse la sede di Pietro.
Ma Roma non era ancora tranquilla, ma più che per questioni politiche e religiose, i molti che si erano arricchiti nel vuoto di potere della "sede vacante", e avevanp esercitato abusi avevano tutto l'interesse nel proseguimento dell'anarchia.

Ci furono alcuni tentativi fatti dal pontefice per riconciliarsi con i territori pontifici; ma non riuscirono. Anzi quelli fatti militarmente peggiorarono la situazione con la zelante repressione fatta a Cesena dal vicario Roberto di Ginevra per dare una esemplare lezione a tutti i rivoltosi di altre città ribelli. Compì una sanguinosa vendetta, una carneficina di quattromila cesenatesi. Un azione che gli valse il titolo imperituro di "boia di Cesena".

Mentre in Toscana, la signoria fiorentina si mostrò strenua sostenitrice degli Otto della guerra, contro cui per la maggior parte era rivolta l'azione di Gregorio XI, e colpì con gravi tasse il clero fiorentino, poi nell'ottobre del 1377 stabilì di non obbedire all'interdetto, di riaprire le chiese ed obbligare, sotto minaccia di gravi sanzioni i sacerdoti a celebrare gli uffici.

 Malgrado tutto, la popolazione fiorentina era stanca della guerra che non aveva dato concreti risultati, anzi svuotava le borse e danneggiava il traffico delle merci. Si aggiunga l'apostolato di Santa Caterina, che era andata a Firenze, per favorire la pace e la riconciliazione con la Chiesa.

 L'intransigenza degli Otto fu vinta ed essendosi interposto come mediatore addirittura Bernabò Visconti fu indetta una conferenza a Sarzana. Il Pontefice vi mandò come suoi legati il cardinale d'Amiens e l'arcivescovo di Narbona; le città della lega vi inviarono i loro deputati ed anche il re di Francia vi spedì ambasciatori. 
Il congresso, presieduto dal Visconti, si aprì il 12 marzo del 1378, ma pochi giorni dopo, il 27, giunse notizia che GREGORIO XI era morto e la conferenza si sciolse.

Gregorio non aveva nemmeno cinquant'anni e avrebbe avuto ancora molto tempo per governare la Chiesa, ma questa volta la profezia era all'incontrario, Caterina gli aveva scritto "venite, venite, venite, non aspettate il tempo che il tempo non aspetta Voi". Lui era andato, ma il tempo che aveva davanti a sè, era improvvisamente volato via e non era riuscito a vedere ciò che gli diceva la santa, che "i lupi feroci vi metteranno il capo in grembo come agnelli".
Tuttavia la sua morte a Roma favorì quel consolidamento della Santa Sede ritornata nella sua sede naturale. Gregorio otto giorni prima cosciente di morire emanò una bolla che autorizzava i cardinali presenti a Roma a procedere subito all'elezione del nuovo pontefice, anche con i 6 cardinali di Avignone assenti.Non fu un'elezione facile, anzi causò ciò che molti temevano: si favorì una scismal'elezione di PAPA URBANO VI .....

URBANO VI, Bartolomeo Prignano (Na)
(
pontificato 1378-1389 )
Morto il 27 marzo Gregorio XI, la sera del 7 aprile del 1378 si riunì in Vaticano il conclave per procedere all'elezione del nuovo Pontefice. La piazza di S. Pietro era gremita di popolo tumultuante, che al passaggio dei cardinali gridava: Romano lo volemo od almanco italiano. Dei ventitré cardinali che formavano il sacro collegio sei erano rimasti ad Avignone ed uno si trovava al congresso di Sarzana; sedici soltanto partecipavano quindi al Conclave e di questi solo quattro erano italiani, i romani Francesco Tebaldeschi e Giacomo Orsini, il fiorentino Pietro Corsini e il milanese Simone da Brossano. 
Tutti gli altri erano francesi. Giustificata era pertanto l'eccitazione del popolo, il quale temeva che fosse eletto uno straniero e la sede papale venisse trasferita nuovamente fuori d'Italia. Né il popolo si limitò ad esprimere i suoi desideri con le alte grida. Si precipitò minaccioso dentro il palazzo, vi tumultuò per circa un'ora; poi una quarantina di persone volle visitare ogni angolo per assicurarsi che non vi fossero nascosti armati destinati a far violenza ai porporati; infine due banderali, presentatisi ai cardinali, esposero il desiderio della cittadinanza romana, che reclamava un Pontefice italiano e voleva che a Roma rimanesse la sede del Papato. 

Impressionato dal tumulto, il sacro collegio fu concorde nell'elezione di un italiano; ma non voleva far cadere la scelta sui due romani sia perché il Tebaldeschi era troppo vecchio e l'Orsini troppo giovane, sia per non mostrare di aver ceduto alle imposizioni del popolo, né voleva eleggere il Corsini o il Da Brossano perché l'uno era di una città in guerra con la Chiesa, l'altro suddito dei Visconti, nemici del Papato. 
Non restava che scegliere una persona estranea al sacro collegio. Fu fatto il nome dei napoletano Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, vicecancelliere della Chiesa, che per esser suddito degli Angioini poteva riuscire accetto agli Italiani e ai Francesi e il giorno dopo (8 aprile) fu eletto con quindici voti. 
Il popolo tumultuava ancora nella piazza. Quando seppe che l'elezione era avvenuta, credendo che il nuovo Pontefice fosse un romano, sfondò le porte per andare ad adorarlo, i cardinali impauriti, credendo quella la rivolta dei romani,  vestirono in fretta con il manto e la mitra il Tebaldeschi, lo misero sul soglio, poi fuggirono. 
Quando si seppe che il cardinal Tebaldeschi non era il vero Papa il popolo ricominciò a tumultuare, ma poiché il Pontefice era un italiano non  fu difficile far tornare la calma negli animi. Avuta dal sacro collegio la conferma della sua elezione, l'arcivescovo di Bari accettò la dignità pontificia e, prese il nome di papa  URBANO VI. Fu con grande solennità consacrato il 18 aprile, giorno di Pasqua. Scrive l'Orsi: «Per disgrazia della Chiesa Urbano VI era l'uomo meno adatto per governare in mezzo a tante tensione di animi ed a tante discordie, il suo carattere orgoglioso, i suoi modi duri ed alteri non tardarono ad alienargli quasi tutta la corte. Fin dal suo primo concistoro rimproverò aspramente i cardinali dicendo che da essi doveva cominciare la riforma della Chiesa; ordinò loro di diminuire la pompa nelle loro comparse e di abbandonare il lusso, che sfoggiavano, per ritornare alla semplicità di vita dei  primi tempi apostolici. Meritati erano questi rimproveri,  ed Urbano VI poteva farli, poiché dava esempio di austerità; ma nel modo come lo faceva, invece di riuscire a correggere i cardinali, serviva solo ad inasprirli contro di lui. Ed egli, irritato per l'opposizione che incontrava diventava ancora di più intollerabile: un giorno poi si lasciò sfuggire di bocca che aveva intenzione di creare molti nuovi cardinali italiani in modo che il loro numero oltrepassasse quello dei francesi; e questo aumentò il fermento dei cardinali francesi" (Orsi)Questi trascorsa la primavera, si trovarono ad Anagni, dove, secondo le disposizioni di Gregorio XI, avevano preparato gli alloggi per passarvi l'estate, e qui strinsero rapporti con il conte Onorato Caetani di Fondi, il quale, essendo nemico di Urbano V perché gli aveva negato il rimborso di mille fiorini prestati al precedente Papa e destituito dalla carica di rettore della Campagna per darla a Tommaso di Sansevermo,  istigò i cardinali contro il pontefice.

Gli incitamenti del Caetani erano quasi superflui, perché i cardinali francesi pensavano già al modo di disfarsi di Urbano VI e quando furono invitati a stabilirsi a Tivoli dove il Papa si era recato a villeggiare con tre cardinali italiani (il Tebaldeschi, infermo, era rimasto a Roma) si rifiutarono preparandosi alla lotta.
 Infatti si assicurarono la fedeltà del comandante di Castel Sant'Angelo, che era un francese, si procurarono l'alleanza di Francesco da Vico, ed assoldarono e fecero venire ad Anagni la Compagnia dei Brettoni (i reduci della strage di Cesena potevano essere utili!)

Ai questi cardinali dissidenti non poteva naturalmente mancare il favore del re di Francia; ma non mancò neppure, quello della regina Giovanna di Napoli. Questa rimasta vedova una terza volta, aveva nel 1376 sposato Ottone di Brunswich sperando di avere da questo quarto matrimonio un erede cui lasciare il trono che diversamente sarebbe toccato a Carlo di Durazzo, nipote dell'omonimo duca perito al convento del Murrone nel 1348. 
Urbano VI che favoriva i Durazzo si era attirato l'odio di Ottone e della regina Giovanna.
Forti per tanti appoggi e specialmente per la famigerata Compagnia di ventura al loro soldo, i cardinali francesi partirono in aperta lotta il 20 luglio del 1378 scrivendo ai cardinali italiani una lettera in cui contestavano la validità dell'elezione di Urbano, avvenuta a loro dire, sotto la pressione del popolo, e invitandoli a recarsi ad Anagni per prendere decisioni.

Di fronte a quell'attacco, il Pontefice affrettò la pace con i Fiorentini, che venne conclusa come si è detto, otto giorni dopo quella lettera, e, dichiaratosi pronto a sottomettere al giudizio di un concilio la legittimità della sua elezione, mandò i tre cardinali italiani a trattare con i francesi. Questi però si rifiutarono di venire ad un accordo e il 9 agosto dichiararono nulla l'elezione di Urbano, imposero a questo di deporre la tiara e proclamarono vacante la sede papale; poi si trasferirono a Fondi dove invitarono i cardinali italiani ad un conclave per l'elezione del nuovo Pontefice.
In quei giorni cessava di vivere il cardinale Tebaldeschi, l'unico dei quattro cardinali italiani rimasto fedele al Pontefice; gli altri tre lasciarono Roma e se ne andarono prima a Vicovaro, poi a Subiaco e sul finire di agosto a Sezze. Abbandonato da tutti, Urbano VI, nel settembre di quell'anno creò ventinove cardinali tutti italiani. Questo fatto inasprì maggiormente i cardinali francesi, che, il 21 di quel mese, riunitisi in conclave a Fondi, elessero Pontefice il cardinale Roberto di Ginevra, che prese il nome di CLEMENTE VII. I tre cardinali italiani, che erano stati invitati con la promessa che fra loro sarebbe stato scelto il Papa, assisterono al conclave, ma non presero parte alla votazione, dopo la quale si ritirarono a Tagliacozzo. Invano Santa Caterina li pregò di tornare all'ubbidienza di Urbano VI; essi preferirono rimaner neutrali; ma morto, l'anno dopo, il cardinale Orsini, gli altri due passarono dalla parte di Clemente.Lo scisma divideva la Cristianità in due campi: per Clemente VII si schierarono la regina di Napoli, la Francia e la Savoia e più tardi i regni di Castiglia, d'Aragona e di Scozia; per Urbano VI le altre parti d'Italia, il Portogallo, l' Ungheria,  l'Inghilterra e la Germania. Carlo IV lo riconobbe per primo fra gli altri sovrani e, morto lui il 29 novembre del 1378, il figlio Vinceslao, che gli successe, continuò nell'obbedienza di Urbano. Il quale, lanciata la scomunica al suo antagonista, convinto che le armi spirituali a nulla avrebbero giovato, assoldò una compagnia di ventura. Era, questa, chiamata di SAN GIORGIO ed era composta tutta di Italiani. La comandava un romagnolo: ALBERICO da BARBIANO che aveva militato con Roberto di Ginevra e sotto i Visconti; giovane audace e valoroso, che aveva riunito sotto la sua bandiera molti di quegli Italiani, i quali allettati dai guadagni dei soldati di ventura o costretti a vivere in esilio, lontani dalle loro città, avevano abbracciato la carriera delle armi. 

Lo scisma pertanto assumeva carattere nazionale in Italia, dove il francese Clemente VII affidava se stesso all'aiuto di mercenari stranieri, mentre l' italiano Urbano VI chiamava a sostenere la propria causa un italiano condottiero di Italiani. 
La Compagnia di San Giorgio iniziò la sua vita guerresca con un trionfo clamoroso che rappresentò la prima pagina della storia delle compagnie di ventura italiane: il 28 aprile del 1379, a Marino, nelle vicinanze di Roma, dopo una furiosa battaglia durata cinque ore, Alberico da Barbiano sconfisse sanguinosamente la Compagnia dei Brettoni. Dopo la vittoria egli entrò trionfalmente a Roma fra il tripudio della popolazione e ricevette in dono dal Papa una bandiera col motto Italia liberata dai barbari. 

Quel giorno stesso il governatore francese di Castel Sant'Angelo consegnò la fortezza ad Urbano, e i Romani si sfogarono sulla Mole Adriana danneggiandola gravemente. La lotta contro l'antipapa, così felicemente iniziata, proseguì con grande slancio e in pochi giorni tutto il Lazio cadde in potere di Urbano VI. 

Clemente VII riparò a Napoli il 28 maggio e ricevette festose accoglienze dalla corte angioina; ma i napoletani, che fiancheggiavano per l'altro Pontefice loro concittadino, tumultuarono e Clemente, atterrito, fuggì a Gaeta dove poi s'imbarcò per la Francia. Il 10 giugno egli giunse a Marsiglia e di là si recò ad Avignone, che, abbandonata trentatre mesi prima dai Pontefici, ora diventava la sede degli antipapi. Se le guerre di signori e di papi erano finite, ora iniziavano i tumulti di popolo in due grandi città.
A Firenze (quella dei Ciompi) e a Venezia (la guerra con Chioggia).
su questi fatti - nei dettagli - vi rimandiamo alle pagine di Storia d'Italia.
Già fin dal marzo del 1380 Urbano VI e i Fiorentini avevano cercato di metter fine alla guerra e a Cittadella avevano avuto luogo conferenze tra gli ambasciatori dei belligeranti e dei mediatori; ma non si era concluso nulla. Nell'estate del 1381 offerse la sua autorevole mediazione Amedeo VI di Savoia, che tutti accettarono. Terminata o quasi le dispute nel nord Italia, nello stesso anno sono già in gestazione quelle al Centro e al Sud d'Italia. E' il periodo di papa URBANO VI, del Regno di Napoli  e nuovamente dei Visconti nel settentrione.Urbano VI non aveva dimenticato che la regina Giovanna aveva ospitato in Napoli Clemente VII e lo aveva riconosciuto come papa legittimo, e meditava di punire questa sovrana che, vassalla della Chiesa, aveva osato schierarsi contro il vero capo di essa. Il 21 aprile del 1380, mentre era in corso la guerra di Chioggia, il Pontefice, dichiarata Giovanna I scismatica ed eretica, la deponeva dal trono, scioglieva i sudditi di lei dal giuramento di fedeltà e le bandiva contro la crociata. 
Urbano VI però sapeva che a nulla valevano le armi spirituali e non potendo muovere direttamente contro Napoli per la situazione in cui lo stato pontificio si trovava dopo la rivolta, tentò di spingere contro la regina un potente nemico. Era questi Carlo di Durazzo, ultimo dei discendenti di Carlo d'Angiò, educato nella corte di re Luigi d'Ungheria all'odio contro Giovanna I, giovane audace ed ambizioso, cui non pareva vero di cingere la corona di quel regno alla quale aveva diritto. Il Durazzo si mosse subito.
Il Papa riuscì nel suo intento, agevolato dalla stessa regina di Napoli, che il 29 giugno del 1380, per procurarsi un valido aiuto contro la Santa Sede e il nipote, adottò come suo successore il duca Luigi d'Angiò, fratello del re Carlo V di Francia, invitandolo a scendere in Italia e facendo confermare l'adozione da Clemente VII. Partito da Treviso raggiuanta e lasciata la Toscana, Carlo di Durazzo si pose in cammino alla volta di Roma, dove, vi giunse nel novembre. Il Papa gli fece lietissime accoglienze, lo creò senatore e gonfaloniere della Chiesa e si fece promettere che al proprio nipote Francesco Frignano, detto Butillo, avrebbe concesso i feudi di Capua, Amalfi, Nocera ed altre terre dal Napoletano. Carlo si trattenne a Roma circa sette mesi e solo nei primi di giugno del 1381 si decise a marciare verso il reame di Napoli, approfittando della morte di Carlo V di Francia, che tratteneva oltre le Alpi Luigi d'Angiò rimasto tutore del dodicenne nipote Carlo VI. L'impresa a cui s'era accinto non presentava gravi difficoltà: gran parte della popolazione parteggiava per lui; le casse dell'erario esauste non permettevano alla regina di assoldar mercenari e la difesa del regno era affidata a poche truppe sotto il comando del quarto marito di Giovanna, Ottone di Brunswich, che non poteva costituire un serio  ostacolo. Senza quasi adoperare le armi , il 16 luglio entrò in Napoli.Giovanna I, all'avvicinarsi del nemico, si era chiusa in Castel dell' Ovo e qui rimase assediata per oltre un mese sperando di esser liberata dal marito. Il quale tentò il 24 agosto di scacciare da Napoli l'usurpatore, ma non ebbe fortuna: le sue truppe vennero sbaragliate, il marchese del Monferrato, suo pupillo, che gli combatteva al fianco, ucciso ed egli stesso fatto prigioniero. Quel giorno medesimo la regina capitolò e fu mandata nel castello di Muro in Basilicata; Carlo di Durazzo, rimasto padrone del reame, fece venire in Napoli i figli e la moglie Margherita. 
Ma i successi di Carlo di Durazzo non lasciarono indifferente Luigi d'Angiò. Stimolato da Clemente VII, che gli fornì denari, lo nominò capitano della Chiesa e al principio del 1382 lo incoronò ad Avignone re di Napoli. Si preparò a scacciare il rivale dal reame e cominciò col sottomettere al suo dominio i possessi angioini della Provenza, mentre il Durazzese, avuta notizia della spedizione che si stava approntando in Francia, nel maggio di quell'anno, faceva assassinare la regina Giovanna.
Luigi d'Angiò passò le Alpi alla testa d'un esercito che alcuni fanno ascendere a quarantamila cavalieri. In Piemonte si unì a lui Amedeo VI di Savoia, partigiano dell'antipapa, che aveva accresciuti i suoi domini con i territori di San Germano, Santhià e Biella, ed ora veniva in possesso di Cuneo e riceveva da Luigi la cessione dei suoi di-ritti sulle terre angioine di qua dalle Alpi. In Lombardia ebbe aiuti e libero passaggio da Bernabò Visconti che con lui aveva iniziato trattative per combinare un matrimonio tra la figlia Lucia e Luigi Il, figlio del duca. Di là l’Angioino proseguì per le Romagne e le Marche e il 13 luglio del 1382 entrò in Aquila, dove vennero a fargli atto d’omaggio i rappresentanti di alcune nobili famiglie del reame napoletano quali quelle dei Sanseverino e dei conti di Tricarico, di Matera, di Conversano e di Caserta.
Carlo di Durazzo, che, avendo al suo soldo le compagnie di Alberico da Barbiano e dell’Acuto, disponeva di circa quattordicimila cavalieri,, coi quali era in grado di contendere tendere il passo al rivale, anziché decidere le sorti del suo regno con una battaglia campale stabilì di difendere le terre fortificate e di lasciar che il clima, le malattie, la penuria delle vettovaglie e il tempo decimassero e stancassero il nemico. Così Luigi riuscì senza gravi difficoltà a spingersi nella Terra di Lavoro e nelle Puglie, ma vide a poco a poco il suo esercito logorato da una noiosa guerriglia, da sfibranti assedi di piccoli castelli e da un’epidemia che doveva troncar la vita ad uno dei suoi più illustri sostenitori: il Conte Verde.

Amedeo VI morì a Santo Stefano di Puglia nel marzo del 1383. Aveva soli quarantanove anni; godeva meritata fama di uomo serio e generoso; prode nelle armi, aveva con successo combattuto contro i Turchi, contro i Bulgari e i Visconti; dotato di larghe vedute, aveva opportunamente abbandonato le mire sui territori transalpini dedicando la sua attività a ingrandire i suoi domini in Piemonte e dando così un chiaro indirizzo alla politica della sua Casa; pur rivolgendo i suoi maggiori sforzi ad estendere i suoi possessi, si era curato di difendere il trono dei Paleologhi suoi congiunti e di metter pace tra Genova e Venezia ed ora seguiva Luigi d’Angiò in una  impresa che poteva procurargli vantaggi e sognava pure nelle arse terre di Puglia, fare poi una spedizione in Terrasanta, quando l’epidemia che mieteva numerose vittime nell’esercito angioino venne a troncargli la vita.. La sua salma fu portata in Savoia e sepolta con pompa nel mausoleo di famiglia dell’Abbazia di Altacomba.

Morto il Conte Verde, le schiere ch’egli aveva condotte nell’ Italia meridionale se ne tornarono in Piemonte e Luigi d’Angiò si vide costretto a rivolgersi per aiuti al nipote CARLO VI di Francia che fece allestire un esercito mettendolo sotto il comando del famoso condottiero ENGUERRANDO di COUCY. Questi mosse verso l'Italia l’anno dopo. Nel settembre del 1384, giunto in Toscana, penetrò a viva forza ad Arezzo che si era data come si è visto a Carlo di Durazzo, e si disponeva a scendere verso il reame di Napoli quando gli giunse la notizia che LUIGI d’ANGIÒ era morto a Bisceglie, presso Bari. Allora Enguerrando vendette Arezzo a Firenze e se ne ritornò in Francia.

La morte del suo rivale rialzò le sorti di Carlo di Durazzo; ma già da un anno un altro nemico si era levato contro di lui: lo stesso Pontefice. URBANO VI NON era per nulla contento di Carlo perchè indugiava a dare a Francesco PRIGNANO i territori promessi, e nella primavera del 1383 era, partito da Roma alla volta di Napoli e, irritato di essere stato guardato a vista dai soldati del sovrano, approfittando dell’assenza di Carlo, recatosi in Puglia, si era trasferito al castello di Nocera, che dal re a quel tempo era stato finalmente ceduto al nipote del Pontefice.

Dopo la morte di Luigi d’Angiò i rapporti tra Urbano e Carlo divennero ancor più tesi: si narra che, invitato a stabilirsi a Napoli, il Papa rispondesse "non dovere i Pontefici recarsi alla corte dei re, ma semmai questi dovevano ad inginocchiarsi ai piedi dei Papi".
 Urbano VI rimase a Nocera, sospettoso della condotta del sovrano e dei suoi stessi cardinali. Egli temeva che Carlo avesse segrete pratiche con alcuni suoi cardinali per abbatterlo. Ne ebbe la certezza nel gennaio del 1385 quando, ne fece arrestare sei, e ottenne con la tortura da uno di essi la confessione della congiura. Allora scomunicò Carlo, la regina Margherita e i figli, che dichiarò decaduti dal trono, e lanciò l’interdetto su Napoli.

Per tutta risposta Carlo di Durazzo proibì che si osservasse l' interdetto e mandò ALBERICO da BARBIANO, che aveva creato gran contestabile del regno, ad assediare il papa a Nocera. Ogni giorno secondo quello che narrano le cronache del tempo il Pontefice si affacciava tre o quattro volte ad una finestra del castello e anche al lume di un cero al suono d’una campanella scomunicava gli assedianti, che aspettavano di fargli la festa visto che sul suo capo era stata  messo una taglia di diecimila fiorini d’oro.

Sei mesi durò l’assedio e quando la città fu presa, Urbano VI continuò a resistere nel castello. A liberarlo andarono REMONDELLO ORSINI e TOMMASO di SANSEVERINO, fautori del defunto Luigi d’Angiò ed ora, in odio a Carlo, erano diventati partigiani del Papa. I due con tremila cavalieri, e avanzi dell’esercito angioino, diedero l’assalto agli assedianti e li costrinsero ad allontanarsi da Nocera, poi fecero uscire il Pontefice, che a sua volta condusse con sé i sei cardinali prigionieri suoi però. Urbano VI, non fidandosi delle schiere francesi che lo avevano liberato, le licenziò; trattenne solo un certo numero di mercenari italiani e tedeschi con la scorta e con questa andò a Benevento; di là passò nella Puglia ed essendo su queste coste giunte dieci galee genovesi mandategli dal doge Antoniotto Adorno, fece vela per Messina e poi per Corneto e infine per Genova dove giunse il 23 settembre del 1385 e dimorò fino al dicembre dell’anno seguente. Durante il suo soggiorno genovese cinque dei cardinali prigionieri, avendo tentato la fuga, furono messi a morte; il sesto, salvatosi per intercessione del re d’Inghilterra, passò ad Avignone presso l’antipapa.

Mentre Urbano VI sbarcava a Genova, Carlo di Durazzo, lasciato il governo alla moglie Margherita, si imbarcava a Manfredonia diretto in Ungheria. Qui, l'11 settembre del 1382, dopo quarant’anni di regno era morto il re Luigi e la corona era stata data alla giovane figlia Maria sotto la tutela della madre Elisabetta; ma, essendo il governo di queste due donne divenuto odioso, era stato chiamato Carlo di Durazzo, che in Ungheria godeva molto favore per esservi cresciuto e per aver più volte capitanati gli eserciti del regno.

Giunto in Ungheria, Carlo fu riunita una dieta ad Albareale, e proclamato re. Le due regine finsero di rassegnarsi alla volontà della nazione, ma decisero di ricuperare il trono e di sopprimere colui che consideravano usurpatore. Il 7 febbraio dal 1386 Carlo, invitato dalle due donne, si recò senza sospettare di nulla nel loro palazzo, dove fu assalito da alcuni sicari e gravemente ferito. Condotto in una prigione di Visgrado, morì avvelenato quattro mesi dopo, il 3 giugno del 1386.

Carlo di Durazzo lasciava due figli: Giovanna e Ladislao. Quest’ultimo fu proclamato re e, poiché era appena decenne, fu messo sotto la reggenza della madre Margherita. Ma questa non era dotata di quell’energia che occorreva per governare saldamente un reame in cui forte era il partito del ramo angioino di Francia; molti i malcontenti, non pochi quelli che desideravano un rivolgimento politico per poter pescare nel torbido. All’ordine subentrò l’anarchia; Napoli elesse magistrati propri (Consiglio degli Otto del buon governo) che subito vennero a conflitto con l’autorità regia. 
Il partito angioino, capitanato da Tommaso di Sanseverino ed Ottone di Brunswich, proclamò re LUIGI II d’ANGIÒ, figlio del morto duca, sotto la reggenza della madre Maria; la capitale venne occupata nel 1387 dai fiancheggiatori degli Angioini e la regina Margherita, che con i suoi familiari si era chiusa dentro Castel dell’ Ovo, fu costretta a riparare a Gaeta.

Urbano VI aveva lasciato Genova nel dicembre del 1386 ed era andato a Lucca. Non si era pronunciato in favore di nessuno dei due competitori e voleva trarre profitto dall’anarchia del reame di Napoli, in cui due re fanciulli sotto la reggenza di due donne si facevano la guerra; che gli era utile, questo avrebbe permesso di dare la corona a suo nipote FRANCESCO PRIGNANO. 
Per nove mesi Urbano VI si trattenne a Lucca, poi quando seppe che Francesco da Vico era stato ucciso dai Viterbesi, i quali erano tornati all’obbedienza della Chiesa, andò a Perugia, che, dilaniata dalle lotte delle fazioni dei RASPANTI e dei MICHELOTTI, anche questa città si diede al Pontefice.

Tutto invaso dall’idea di impadronirsi del reame di Napoli, Urbano credeva di potere sfruttare per i suoi disegni l’anormale situazione della Sicilia. FEDERICO III era morto fin dal 1377, lasciando sul trono la figlia MARIA sotto la reggenza di ARTALO d’ARAGONA; ma questa era rimasta nell’isola solo cinque anni: andato a monte, per opera del re Pietro IV d’Aragona il matrimonio che era stato progettato tra lei a GALEAZZO VISCONTI; la donna era stata condotta in Sardegna e di là in Catalogna, dove, nel 1390, doveva sposare Martino II. 
La Sicilia era rimasta in balia dei suoi baroni. Il Pontefice la reclamò come feudo della Chiesa, ma poi mitigò le sue pretese -anche perché non poteva pretender nulla con la forza, non avendola- e si limitò a chiedere aiuti ai feudatari per la sua impresa nel Napoletano.

Nell’agosto del 1388 Urbano VI si mosse da Perugia alla testa di quattromila lance; ma la spedizione fu troncata già sul principio da un grave accidente occorsogli: a Narni per una caduta da cavallo si ruppe una gamba e dovette abbandonare l’impresa e tornare a Roma dove giunse nel principio dell’ottobre. Qui tolse il governo ai banderesi
e ristabilì la sua autorità. In compenso della sottratta libertà, il Pontefice promise ai Romani che il Giubileo, anzichè nel 1400, sarebbe stato celebrato dieci anni prima, cioè nel 1390;
ma egli non riuscì a vederlo: morì pochi mesi dopo, il 15 ottobre del 1389.
Le maggiori critiche fatte al suo pontificato, furono quelle di essersi comportato come un monarca assoluto, mai disposto al perdono, che gli alienò l'appoggio di molti cardinali della Curia. Privo di questi sostegni, divenne sempre più nevrotico, e vedendo una congiura in ogni angolo, sempre più insicuro (per questo cambiava continuamente residenza).La morte di Urbano VI non fece cessare lo scisma; anzi subito i cardinali si affrettarono a dargli un successore.
l'elezione di PAPA BONIFACIO IX .....


BONIFACIO IX, Pietro Tomacelli, di Napoli
(
pontificato 1389-1404 )
Abbiamo detto che la morte di Urbano VI - avvenuta il 15 ottobre 1389 - non fece cessare lo scisma.
Nella successione, l'antipapa Clemente VII, era quasi sicuro che l'avrebbero riconosciuto pontefice unico.
Ma i 14 cardinali a lui ostili riuniti in conclave a Roma si affrettarono il 2 novembre a dargli un successore
nella persona del napoletano Pietro Tomacelli cardinale di S. Anastasia, che consacrato il 9 dello stesso mese prese il nome di BONIFACIO IX.Per prima cosa cercò di limitare i danni che il suo predecessore aveva causato, soprattutto in seno alla Curia, dove albergavano più nemici del papa che non amici. Riparò anche a molti torti, liberando coloro che ingiustamente erano stati incolpati di congiure, restituì ad alcuni cardinali la dignità, si riconciliò con il regno di Napoli (anche perchè il suo antagonista Clemente VII proteggeva Luigi Il) riconoscendo senza indugio Ladislao, il figlio del defunto Carlo III che nell'anno successivo mandò ad incoronare a Gaeta dal suo legato. Si assicurò cosi l'obbedienza del regno dell'Italia meridionale.L’anno medesimo che moriva il sabaudo Conte Rosso, MARTINO d’ARAGONA (figlio di Martino I d'Aragona), che l’anno prima aveva sposato Maria, figlia di Federico III, si disponeva ad andare in Sicilia; ma i baroni siciliani, che non tolleravano un re ed erano contenti dell’anarchia dell’isola ed avevano spinto il Pontefice BONIFACIO IX a dichiarar nullo quel matrimonio, riunitisi a Castronovo dichiararono che avrebbero accolta sì Maria come regina ma avrebbero respinto l’Aragonese. A quel punto Martino parti per l'isola intenzionato ad avanzare i suoi diritti.Ma Bonifacio IX considerando la Sicilia come un feudo della Chiesa, volendo far valere la propria sovranità, divise l’isola in quattro parti e di ciascuna di esse concesse l'investitura rispettivamente a quattro dei più potenti feudatari siciliani, Andrea CHIARAMONTE, Manfredi ALAGONA, Antonio VENTIMIGLIA e Guglielmo PERALTA.
Martino che nel frattempo era sbarcato a Trapani, tratto dalla sua parte alcuni baroni, pose l’assedio a Palermo e la prese (1392). 
L’anno seguente però i successi dell’Aragonese furono arrestati da una indomabile ribellione, alla quale non era estraneo il Pontefice; ma le sue sorti si rialzarono quando, suo padre Martino I, salito al trono di Aragona, riuscì a spedire un aiuto al figlio. Allora i baroni siciliani si convinsero che era inutile persistere nell’opposizione, cambiarono bandiera e riconobbero Martino.

Intanto lo scisma continuava; ma in Europa c'era un grande desiderio che la pace tornasse in grembo alla Chiesa; d’altro canto l’antipapa cominciava a perder terreno in Francia. Nel 1393 l'Università di Parigi propose che i due papi rinunziassero alla tiara; ma né Bonifacio IX né Clemente VII accolsero la proposta. Quest’ultimo cessava di vivere poco dopo, il 16 novembre del 1394. Sperò allora il mondo cattolico che lo scisma potesse aver fine, ma i cardinali d’Avignone, nello stesso mese, elessero papa il cardinale spagnolo Pietro de Luna, che prese il nome di BENEDETTO XIII. 
 
Se Benedetto XIII perdeva terreno in Francia in migliori condizioni non si trovava Bonifacio IX in Italia. Costretto dal bisogno di denaro, dietro il pagamento di tributi annui egli aveva finito col riconoscere le signorie che si erano venute formando nello stato pontificio, aveva perduto Perugia che nel 1393 era caduta in potere di Biordo dei Michelotti e si era ridotto a costituire in vicariati parecchie terre. Solo a Roma, ma dopo essere stato in grave conflitto coi banderesi, esserne rimasto lontano per oltre un anno e aver corso pericolo della vita, aiutato da Ladislao aveva potuto affermare pienamente nel 1398 la sua autorità.Del resto a Roma, dopo aver fatto il giubileo indetto da Urbano IV che aveva risollevato economicamente la città, i romani già guardavano al giubileo secolare, a quello del prossimo 1400. Che fu un grosso colpo per le finanze pontificie. "Ormai il giubileo - scrive il Gregorovius - si era trasformato in una manovra speculatoria del papa che, attraverso emissari che si spingevano fino ai più remoti paesi, vendeva indulgenze all'incanto per tanto denaro quanto costava mettersi in viaggio per Roma". Si dice anche che iniziarono proprio con questo giubileo il "traffico" delle indulgenze che cento anni dopo misero in crisi la Chiesa (Riforma).

Dicono gli avversari che Bonifacio badò solo ad arricchirsi sfruttando la qualifica di sovrano temporale e capo spirituale. La prima gli permetteva di dare alcuni benefici in cambio di denaro, poi assillato dal bisogno di denaro per farne molto aumentò a dismisura il numero dei beneficiati. Scoprì così un pozzo senza fondo.
Il sistema poi lo applicò nella seconda qualifica come capo spirituale, e scoprì un altro pozzo senza fondo; a tutti coloro che si rivolgevano a lui per una qualsiasi supplica faceva prima sborsare del denaro ("per la Chiesa" diceva lui) poi dava l'indulgenza; finì che accoglieva qualsiasi supplica e dava la sua indulgenza plenaria anche a quelli che la chiedevano da paesi lontani tramite suoi intermediari.
Ma per farle chiedere bisognava prima promuoverle, inviò allora, specialmente in Germania, uno stuolo di predicatori di indulgenze, che forse furono un po' troppo zelanti, esosi e forse anche disonesti, fino a provocare alcuni malcontenti nelle popolazioni cristiane e Bonifacio nel 1402 fu costretto a revocare questi incarichi, perchè quella incontenibile sete di denaro stava comportando un decadimento del prestigio della sede apostolica romana.
Ma ormai quel sistema era stato scoperto, lo si attenuò, ma col tempo attecchì, e con i successivi papi con sete di soldi, riprese nuovamente vigore, ricreando i predicatori e istituendo dei punti di raccolta del denaro. E dato che il "pozzo senza fondo" richiedeva anche un'abile gestione finanziaria, per la riscossione delle indulgenze nacquero banchieri incaricati, che trattenevano una percentuale e inoltravano il resto alla Santa Sede. Si finì - più tardi, come sappiamo- alla lotte per le indulgenze con Lutero primo accusatore e leader della riforma.
Tornando ai nostri fatti. Andiamo a Firenze. Questa rimasta sola con il Carrarese, credeva giunta l’ultima ora per la sua libertà. Non volendo perdere l’indipendenza alla quale teneva più che a se stessa, spedì ambasciatori a Bonifacio IX per indurlo a sostenerla nella lotta contro il Visconti sempre più aggressivi (avevano già subito dimenticato di essersi uniti in lega con Milano e altre città ribelli allo Stato dela Chiesa). 
Ma non dal Pontefice doveva venire la salvezza. La pestilenza nell’estate del 1402 infieriva in tutta Italia compresa la Lombardia. Per sfuggire il morbo Gian Galeazzo lasciò Milano e si ritirò a Melegnano, dove credeva di esser immune dal contagio; ma il 3 settembre, pochi giorni dopo del suo arrivo, cessò di vivere, segnando con la sua scomparsa dalla scena del mondo il ritorno di quell’equilibrio politico che in quindici anni di lotte era riuscito a turbare profondamente in suo favore.
Pareva che lo stato visconteo dovesse rapidamente dissolversi. Invece doveva ricomporsi di lì a poco sotto FILIPPO MARIA VISCONTI, destinato a risollevare sia pure per breve tempo la fortuna della sua famiglia.

Bonifacio ebbe appena il tempo di fare altri progetti dopo la morte di quel Visconti che gli aveva avvelenato quasi l'intero suo pontificato, morì il 1° ottobre 1404.
Roma, che per quindici anni era stata sotto il duro governo papale, si levò a tumulto al grido di libertà. Rivoleva subito un suo papa (italiano e a Roma), ma lo voleva privo di potere temporale.
Queste lotte di due papi e questo scisma qualcosa avevano comunque lasciato. Bonifacio pur con tutti i suoi difetti, e la fama di simioniaco, aveva acquistato un certo prestigio, rispetto a quello Avignonese. Questi (Benedetto, che era succeduto come antipapa a Clemente VII) all'incontrario il prestigio l'aveva perso perfino nella stessa Francia dove il clero non tollerava le sue sempre più crescenti imposizioni tributarie ( O forse perchè semplicemente non era francese ma spagnolo). Fin dal 1398, un'assemblea a Tolosa composta da dottori universitari, 11 arcivescovi, 60 vescovi, 30 abati, venne alla deliberazione di sottrarsi alla sua obbedienza. Ma c'è da dire che lui alla sua elezione (1394) aveva sottoscritto e confermato con giuramento l'impegno di adoperarsi per la fine dello scisma, pronto anche ad abdicare qualora i cardinali elettori avessero ritenuto necessario quel gesto per il bene della Chiesa. Poi una volta sul soglio lui non ne parlò più e neppure gli altri sollecitarono a fare quel gesto. Quindi all'assemblea di Tolosa Benedetto protestò, e rimasto quasi solo per l'abbandono di molti cardinali, si barricò nel palazzo dei papi di Avignone e con animo indomito era deciso a fare la resistenza più disperata. Gli era contro anche il re di Francia, che però lo salvò dalla sicura morte per fame. Diede ordine ai suoi carcerieri di tenerlo sì rinchiuso ma non di affamarlo, e Benedetto in quella reclusione resistette quasi 5 anni. Ma fece così pena, che quando un giorno (il 13 marzo 1403) tentò la fuga, fuori trovò molti amici, la stessa università di Tolosa prese le sue difese e molti ecclesiastici tornarono sotto la sua obbedienza. Ma tutto questo era avvenuto perchè Benedetto aveva fatto compassione, gli amici e il clero vi erano stati spinti da uno spirito evangelico e in nome di una Chiesa cristiana universale ma nulla più, come prestigio era diventato una nullità.
Cionostante, aveva dichiarato pubblicamente che per il bene della Chiesa si sarebbe recato a Roma per incontrarvi il suo competitore; del resto fin dall'inizio aveva fatto giuramento di lavorare per la cessazione dello scisma, e anche pronto a presentare la propria rinuncia (leggeremo nella prossima biografia del nuovo papa, questo suo viaggio in Italia)

Abbiamo detto sopra che era diventato (politicamente) una nullità; eppure Benedetto aveva pure lui lasciato qualcosa, come l'aveva lasciato Bonifacio.

Lo storico protestante Gregorovius osserva acutamente "Qualunque regno temporale sarebbe senza dubbio crollato (in questa lunga e profonda scissione di menti e di cuori): eppure fu così mirabile l'organizzazione del regno spirituale, e talmente indistrutìtibile la forza del apapato che questo scisma, il più profondo di quanti se ne conoscono, non ebbe per effetto che di mostrare la sua indivisibilità. I papi nemici tra loro, e i propri aderenti, ostili gli uni agli altri, affermavano recisamente gli uni e gli altri l'unità della Chiesa e del pontificato: perchè ogni partito credeva che il suo papa fosse il vero e considerava indivisibile il pontificato, e questo, per conseguenza, venne restaurato quando le persone furono vinte" (Tomo V, p. 747)
In conclusione, le coscienze ben radicate nella fede seppero elevarsi al di sopra delle dolorose contingenze, e non declinarono dalla retta via dottrinale.
l'elezione di PAPA INNOCENZO VII ....

INNOCENZO VII, Cosma Migliorati, di Sulmona
(
pontificato 1404-1406 )
Come abbiamo letto nella precedente biografia, Bonifacio IX dopo quindici anni di pontificato era morto il 1° ottobre 1404. In un momento critico, anche se era venuto a mancare l'uomo che gli aveva contrastato e rovinato tutte le sue ambizioni: il Visconti.
Roma, che per quindici anni era stata sotto il duro governo temporale papale, appena avuta la notizia della sua morte si levò a tumulto al grido di libertà. Rivoleva subito un suo papa (italiano e a Roma), ma lo voleva privo di potere temporale. A fomentarli i soliti Orsini e Colonna. I primi con i loro nobili seguaci e una parte di quel popolino di facile presa ai motti democratici, si erano subito impadroniti del Campidoglio.
I secondi pure loro con un seguito di plebe molto simile alla prima ma schierata dalla loro parte, iniziarono l'insurrezione ma essendo più debole della prima, si decisero a invocare l'aiuto del re di Napoli Ladislao.
Questi non vedeva l'ora che scoppiassero nelle opposte fazioni dei torbidi; lui - aiutando o l'uno o l'altra fazione (in senso democratico), voleva trarne vantaggio mirando ad estendere il suo regno a spese dello stato pontificio.
Sotto il timore di tale minaccia (Campidoglio, Vaticano, Castel S. Angelo erano già in mano agli insorti) i cardinali riuniti in conclave, volevano sbrigarsi a fare il nome del successore. Ma dato che da Avignone era già giunta notizia che l'antipapa Benedetto era in procinto di partire con una buona scorta di armati per scendere su Roma (ma questo l'aveva messo già in programma con ancora vivo Bonifacio IX e con intenzioni pacifiche) i cardinali scelsero una strada di reciproco accordo, e prima di votare e quindi eleggere uno di loro, avevano prestato giuramento di indire un concilio ecumenico e a presentare -se fosse stato il caso- la propria rinuncia.
Bisogna dire che anche ad Avignone gli antipapa avevano fatto lo stesso giuramento, ma poi una volta eletti non avevano mollato la tiara; avevano fatto solo chicchiere ed espresso future buone intenzioni.
Tuttavia al conclave si sbrigarono, e ci misero solo qualche giorno per indicare il successore. Il 17 ottobre 1404 i cardinali fecero il nome di Cosma Migliorati nato a Sulmona. Un uomo istruito, virtuoso, già arcivescovo di Ravenna, poi di Bologna, indi cardinale di S. Croce; ma era un uomo debole avanti con gli anni, quasi alle soglie dei settanta.

Roma era ancora in stato di rivolta, il re di Napoli si stava avvicinando, le basiliche erano occupate dagli insorti, e quindi il neo-eletto non fu nemmeno consacrato, dovette lasciare Roma e rifugiarsi con la corte papale nella più sicura e ospitale Viterbo.
Lui partiva e il re di Napoli Ladislao il 19 ottobre entrava in Roma con le sue truppe. Non aveva ancora deciso con quale delle due fazioni schierarsi (abbiamo letto sopra quali erano le sue mire) ma visto che un papa era stato eletto, colse l'occasione al volo e si schierò come vassallo del papa, e barcamenandosi, si atteggiò a paciere tra le due fazioni, affermando che unica sua intenzione era quella di ristabilire l'ordine. E ci riuscì anche, perchè nel giro di una settimana le due fazioni firmarono un accordo, e per far riassaporare al popolo quella libertà che andava reclamando nelle vie e nelle piazze, furono insediati in Campidoglio dieci governatori a fianco del senatore.
Sedati i tumulti, ristabilita la tranquillità e l'ordine, il neo-papa poteva far rientro a Roma. L'11 novembre 1404 veniva consacrato in S. Pietro, prendendo il nome di INNOCENZO VII. Roma applaudì e per qualche giorno fece festa.
Incontrandosi con l'autore di questa pacificazione, il pontefice riuscì a ottenere dal re di Napoli alcune promesse come difensore della Chiesa, e un impegno a farla riunificare. Ladislao per quel che gli costava, pensando a ben ad altro, promise tutto quello che gli chiedeva, ricevendone in cambio nomine redditizie.

L'anno 1404 terminò con le varie celebrazioni religiose, ma all'inizio del 1405, l'anti-papa avignonese Benedetto, che aveva annunciato di scendere a Roma per incontrarsi con il nuovo papa, si era mosso dalla Francia, a Pasqua era già a Genova e da qui inviò ambasciatori a Innocenzo per combinare un incontro a Roma. L'altro declinò l'invito, era troppo pericoloso avere a Roma due papi. Eppure aveva giurato prima di essere eletto, di indire un concilio ecumenico e l'impegno di adoperarsi per la fine dello scisma, pronto anche ad abdicare qualora i cardinali di questo concilio avessero ritenuto necessario quel gesto per il bene della Chiesa.
Ma a Roma c'era chi soffiava sul fuoco di queste discordie nate con lo scisma. Cominciarono a girare libelli diffamatori per entrambi i papi. Il rimprovero che facevano a Innocenzo era quello di non avere volontà per la composizione dello scisma, di non muovere un dito, di essere perfino uno spergiuro.

Nello stesso agosto accadde il fattaccio. Una delegazione di quattordici cittadini, stanca delle parole e dell'ambiguità si presentò direttamente al papa rivolgendogli le accuse che prima erano solo nei libelli. A difendere il vecchio papa da queste aggressioni verbali, intervenne il nipote Luigi Migliorati con maniere spiccie e violenti; riuscì a far arrestare undici di loro, li fece uccidere sul posto, e - come monito - ne gettò i cadaveri in mezzo alla strada.

Ci mancava solo questo per far ritornare in città il caos. Nella stessa notte furono incendiate le abitazioni dei cardinali e si scatenarono le violenze. Innocenzo e l'intera sua corte visto il vento che tirava abbandonarono Roma per rifugiarsi nuovamente a Viterbo, sperando in un intervento del re di Napoli.
Ma Ladislao il paciere che gli aveva promesso al suo rientro a Roma di difendere la Chiesa, dopo quel giorno quasi subito si era messo a scorazzare negli Stati Pontifici allo scopo di ingrandire il suo regno. E nel farlo molti delegati pontifici di alcune città - essendo lui militarmente forte e sentendosi loro per via dello scisma anche precari -erano passati sotto la sua bandiera.
Innocenzo non aveva armi nè truppe da contrapporre, aveva solo l'arma spirituale delle scomuniche. Le usò e ne fece anche un uso smodato, lanciando maledizioni a destra e a sinistra. Emanò bolle di ogni tipo, una di queste proprio contro Ladislao, dichiarandolo decaduto da re di Napoli.
Ma nei nuovi torbidi scoppiati in agosto, Ladislao tornò a farsi vivo a Roma, agendo come aveva agito la volta precedente, a fare il paciere per (ovviamente anche questa volta) non compromettere i suoi progetti. L'ingenuo Innocenzo, si fidò un'altra volta, ritirò scomuniche, bolle, maledizioni, e riabilitò Ladislao, dichiarandolo addirittura autentico vessillifero della Chiesa.
Ciò che rimproveranno a questo papa fu proprio la indiscutibile leggerezza nell'uso dell'autorità religiosa. Minacciava e promulgava solenne maledizioni della Chiesa e subito dopo le mutava in altrettanto solenne benedizioni. Una discutibile arte religiosa, e una cattiva arte politica: entrambe diventate delle banderuole.

Come la prima volta, con Ladislao che aveva placato di nuovo i tumulti, ristabilito la tranquillità e l'ordine, Innocenzo grazie a lui poteva far rientro il 1° settembre 1406 a Roma.
Ma campò ancora due mesi, poi il 6 novembre morì.

Due anni di pontificato i suoi, che non potevano essere per la Chiesa più disastrosi.
E se qualcuno credeva che lo scisma fosse finito, nei successivi mesi dovette ricredersi; anzi al posto di di due papi se ne fecero tre.
l'elezione di PAPA GREGORIO XII .....

GREGORIO XII, Angelo Correr, di Venezia
(
pontificato 1406-1415 )
(antipapi Benedetto XIII e Giovanni XIII - Concilio di Costanza
La morte di Innocenzo XII avvenuta il 6 novembre 1406, porgeva una nuova occasione per far cessare lo scisma; ma neppure questa volta i cardinali vollero astenersi dall’eleggere un nuovo Pontefice e forse, date le turbolenze che affliggevano Roma e le mire palesi di Ladislao, non avevano torto. Pertanto si unirono in conclave, giurando, prima, solennemente che chiunque venisse eletto avrebbe fatto di tutto per porre termine allo scisma, che non avrebbe nominati nuovi cardinali ed avrebbe deposto, se necessario, la tiara. Ma questo giuramento - come abbiamo già letto - altre volte era stato fatto e mai era stato mantenuto.
Ma bisogna anche dire che quei patti erano anticanonici, poichè nessun patto o condizione può essere imposta al papa eletto; il papa per diritto divino è superiore al collegio cardinalizio e la sua autoritò è assolutamente indipendente. Altrimenti non sarebbe stato un vero papa ma soltanto un procuratore del Sacro Collegio cardinalizio.
Dal Conclave, il 30 novembre del 1406, venne eletto il cardinale veneziano ANGELO CORRER, che prese il nome di GREGORIO XII.
Patriarca latino di Costantinopoli, il Correr era un uomo alto di statura, ma magro, tutto pelle e ossa, ottuagenario. Ma era animato da un desiderio vivissimo di dar pace alla Chiesa.

Tenendo fede al giuramento fatto, s'impegnò subito ad inviare lettere ad Avignone, a quelle università e ai principi, dicendo che era suo ardentissimo desiderio la pacificazione, proponendo al suo rivale Benedetto XIII una scambievole abdicazione Seguì anche un'ambasceria per avviare le trattative tendenti a comporre lo scisma entro tre mesi. Nel contempo a Roma a chi gli era vicino andava ripetendo che avrebbe cercato l'unione per terra e per mare, e se era il caso anche raggiungendo Avignone con una semplice barca da pellegrino.
Queste lettere, l'ambasciata, la sua disponibilità, fecero molta impressione in Francia, e l'antipapa Benedetto non poteva tirarsi più indietro, perchè le stesse cose le aveva dette lui in precedenza. Non disse di no, ma non accelerò i tempi, fece vagamente l'accenno a un incontro che doveva avvenire a metà strada, a Savona.
Carlo VI re di Francia, che aveva questa signoria, e fu lieto di potere offrire ospitalità ai due rivali.
Tutta la Cristianità credeva veramente che la fine dello scisma era finalmente vicina.
Teologi, universitari e il clero, in Francia erano tutti impegnati a risolvere quest'intricata questione, e la soluzione migliore che trovarono fu quella di prospettare una abdicazione contemporanea dei due papi, seguita da un nuovo conclave e una nuova elezione.
L'ottunagenario Gregorio, fu però mal consigliato, ascoltando i suoi più stretti collaboratori, si convinse che se fosse andato a Savaona a incontrare il suo avversario, sarebbe stato come riconoscere Benedetto un legittimo papa. Ma più che i consiglieri, gli storici ritengono comunemente che furono i suoi parenti veneziani; questi da un anno piombati a Roma come cavallette, vedendo svanire tutti i loro benefici, fecero pressioni sul pontefice a non accettare l'incontro. Queste cose a Roma erano conosciute e quindi si scatenò il malcontento popolare - come per Innocenzo - nel dire che non aveva volontà per la composizione dello scisma, che non muoveva un dito, e di essere uno spergiuro. Oltre una buona dose di insulti per i suoi parenti così tanto interessati a far naufragare l'unione. Ma non è che anche l'altro ad Avignone stesse meglio. Il suo essere evasivo, il non muovere un dito anche lui, creò malcontento, e quel poco di carisma che aveva riacquistato dopo i suoi cinque anni di prigionia ad Avignone non solo lo perse, ma cominciò a sentirsi minacciato e prima che lo mettessero ancora una volta sotto assedio, il 15 giugno 1408 fuggì da Avignone, riparando in Aragona; da qui con una bolla indisse un suo Concilio a Perpignano per il novembre dello stesso anno.

Il Re di Francia davanti ai due palesemente poco propensi ad incontrarsi, decise di agire diversamente. Propose e l'idea fu accettata di riunire i cardinali delle due fazioni in un concilio a Pisa per il marzo 1409. I cardinali in una specie di sinodo, avrebbero avuto due scelte, costringere i due papi ad abdicare o altrimenti li avrebbero deposti, nominando poi un altro pontefice.

I cardinali che dovevano incontrarsi a Pisa, erano sette di Avignone e sette di Roma. Questi ultimi erano sì della fazione romana, ma ribelli a Gregorio perchè aveva nominati cardinali e aggiunto al Sacro Collegio due suoi nipoti a loro sgraditi. Il pontefice irritato, prima cercò di richiamarli all'obbedienza, ma visti inutili questi sforzi, li scomunicò ed elesse dieci nuovi cardinali; ma non potendo certo rimanere a Roma, trovò apportuno lasciarla ai primi di marzo per trasferirsi a Rimini . Si mise sotto la protezione dei Malatesta e dalla città adriatica inviò severi moniti a Firenze accusandola di dare ospitalità in Toscana a un concilio illegale, poichè nessuno poteva erigersi al di sopra del vero pontefice.

Ad avvantaggiarsi in questa situazione ostile a Gregorio, fu Benedetto che come aveva annunciato, a Perpignano il 1° novembre 1408 aveva già riunito un suo concilio con 120 intervenuti. Discussero molto per varie settimane, ma non tutti furono favorevoli alla causa di Benedetto, anzi alcuni di loro, nonostante un veto, e la minaccia di arresto, vollero partire per il Concilio di Pisa che nel frattempo si era il 25 marzo 1409 già aperto. Infatti vi giunsero a cose finite.

In questi mesi, se dentro la Chiesa il caos era enorme, nel mondo laico era ancora maggiore. Tra l'uno e l'altro concilio, i sovrani dei vari Stati non avevano preso una netta posizione, si schieravano ora per l'uno ora per l'altro, ma senza alcuna convinzione.
Alla fine, uno spiraglio credettero che ci fosse nel concilio di Pisa, e oltre ad essere presenti i loro portavoce, a Pisa c'era una vera folla rappresentata da 10 cardinali filo-benedettiano, 14 filo-gregoriani, 4 patriarchi, 80 vescovi, 102 procuratori di vescovi assenti, 27 abati, 220 procuratori di abati assenti, 4 generali degli Ordini dei mendicanti, 13 deputati di università, alcune centinaia di dottori in teologia. Unici assenti i due papi che 5 giorni dopo, il 30 marzo furono dichiarati contumaci.
Fu una riunione burrascosa. Perchè alcuni sostennero che quel concilio era illegittimo, altri sostenevano a spada tratta le ragioni di Benedetto, altri quelle di Gregorio. Ma non erano pochi quelli che volevano giustificare l'operato del concilio. E furono proprio questi ultimi nella nona sessione (10-17 maggio) a riuscire a mettere d'accordo tutti nel dichiarare che quello era un concilio ecumenico, cioè rappresentante di tutta la Chiesa. Fu costituito un tribunale supremo che dichiarò per prima cosa la fusione dei due gruppi di cardinali in un solo collegio, e questo rifiutava obbedienza a entrambi i due papi rivali.
Una motivazione ci doveva pur essere, ed allora il 22-23 maggio furono letti gli atti di accusa; la principale era quella di eresia e di aver provocato lo scisma.
Il 5 giugno, il patriarca di Alessandria lesse la sentenza definitiva, "Pietro de Luna e Angelo Correr, eretici e scismatici, sono spogliati di tutte le loro dignità, esclusi dalla comunione della Chiesa e i fedeli sono prosciolti dall'obbedienza verso i medesimi". "
La Santa Sede è vacante, e tutte gli atti erogati dai due deposti, sono da ritenersi nulli". Un Te Deum, grandi feste di popolo e scampanio di campane in tutte le chiese della città, posero fine a questa prima parte del concilio, che era la più facile, perchè si erano eliminate le cause disgregratrici della Santa Chiesa. Più difficile era ora quella parte del concilio che doveva procedere alla nomina di un nuovo pontefice; e questo per iniziare la difficile opera di riforma doveva avere delle capacità non comuni. Il 15 giugno i 24 cardinali del (nuovo) Sacro Collegio si riunirono in conclave. Dieci giorni dopo offrivano la tiara al cardinale BALDASSARRE COSSA, legato di Bologna, uomo astuto e violento; ma, giudicando che non fosse ancor giunto per lui il momento opportuno, indicò il vecchio settantanne cardinale PIETRO FILARGI di Candia, arcivescovo di Milano, che il 26 giugno venne eletto Pontefice e consacrato il 7 luglio col nome di ALESSANDRO V
Qualche malumore per questa elezione ci fu, infatti mancò una approvazione generale, e alcuni canonisti e teologi, cominciarono a dire che le decisioni che erano state prese dall'assemblea erano prive di ogni concreto fondamento giuridico, e che più che un Concilio era un "conciliabolo".
E se qualcuno aveva creduto che lo scisma era finito, si ritrovò ora con tre papi, il che era peggio di prima.
Infatti i due papi spodestati non è che avevano rinunciato alla lotta e ognuno nei territori di propria influenza continuarono ad esercitare la loro autorità.
Gregorio XII aveva l'appoggio dell'Italia degli Stati pontifici e dei principi germanici, Benedetto quello della Spagna e qualche parte della Francia, il neo eletto Alessandro la maggior parte della Francia e alcuni stati cristiani.
Il primo, mentre avvenivano le elezioni a Pisa aveva indetto un suo concilio ad Aquileia ribadendo ai convenuti che i legittimi papi erano solo quelli di Roma. Probabilmente non fu molto convincente, i due principali patriarchi della zona, quello di Venezia(Grado) e quello di Aquileia, schierarono la loro obbedienza al neo-eletto a Pisa. Qualcuno in assemblea in gran segreto propose perfino di arrestarlo; Gregorio tempestivamente informato della congiura, con uno stratagemma, indossando gli abiti di un suo cameriere riuscì ad eclissarsi rifugiandosi a Gaeta sotto la protezione del re di Napoli Ladislao.
Ma Ladislao non era più re di Napoli, a Pisa il neo-papa Alessandro V appena eletto (ritenendo che Ladislao costituiva sempre un serio pericolo - ed infatti stava tramando di impossessarsi di tutti gli Stati Pontifici, compresa la stessa Toscana) aveva riconosciuto re di Napoli e gonfaloniere della Chiesa Luigi II d'Angiò, spodestando e scomunicando Ladislao. Questi si era poi ritirato a Gaeta meditando vendetta.
Ma l'angioino nella primavera del 1410 era poi salito a Roma, aveva domato alcune rivolte popolari, sconfitte quelle che erano a favore di un ritorno del re di Napoli, placate quelle a favore di Gregorio. Conquistata Roma favorì l'entrata a Roma del neo-pontefice. Come al solito la volubile Roma applaudì l'uno e l'altro.
Il legato di Bolagna che si era fatto da parte a Pisa lasciando ad Alessandro la tiara, cioè Baldassarre Cossa, ritenne che quello era il suo momento. Invitò a Bologna il pontefice e questi appena qualche giorno dopo, il 3 maggio moriva, non senza sospetto di veleno da parte dello stesso Cossa, che tramava di sostituirlo ai vertici del potere. Infatti fece tutto in casa, riunito un conclave il 17 maggio ne uscì ovviamente lui papa col nome di Giovanni XIII.
Cossa era ambizioso, aveva più doti di condottiero che non di papa, e oltre che essere abile di intrighi politici era un esperto militare nell'azione e nella strategia.
Scortato dalle armi di Luigi d'Angiò, il 13 aprile andò a prendere possesso di Roma dove il 25 fu consacrato papa. Ma a Roma non erano per nulla cessate le rivolte popolari; l'angioino ne domava alcune ma non riusciva a estirparle, nè riuscì a prendere possesso del regno di Napoli strenuamente difeso dagli uomini di Ladislao. Non riuscendo a concludere nulla alla fine Luigi abbandonò il campo e se ne tornò in Francia.Non dimentichiamo che a Gaeta dove si era acquartierato Ladislao, si era rifugiato Gregorio XII assieme a tre cardinali, dopo sua la fuga da Aquileia. Entrambi speravano in qualche aiuto dal re di Germania Roberto, ma questi moriva proprio il giorno che a Bologna era stato proclamato il Cossa, papa Giovanni XXIII.Partito il D'Angiò, Giovanni XXIII si trovò solo contro Ladislao, il quale, passato al difensiva, avanzava verso Roma, favorito dai baroni della Campagna. In queste condizioni il Pontefice non poteva sperare di competere con il nemico. Il momento era pittosto critico, ma intrigante com'era iniziò delle trattative con Ladislao e il 14 giugno del 1412 tra i due fu conclusa la pace. Giovanni XXIII abbandonava completamente la causa di Luigi II d’Angiò, pagava al re centomila fiorini, gli concedeva l' investitura del reame e lo nominava gonfaloniere della Chiesa. Dal canto suo Ladislao riconosceva legittime le decisioni del concilio di Pisa e l’elezione di Giovanni "eletto per divina ispirazione". Insomma rinnegava Gregorio XIII, il quale temendo di essere arrestato e consegnato al suo avversario, fece ciò che aveva fatto ad Aquileia, fu costretto a fuggire da Gaeta dov'era suo ospite e con una galea veneziana prese il largo; andò prima in Dalmazia, poi a Porto Cesenatico e infine a Rimini dove trovò asilo presso Carlo Malatesta.
Ma l'accordo di Ladislao con Giovanni XXIII durò poco.

Dalla Germania dov'era morto l'anno prima Roberto, giunsero notizie poco rassicuranti in Italia e alla Chiesa finita nel caos. La corona di Germania e quella imperiale se l'era messa sulla testa da solo Sigismondo, che a nome della cristianità dichiarò intollerabile la situazione esistente con tre pontefici privi di una concreta autorità. Minacciava di scendere in Italia; ma per prima cosa il 30 ottobre 1413 informò cardinali, vescovi, abati e patriarchi che avrebbe aperto ufficialmente il 1° novembre 1414 a Costanza un Concilio ecumenico. L'invito lo estese anche ai tre pontefici con il proposito di comporre lo scisma.
Avvicinandosi la data del Concilio, Giovanni XXIII partì per Costanza il 1° ottobre del 1414. A Trento egli si incontrò col duca Federico d’Austria, che strinse alleanza col Pontefice e gli promise il suo appoggio durante il periodo del concilio. Giunse a Costanza il 28 ottobre con nove cardinali e il 5 novembre apri il concilio. In sul principio l’assemblea non fu molto numerosa perché Sigismondo era stato ad Aquisgrana a farsi incoronare, né tutti i prelati che avevano riconosciuto le decisioni del concilio pisano erano ancora arrivati; ma a poco a poco affluirono da ogni parte vescovi, preti, abati, ambasciatori, principi, curiosi in tal numero che più di centomila persone tra laici ed ecclesiastici si trovarono concentrate a Costanza quando la vigilia di Natale arrivò l’imperatore. Giovanni XXIII aveva condotto dall’Italia un seguito numerosissimo per esercitare maggiore influenza sull’assemblea e senza dubbio ogni decisione sarebbe stata a lui favorevole se si fosse votato per testa; ma per semplificare i lavori il 7 febbraio 1415 il concilio stabilì che si votava per nazioni. I rappresentanti delle varie nazioni (Italia, Francia, Germania, Inghilterra e, più tardi, la Spagna) dovevano discutere separatamente sui vari problemi e portare nelle sedute generali i risultati delle particolari discussioni. Così l' Italia non ebbe più il vantaggio della maggioranza e - come le altre- contò solamente un voto.Giovanni XXIII sperava che il concilio, ritenendo valide le deliberazioni di quello di Pisa, avrebbe confermato la deposizione degli altri due pontefici e riconosciuto lui solo Capo della Chiesa; ma si accorse subito di essersi ingannato. Scopo dei partecipanti al concilio era quello di porre fine allo scisma il quale, purtroppo, continuava poiché la Spagna ubbidiva ancora a Benedetto XIII e alcune parti dell'Italia e della Germania a Gregorio XII. Pertanto l’assemblea fu di avviso che tutti e tre i pontefici deponessero la tiara e Giovanni XXIII si trovò costretto il 10 marzo a promettere di deporre la dignità se gli altri due avessero fatto la stessa cosa. 
Questa promessa equivaleva ad una definitiva rinunzia al Pontificato, perché, dati gli umori dell’assemblea e le accuse che si andavano facendo su di lui, Giovanni non poteva sperare di venire rieletto. Unico mezzo di salvezza era lo scioglimento del concilio e, per provocarlo, il 20 marzo, travestito da palafreniere, il Pontefice se ne fuggì a Sciaffusa, terra del duca d’Austria, e lì lo raggiunsero i suoi cardinali.
Ma anche questa volta le speranze di Giovanni andarono deluse: l’imperatore si dichiarò per la continuazione del concilio, Giovanni Berson, cancelliere dell’università di Parigi sostenne eloquentemente che il concilio rappresentava la Chiesa universale e per questo era superiore allo stesso Pontefice, e così il concilio continuò in un’atmosfera di giustificata ostilità a Giovanni XXIII.
 Questi, citato a presentarsi davanti l’assemblea, promise di tornare a Costanza, ma intanto cercava di suscitar la discordia in tutta la cristianità e di mettere in cattiva luce Sigismondo. Non vi riuscì. I suoi  cardinali, impauriti, abbandonarono il Papa e fecero ritorno a Costanza; dal canto suo l’imperatore, volendo privare il Pontefice del suo maggior protettore, pubblicò il bando contro Federico d’Austria, che immediatamente si vide assalito dai baroni vicini, dalle città del Reno e della Svevia e dalla lega elvetica; alla fine, abbandonata la causa del Papa, tornò a Costanza sottomettendosi a Sigismondo. Giovanni XXIII, dopo di essere stato a Lanfenburg, a Friburgo e a Brisac, fu da Federico di Brandeburgo condotto il 17 maggio al castello di Tadolfzell, presso Costanza, dove gli fu annunziato che il concilio lo aveva deposto (29 maggio del 1415) in seguito ad un processo in cui erano state mosse gravissime accuse, in parte giuste in parti false, al Papa. Questi venne chiuso, in perpetua prigionia, nel castello di Gotteben, dove si trovava carcerato l’eresiarca GIOVANNI HUSS. 
Più remissivo e fortunato fu Gregorio XII. Egli mandò a Costanza CARLO MALATESTA, che il 14 luglio, nella quattordicesima sessione conciliare, lesse la rinunzia del suo protetto al pontificato. Ripreso il nome di Angelo Conner, tenne la dignità cardinalizia e si ebbe la legazione delle Marche. Morì in Recanati il 18 ottobre del 1417 in età di novant’anni. 
Non rimaneva che Benedetto XIII. Ma il fiero spagnolo non volle cedere. Invano l’imperatore si recò a Perpignano per persuaderlo a deporre la tiara. Egli sosteneva — e non a torto — che, essendo lui l’unico cardinale vivente nominato avanti lo scisma, mentre gli altri che il concilio aveva condannati erano papi stati eletti dopo, solo questi erano da considerarsi illegittimi, e a lui solo spettava il diritto di scegliere il nuovo Pontefice e lui eleggeva sè stesso. 
Di fronte a tale ostinazione, i suoi stessi sostenitori lo abbandonarono: San Vincenzo Ferreri disertò la sua causa; lo stesso fece il re d’Aragona, che il 6 di gennaio gli tolse l’obbedienza, e il suo esempio fu poco dopo imitato dai re di Castiglia, di Navarra e di Scozia. Benedetto XIII si ritirò a Peniscola, castello inaccessibile della Spagna, alle rive del Mediterraneo, e lì gli giunse la notizia, che il 26 luglio del 1417, nella trentasettesima sessione, il concilio lo aveva deposto. 
Dichiarata vacante la Santa Sede, si decise di procedere all’elezione di un nuovo Pontefice. Il conclave, questa volta, non fu composto di soli cardinali, ma ad essi vennero dal concilio aggiunti sei deputati per ciascuna delle cinque nazioni.
L’ 11 novembre 1417 fu eletto il cardinale romano ODONE COLONNA.

Lo scisma si poteva considerare finito. Benedetto XIII continuò a proclamare i suoi diritti fino al 1424, anno in cui cessò di vivere. Aizzati dal re d’Aragona che si era reso ostile con Martino, i quattro cardinali del defunto papa gli diedero un successore che prese il nome di Clemente VIII, ma questi fu soltanto papa di Peniscola e nel 1429 si sottomise al legittimo Pontefice. 
Oltre il compito di comporre lo scisma, il concilio di Costanza si era proposto di combattere le eresie e di riformare la Chiesa nel capo e nelle membra. Per raggiungere il primo scopo, furono condannati al rogo GIOVANNI HUSS, che peri il 6 luglio del 1415 e GIROLOMO DA PRAGA che venne arso il 20 maggio del 1416.
 
Quanto alla riforma della Chiesa, se ne fece un gran parlare, ma non si concluse nulla di positivo e si stabili di riparlarne nei futuri concili. 
Nella sua quarantacinquesima sessione, il 22 aprile del 1418, il concilio di Costanza di sciolse.
l'elezione di PAPA MARTINO V .....

MARTINO V, Oddone Colonna, romano
(
pontificato 1417-1431)
Dopo aver eletto il nuovo pontefice, il Concilio di Costanza si sciolse il 22 aprile 1418, e nel maggio del 1418 Martino V lasciò Costanza e per Berna e Ginevra si rifugiò a Torino. In Piemonte — scrive l’Orsi — « la situazione politica si andava semplificando. Appunto in quell’anno moriva il principe Ludovico d’Acaia e con lui si estingueva questo ramo della famiglia; i suoi possessi naturalmente passavano ad AMEDEO VIII, rappresentante il ramo principale di Savoia. Una dinastia che ormai raccoglieva nelle sue mani una tale distesa di paesi al di qua e al di là delle Alpi da non avere più tra i principi vicini chi potesse eguagliarla". Dal Piemonte papa Martino V passò in Lombardia. Qui Filippo Maria Visconti usando ogni mezzo, era intento a ricostituire lo stato paterno.
(vedi nei dettagli la cronaca in queste pagine della Storia d'Italia)
Martino V, dopo una breve dimora a Milano (vi consacrò l'altare maggiore dell'attuale Duomo che stava allora sorgendo) si recava a Brescia per tentare di conciliare Pandolfo Malatesta e il Visconti. Da Brescia il Pontefice passò a Mantova presso i Gonzaga, e vi rimase per tutto il resto dell’anno, poi andò a Ferrara, di cui era signore Niccolò III d’ Este e il 26 febbraio del 1419, evitando la ribelle Bologna, giunse a Firenze ben accolto. Questa repubblica, da quando Ladislao era morto, viveva in tranquillità. Padrona di molta parte della Toscana, viveva in pace con i vicini, non si curava di intromettersi nelle vicende che tenevano agitati gli altri stati, aveva stretta amicizia con Giovanna di Napoli, e dal 1413 si era pacificata con Genova. A Firenze, il Pontefice, temendo che Giovanni XXIII prigioniero in Baviera riuscisse ad evadere per le molte aderenze che là aveva, lo fece tradurre in Italia, volendo assegnargli come sede un carcere a Mantova. Ma durante il viaggio il deposto Pontefice fuggì, ma dopo un breve soggiorno in Liguria, andò a Firenze e si gettò il 13 maggio del 1419 ai piedi di Martino riconoscendolo Papa legittimo. 
Questi gli lasciò la dignità cardinalizia e Giovanni XXIII, ripreso il nome di Baldassarre Cossa, si sta- bili in Firenze dove morì sette mesi dopo.
Durante il suo soggiorno a Firenze, Martino V rivolse la sua politica al riacquisto dello stato pontificio.  Per raggiungere questo scopo si accostò alla corte di Napoli (cosa che aveva già fatto Firenze) , dove inviò il nipote Antonio Colonna. La missione di costui fu molto proficua: difatti, in cambio del riconoscimento di Giovanna II quale regina di Napoli, il Pontefice ottenne che la regina gli consegnasse Roma, Civitavecchia, Ostia e tutte le altre terre della Chiesa occupate da Ladislao; che Giacomo della Marcia fosse lasciato libero e che lo Sforza con le sue milizie lo aiutasse a strappare a Braccio di Montone, Perugia e le altre conquiste. Il re Giacomo, lasciato libero, disperando di riacquistare l’autorità perduta, fece ritorno in Francia, dove, fattosi francescano, morì vent'anni dopo nel 1438; Giovanna Il fu con grande solennità incoronata a Napoli il 28 ottobre del 1419 alla presenza di Giordano ed Antonio Colonna; MUZIO ATTENDOLO SFORZA fu creato gonfaloniere della Chiesa e con gran gioia di ser Gianni Caracciolo che vedeva allontanare un rivale marciò contro BRACCIO DA MONTONE.  Una sanguinosa battaglia venne combattuta tra i due celebri condottieri tra Montefiascone e Viterbo e la fortuna arrise a Braccio da Montone che, fatti prigionieri duemila e trecento cavalieri, inseguì il suo nemico fino alle porte di Viterbo dove questi a stento riuscì a salvarsi. 
La sconfitta dello Sforza tornò gradita più che a qualunque altro al Caracciolo, il quale - imbaldanzito- indusse la regina a rifiutarsi alle richieste del Pontefice che voleva fossero da lei somministrati aiuti per ricostituire il suo esercito. 
Sdegnato da questo rifiuto e vista svanire la speranza di vedere il nipote Antonio adottato dalla regina, papa Martino V concepì il disegno di vendicarsi; prima però volle terminare la guerra che aveva intrapresa contro Braccio e, accettata la mediazione dei Fiorentini, si pacificò con lui. 
BRACCIO DA MONTONE andò di persona a Firenze per trattare con il Papa nel febbraio del 1420. 
Solenne fu il suo ingresso nella capitale toscana; il popolo fiorentino applaudiva per le vie al condottiero che si era acquistato grande fama con le sue vittorie. 
Braccio cedette al Pontefice, cui prestò giuramento di fedeltà, le città di Narni, Terni, Orvieto ed Orte e tenne per se, ma col titolo di vicario della Chiesa, Perugia, Todi, Assisi, Spello, Jesi ed altre terre; inoltre si mise al servizio del Papa e dietro suo ordine  marciò contro Bologna, di cui si era insignorito, il 26 gennaio di quell’anno, Antonio Galeazzo Bentivoglio.
In poco tempo i castelli del Bolognese caddero in mano del condottiero perugino, che li occupò in nome della Chiesa; Bologna, non potendo resistere alle milizie di Braccio, il 15 luglio del 1420, aprì le porte. 
Dopo questi successi, Martino V lasciò Firenze e mosse alla volta di Roma,  dove fece il suo solenne ingresso il 29 settembre del 1420.
Fattosi amico di Braccio da Montone e deciso a vendicarsi della regina di Napoli (che si era rifiutata di aiutarlo ad allestire un esercito), papa MARTINO V trovò un validissimo aiuto in MUZIO ATTENDOLO SFORZA che era mosso dall’odio contro Gianni Caracciolo, e trovò pure un pretendente al trono napoletano in LUIGI III d’ANGIÒ. A Firenze erano stati presi gli accordi per l'impresa meridionale tra il Pontefice, lo Sforza e gli ambasciatori dell’Angioino, i quali, messe a disposizione del condottiero vistose somme, fecero sì che questi potesse ricostituire il suo esercito e marciare alla volta di Napoli. Tuttavia fingendosi paciere, MARTINO V invitò Giovanna e Luigi a mandargli a Firenze, dove allora si trovava, ambasciatori perchè si risolvesse pacificamente la contesa. La regina Giovanna mandò come suo ambasciatore un abilissimo diplomatico, ANTONIO CARAFFA soprannominato MALIZIA. Questi non tardò ad accorgersi delle vere intenzioni del Pontefice e rese un prezioso servizio alla propria sovrana procurandole un potente alleato: ALFONSO d’ARAGONA. Lo Sforza che con i mezzi messi a disposizione dal papa avrebbe dovuto impegnarsi, non solo combinò ben poco a Napoli, ma comportandosi da tiranno e compiendo eccidi e stragi, sdegnò perfino i suoi uomini che passarono al nemico.
La debolezza dello Sforza non poteva non preoccupare il Pontefice, il quale prevedeva la sconfitta dell’Angioino che proteggeva. Egli si pentiva di essersi messo a favorire una causa, la quale gli costava molto denaro, e non solo, ma minacciava di far rinascere lo scisma. Difatti Alfonso d'Aragona, per rappresaglia, ordinava che in tutti i suoi stati fosse tolta l’obbedienza a Martino V e venisse riconosciuto Benedetto XIII che viveva a Peniscola. Vedendo mancarsi l’appoggio del Papa, Luigi III d’Angiò si recò a Roma per tener gli occhi aperti sull’alleanza di Martino V : ma mentre cercava di ottenere il protettore che gli stava sfuggendo, perdeva il generale che con le armi aveva fino allora sostenuto la causa angioina: Muzio Attendolo Sforza si riappacificava con Braccio da Montone e per mezzo di questo — il quale desiderava di tornarsene nella sua signoria per estenderla — si riconciliava con la regina da cui riceveva la città di Manfredonia. 
La causa di Luigi d’Angiò pareva perduta quando le sue sorti tornarono a rialzarsi per i mutati rapporti tra la regina Giovanna ed Alfonso d’Aragona. Ben presto i feudi napoletani tornarono in potere di Giovanna. Nel contempo ci furono le guerre di Venezia e Firenze, quelle dei Visconti con il Carmagnola ecc. ecc.
(vedi la lunga cronaca di questi fatti nelle pagine dedicate in Storia d'Italia )
Torniamo al pontefice. Quando Martino fece il suo solenne ingresso a Roma il 29 settembre del 1420, accolto da un giubilo popolare enorme (era da 135 anni che i Romani non vedevano un concittadino papa) trovò la citta in misere condizioni, era in un quadro di decadenza spaventosa. E come Romano si diede molto da fare per la ricostruzione della propria città. Varò un ordinato piano amministrativo che rese Roma nuovamente vivibile; iniziò grandi lavori, ristabilì i magistri viarum (una specie di polizia stradale per debellare sul nascere furti e saccheggi), abbellì e ricostruì chiese e basiliche e frenò la potenza di alcuni signori che si ritenevano padroni di Roma e delle vicine città degli Stati pontifici e superiori alle stesse leggi. Ovviamente per questa sua politica si avvalse dei parenti della sua potente famiglia - i Colonna - che ben presto divennero ancora più potenti e i cui elementi fece unire in matrimonio con altre potenti famiglie dei vari territori pontifici.

Anche Martino V è stato accusato di sfacciato nepotismo, lo stesso Pastor lo ritiene meritevole di biasimo. Ma bisogna anche dire che Martino nel voler restaurare l'autorità e l'ordine, si affidò ai suoi parenti perchè non si fidava di altri, e che quindi questo nepotismo era probabilmente necessario. Tanto più che lui personalmente disdegnò il lusso e lo splendore, "teneva una corte meschina nel palazzo dei SS. Apostoli senza circondarsi di "teatrale magnificenza" (Gregorovius).
Ma non si fermò solo nelle opere esteriori, anche in quelle religiose, Martino V seppe ravvivare il sentimento evangelico. Nel 1423 indisse il quinto giubileo traendo lo spunto che erano passati 33 anni (età di Cristo) da quello precedente del 1390. Questo lo si fece con meno splendore e meno affaristico di quello, grazie anche al predicatore Bernardino da Siena che tenne per ottanta giorni prediche in ogni angolo di Roma che ravvivarono la devozione al culto delle sante reliquie, alla devozione dell'Eucaristia, e mettendo al bando quegli oggetti pagani che facevano venir meno alla fede.
Ci furono nell'occasione anche molto zelo. Narra l'Infessura segretario del Senato che "fu eretto in Campidoglio un immenso rogo di carte da gioco, biglietti del lotto, istrumenti musicali, capegli falsi ed altrettanti ornamenti muliebri".
Mentre si accingeva a quest'opera di un ritorno dell'autorità papale, Martino ebbe comunque degli assalti a questa sua supremazia, che gli vennero soprattutto dal clero francese, privato da antichi diritti di benefici e giurisdizioni. Stava serpeggiando insomma un clima di disobbedienza, ma Martino resistette alle forti pressioni , anche se non ebbe più tempo di reagire con fermezza.
Non dimentichiamo che in questo periodo in Francia vi erano i burrascosi rapporti con l'Inghilterra, e che la stessa terra francese stava rischiando di diventare una provincia inglese. Si salvò dal naufragio grazie all'eroica pastorella di Domremy (Giovanna d'Arco), anche se poi la Francia nei suoi confronti fu ingrata e l'abbandonò nelle mani dei suoi nemici; nè mossero un dito (anzi la rinnegarono) quando questi divennero i suoi carnefici mandandola sul rogo. La "pulzella d'Orleans" si era appellata al pontefice, ma i suoi giudici e i suoi carnefici - insieme - non diedero corso a quell'appello (anche se 24 anni dopo fu poi proclamata martire della fede, della patria e del suo re).
Purtroppo quando Giovanna salì sul rogo (29 maggio 1431), Martino avrebbe potuto fare ben poco per la martire, era sceso nella tomba da oltre due mesi, il 20 febbraio 1431da un attacco aploplettico all'età di 63 anni colpito, dopo 14 anni di pontificato. Ebbe degna sepoltura in S. Giovanni in Laterano, con rimpianto grande e sincero del popolo e del clero romano: Nel suo monumento funebre spicca una epigrafe dettata dall'umanista Antonio Loschi, la quale lo designa "temporum suorum felicitas". Per nulla gratuita ma meritata.
Il Platina scrisse "...singolare sovrano, uomo di acuto intelletto, saggio e risoluto politico, gli è sempre un merito indiscutibile, che dopo tempi di gravissimi scompigli ponesse con mano ferma la base su cui rialzare l'autorità spirituale e civile dei papi; è merito suo aver lasciato, morendo, alla Città Eterna l'antico splendore, allo Stato pontificio la sua grandezza, alla Chiesa l'età d'oro della pace".

Nei mesi precedenti alla sua morte, Martino, si stava preoccupando del Concilio di Basilea che lui stesso aveva indetto per il luglio 1431. Ed infatti poco prima di morire il 1° gennaio 1431 aveva nominato presidente di quell'assemblea il cardinale Cesarini, conferendogli anche il potere di trasferirla ad altra sede se lo avesse ritenuto opportuno per un sereno svolgimento delle sedute.
Questo Concilio in omaggio alle decisioni del concilio di Costanza, e che doveva procedere alla riforma della Chiesa, era stato indetto nel 1423 a Pavia; ma essendo in questa città quell'anno scoppiata la peste, il concilio era stato trasferito a Siena; ma dopo poche ed agitate sedute, avendo visto il Pontefice che da molti prelati si cercava di menomare l'autorità del Capo della Chiesa, il concilio, nel febbraio del 1424, era stato sciolto e ne aveva convocato un altro che doveva esser tenuto a Basilea sette anni dopo. Appunto in quest'anno della morte del pontefice. E che si tenne regolarmente dopo l'elezione del suo successore.
l'elezione di PAPA EUGENIO IV ....

EUGENIO IV, Gabriele Condulmer, di Venezia
(
pontificato 1431-1447 )
Morto Martino V il 20 febbraio 1431, il 1° marzo presenti a Roma 14 cardinali del Sacro Collegio, questi si riunirono in conclave nel convento di S. Maria sopra Minerva.
Prima ancora di fare il nome del successore i cardinali giurarono una singolare convenzione: il papa eletto doveva riformare la Corte romana e non trasferirla fuori Roma senza il consenso cardinalizio; doveva partecipare al Concilio in programma a Basilea per fare la riforma della Chiesa; i feudatari dovevano prestare giuramento di fedeltà non solo al papa, ma anche al Sacro Collegio dei cardinali; infine il neo-papa nello Stato Pontificio non doveva compiere alcun atto importante senza il collegio stesso.
Con questa convenzione si aveva una forte limitazione dell'autorità del papa, il quale non avrebbe potuto prendere alcuna decisione importante.
Concluso questo patto, due giorni dopo, il 3 marzo, i quattordici cardinali votarono un nome: il 48enne Gabriele Condulmer, nato a Venezia nel 1383, uno dei nipoti di Gregorio XII che lo aveva nominato prima vescovo di Siena poi cardinale di S. Clemente. Consacrato l'11 marzo in S. Pietro prese il nome di Papa EUGENIO IV.

Appena salito sul soglio, emanò una bolla: con questa confermava la convenzione giurata dai cardinali prima della sua elezione. Ma quando mise mano al rinnovo della Corte, cominciarono le prime opposizioni, e in prima fila i parenti del papa morto, cioè i Colonna, che pur avendo da anni saccheggiato il tesoro pontificio, volevano conservare i benefici ottenuti dal loro congiunto, e fra questi Castel Sant'Agelo, Ostia e altre terre. Gli si ribellarono ma Eugenio reagì con fermezza e con una bolla del 18 maggio 1431, li scomunicò e li privò di ogni beneficio. Furono così ridotti all'impotenza, ma ovviamento diventarono nemici giurati di questo pontefice.
Quanto al Concilio di Basilea che come data era imminente l'apertura, confermò al cardinale Cesarini la presidenza dello stesso. Il concilio si aprì pochi giorni dopo, il 23 luglio, nella cattedrale di Basilea, ma vi erano così pochi presenti che l'apertura solenne fu fatta solo nel dicembre dello stesso anno.

Si aprì, ma in mezzo ai congressisti vi erano molti rappresentanti di varie sette, e fra questi gli Hussiti per discutere le loro dottrine. Le prime relazioni del Cesarini sull'andamento del concilio furono condensate e riportate al pontefice tramite il canonico di Besanzone Giovanni Beaupere; questi piuttosto zelante fece un quadro fosco del concilio, che Basilea era una città insicura per svolgervi un concilio, e che la presenza degli eretici avrebbe forse rimesso in discussione le decisioni dogmatiche e disciplinari già prese a Costanza.
Eugenio fu molto impressionato da questa relazione e precipitosamente con una bolla indirizzata a tutti i fedeli e al Sacro Collegio dichiarava sciolto il concilio di Basilea e annunciava per dicembre il trasferimento dello stesso a Bologna.
Invece di far tacere il conflitto, Eugenio lo rese più aspro ed acuto con la sua bolla.
I membri del Concilio, per darsi l'aria di ignorare l'esistenza della bolla di scioglimento, si accordarono di non intervenire alla adunanza del 13 gennaio 1432, nella quale si sarebbe data lettura del documento papale. Indi, il 21 dello stesso mese, emanarono una lettera enciclica con la quale annunziarono la ferma risoluzione "di rimanere uniti per compiere con l'ausilio dello Spirito Santo, l'opera al concilio assegnata"». (Bertolini ).Lo stesso presidente Cesarini con una vibrata lettera al pontefice, esponeva i gravi danni che ne sarebbero venuti se scioglieva il concilio, e per essere coerente, per protesta si dimise dalla carica di presidente. L'assemblea senza aspettare la sostituzione dal pontefice, ne nominò un altro e questi inviò un'ambasciata a Roma e lettere a tutta la cristianità per affermare che il Concilio di Basilea avrebbe continuato i suoi lavori per "il bene della Chiesa".

Era un atto di ribellione, ma era del resto coerente a quanto detto a Costanza a proposito di Concili, Infatti nei decreti di Costanza era stato stabilito che l'autorità del concilio deriva direttamente da Cristo e questa autorità era dei cardinali del sacro collegio cardinalizio al quale doveva sottomettersi lo stesso pontefice, e che quindi il concilio il papa non poteva nè scioglierlo nè trasferirlo altrove senza il loro consenso.
Incoraggiati anche dalle varie corti, dalle università parigine, dai principi tedeschi (che confidavano in questa sessione conciliare per annientare i moti delle sette eretiche) e dal clero, e questo fu severo affermando che a Eugenio quella bolla del trasferimento, doveva essere stato il demonio a ispirargliela, e che lui non era stato capace di resistergli.
Altri si spinserò più in là e ricordando sempre i decreti di Costanza, fecero presente che il pontefice non poteva eleggere nuovi cardinali se non pel tramite del concilio.
il 29 aprile del 1432 ingiunse al Pontefice di ritirare la bolla entro sessanta giorni e di comparire di persona, prima che spirasse quel termine, a Basilea se non voleva essere condannato in contumacia.
Tutta l'intera questione stava prendendo una brutta piega, c'era perfino nell'aria una destituzione, e c'era quindi il timore di un nuovo scisma. Forse più disastroso di quello precedente. Intevenne allora Sigismondo, prima cercando di attenuare i contrasti con i ribelli di Basilea, poi l'Imperatore, il quale, desiderava ottenere, come poi ottenne (31 maggio del 1433), l' incoronazione imperiale, si fece spontaneamente mediatore tra Basilea e Roma. Riuscì è vero, a spuntare gli angoli e a spianare la via all'accordo, ma questo fu soltanto possibile quando il Papa, vista minacciata l' integrità dello Stato della Chiesa (in Italia, dagli Sforza e altri) si decise a cedere.
Questo perchè in Italia stavano prendendo una brutta piega i fatti legati agli Sforza. Questi - spalleggiato dai Colonna, nello stesso aprile del 1433, fecero la pace con Venezia e Firenze, per vendicarsi del favore che Eugenio IV aveva accordato e queste due repubbliche.
A questo punto, allora Eugenio IV cedette: il 15 dicembre del 1433 revocò le sue bolle e riconobbe il Concilio; poi si accordò con lo Sforza, gli conferì il titolo di Gonfaloniere della Chiesa e il 25 maggio del 1434 lo nominò  suo vicario della marca di Ancona.  Sperava il pontefice traendo dalla sua parte lo Sforza, di liberarsi dalle molestie del Fortebraccio; ma questi, sebbene sconfitto dall'altro a Mentana, continuò le sue operazioni contro Eugenio IV ed unitosi al Piccinino, anche lui mandato dal Visconti, si fece così minaccioso da indurre Roma alla ribellione.Il 29 maggio del 1434, una deputazione di cittadini si recò in Transtevere, dove il Pontefice si era ritirato, ad annunziargli che il popolo aveva ristabilito il regime repubblicano sotto il governo dei banderesi e ad invitarlo a riconoscere il nuovo stato di cose e rinunziare al potere temporale. Eugenio IV allora non si occupò che della propria salvezza: la notte del 4 giugno, travestito da benedettino e con poca compagnia, raggiunse sopra un mulo Ripagrande, da dove con una barca si rifugiò ad Ostia; poi partì per Civitavecchia e Pisa e viaggiò alla volta di Firenze, dove pervenne venti giorni dopo.
Ma come se non bastasse anche Bologna si era levata con le armi contro il Pontefice ed aveva chiesto aiuto al Visconti che fu sollecito a mandarle un corpo di milizie.
Fuggito il papa, a Roma si scatenò l'anarchia; il governo dei banderesi aveva sì preso il potere ma dimostrò subito di essere impotente a ristabilire l'ordine, anzi era artefice di nuovi disordini e si era reso odioso per le sue violenze, di modo che il popolo, che si era ribellato per ristabilire nella città il regime repubblicano, ora desiderava il ritorno del potere temporale pontificio.
 A questo cambiamento di umore non era estranea l'opera di BALDASSARE di OFFIDA, comandante di Castel Sant'Angelo in nome del Papa. Cinque mesi dopo la fuga del Pontefice, il 26 ottobre del 1434, comparve alla testa di un nerbo di milizia, il vescovo condottiero GIOVANNI VITELLESCHI, che, preso il Campidoglio, restituì nella città l'autorità di Eugenio IV.
L'audace entrata del Vitelleschi a Roma in breve tempo rialzò le sorti del Pontefice; l'azione di Francesco Sforza rialzò quelle dei collegati, La guerra volgeva ormai alla fine. Niccolò d' Este si era fatto intermediario, e nell'agosto del 1435 gli riuscì di pacificare a Ferrara i belligeranti. Bologna ritornò all'obbedienza della Chiesa. EUGENIO IV, lasciata Firenze dopo due anni circa di soggiorno, si stabilì a Bologna (18 aprile del 1436).
Mentre lo Sforza portava le armi nella Marca d'Ancona, il VITELLESCHI a Roma portava le sue contro i baroni della Sabina, del Lazio e della Tuscia per ridurli all'obbedienza della Chiesa.
Nelle mani del vescovo, cadde GIACOMO da VICO, che veniva decapitato a Soriano. Poi toccò toccò al conte ANTONIO SAVELLI, che venne impiccato presso Scantino e il suo castello raso al suolo. E stessa sorte toccò ai Colonna, che furono ridotti all'impotenza: Palestrina, che era la loro rocca, fu presa nell'agosto del 1436 e rasa al suolo.

Grati dell'opera svolta dal Vitelleschi, sia pure con estrema crudeltà, nel debellare i baroni riottosi, il senato e il popolo di Roma, il 12 settembre del 1436, a lui che era stato nominato patriarca d'Alessandria, arcivescovo di Firenze e cardinale, decretarono una statua equestre da erigersi in Campidoglio con la superba epigrafe:  "al terzo padre di Roma da Romolo in poi" .
Rinasceva intanto il conflitto tra il Pontefice e il Concilio di Basilea. Questo, imbaldanzito dal contegno remissivo di Eugenio IV, aveva deliberato riforme che nessun Papa avrebbe potuto accettare, abolendo alcune delle principali rendite della Chiesa e menomando l'autorità del Pontefice. Inoltre, avendo GIOVANNI PALEOLOGO, imperatore di Costantinopoli, nella speranza di essere aiutato contro i Turchi dalla Cristianità occidentale, chiesto che si  iniziassero negoziati per l'unione della Chiesa greca alla latina, i padri raccolti a Basilea proposero ai deputati greci come sede dei negoziati o Basilea stessa o Avignone.Queste due città erano troppo lontane per i legati che venivano dall'Oriente e che chiedevano invece una città italiana. Il Pontefice, che voleva far sentire la sua autorità al Concilio, colse l'occasione del desiderio espresso dai greci e il 18 settembre del 1437 fissò come sede del Concilio Ferrara ed ordinò ai padri raccolti a Basilea di trasferirsi in questa città entro un mese.
 Il Concilio rispose minacciando la sospensione e perfino la deposizione del Pontefice; ma i padri più prudenti, non volendo assumersi la responsabilità d'un nuovo scisma proprio nel momento in cui un altro scisma vecchio di tanti secoli stava per risolversi, andarono a Ferrara, e fra questi il presidente ch'era il cardinale GIULIANO CESARINI.
 A Basilea rimasero gli intransigenti che al posto del Cesarini elessero presidente il cardinale LUIGI d'ALEMAN, arcivescovo d'Arles,  che citò il Pontefice a comparire davanti a quell'assemblea, e a nome di questa lo dichiarò sospeso dalle sue funzioni.
Il 9 dicembre del 1437 moriva l'Imperatore Sigismondo e un mese dopo, l'8 gennaio del 1438, il cardinale Albergati apriva il concilio di Ferrara in nome del Papa. Questi venne a presiederlo il 27 dello stesso mese e il 4 di marzo vi ricevette l' Imperatore di Costantinopoli, che, venuto in Italia su navi veneziane con un seguito numeroso di prelati e di dotti, tra cui l'arcivescovo di Nicea Bessarione e il filosofo Gemisto Pletone, entrò a Ferrara con grandissima pompa su un cavallo bardato di porpora e sotto un baldacchino azzurro portato dai signori della città.Il concilio ferrarese aveva cominciato i suoi lavori annullando le ultime deliberazioni di Basilea; l' 8 di ottobre cominciò la discussione per l'unione delle due chiese. Ma non a Ferrara si doveva porre termine al grande scisma. Era scoppiata la guerra tra il Visconti e le due repubbliche alleate di Firenze e Venezia. (vedi nei dettagli le pagine in Storia d'Italia).Eugenio IV, non sentendosi più sicuro a Ferrara, accettò l' invito di Cosimo de' Medici e, traendo pretesto dalla peste che era scoppiata nella città degli Estensi, il 10 gennaio del 1439 trasferì il Concilio a Firenze. Qui continuarono le sedute per l'unione delle due chiese e il 6 luglio di quell'anno, nella venticinquesima sessione, fu proclamata nella chiesa di Santa Maria del Fiore l'"unione",  e il Pontefice riconosciuto come capo della Chiesa universale. Eugenio IV promise ai Greci una flotta, un esercito e tutti gli altri aiuti necessari e difendere Costantinopoli se assalita dai Turchi; intanto dai Medici, banchieri papali fece pagare alla guardia dell' Imperatore un acconto la somma di dodicimila fiorini. Ma mentre si proclamava la fine dello scisma d'Oriente e l'unione delle due chiese che doveva durare fino al 1443, un altro scisma si preparava. Il Concilio di Basilea il 26 giugno del 1439 dichiarava deposto EUGENIO IV e il 5 novembre di quel medesimo anno eleggeva papa il duca AMEDEO VIII di SAVOIA.
Questo principe, era noto per l'attività e la saggezza politica; nel 1416 aveva assunto il titolo di duca conferitogli dall' imperatore Sigismondo; aveva dato stabile assetto all'università di Torino; nel 1418 aveva unito ai suoi domini la contea del Piemonte essendosi estinto con la morte di Ludovico il ramo maschile legittimo dei principi d' Acaia; nel 1422 aveva ricevuto l' investitura imperiale del Genovese; nell'agosto del 1434 aveva promulgato per tutti i suoi stati un codice di leggi (Statuta Sabaudiae); infine lasciato il disbrigo degli affari di governo al figlio Ludovico, si era, il 16 ottobre di questo anno, in compagnia di sei gentiluomini, vedovi come lui, ritirato nell'eremo di Ripaglia sul lago di Ginevra, da lui fondato quattro anni prima, dove aveva istituito l'ordine equestre di San Maurizio.
Amedeo, ch'era un fervente fautore della riforma della Chiesa e più volte aveva tentato di mettere pace tra il Pontefice e il Concilio di Basilea, prima di pronunciarsi convocò a Ginevra l' 8 dicembre gli Stati Generali e, ottenuto l'assenso del clero, dei nobili e dei comuni dei suoi domini, abdicò al trono in favore del figlio ed accettò la tiara, assumendo il 5 gennaio del 1440 il nome di papa FELICE V.« Ma anch'egli - scrive il Bertolini - dovette dividere il disinganno che subì il Concilio. Francia e Germania, che avevano fino allora parteggiato per il Concilio, continuarono a riconoscerne i decreti, ma non riconobbero l'antipapa, con il quale vedevano risuscitarsi lo scisma d'occidente di triste memoria".
All'improvviso ci fu un mutamento di scena. Alfonso d'Aragona che aveva appoggiato e lusingato in concilio di Basilea, divenuto re, comprese che il suo interesse era più dalla parte Eugenio che non da quella dell' antipapa. Non minore interesse aveva il Eugenio di accordarsi con Alfonso, che era il sovrano più potente d'Italia, e la cui inimicizia avrebbe certamente fatto ostacolo a un suo ritorno a Roma. Stando dunque così le cose, fu facile ad entrambi -  nel reciproco interesse- di arrivare a un accordo.
Alfonso deputò a suo plenipotenziario il vescovo di Valenza ALONSO BORGIA; il Papa, da, parte sua, delegò lo SCARAMPO; e l'uno e l'altro siglarono il 14 giugno 1443 il trattato di Terracina, che il Papa poi ratificò a Siena (6 luglio). Con questo, Alfonso si obbligava a riconoscere Eugenio IV come Papa legittimo, ad allestire un naviglio da mandare contro i Turchi, e a prestare un corpo di cinquemila soldati per cacciare Francesco Sforza dalla Marca di Ancona. 
E il Papa, dal canto suo, riconosceva Alfonso re di Napoli, e gli conferiva la investitura de' feudi pontifici di Benevento e Terracina. Un'aggiunta recata nel successivo anno al trattato (15 luglio  1444) portava il riconoscimento di FERRANTE figlio naturale di Alfonso a suo erede al trono. 
La concessione del re Alfonso ad Eugenio IV portò con sé quella del duca Filippo Maria Visconti.
Abbiamo nominato lo SCARAMPO. Il Vitelleschi, accusato dai suoi numerosi nemici di volere impadronirsi dello stato pontificio e avere delle intese col Piccinino e il Visconti, era stato il 19 marzo del 1440 davanti a Castel Sant'Angelo ferito ed arrestato ed era morto il 2 aprile non si sa bene se di veleno o in seguito alle ferite. Il potere tenuto a Roma dal Vitelleschi era stato dato dal Pontefice al patriarca d'Aquileia, Ludovico Scarampo, che nel giugno del 1440 aveva sconfitto il Piccinino ad Anghiari e restituita la sicurezza al territorio romano.Ma, come il Vitelleschi, lo Scarampo era feroce e prepotente con Romani, che ormai da dieci anni circa vivevano senza il Papa e ne desideravano il ritorno sperando in un po' di pace e meno prepotenza. EUGENIO IV a Roma vi fece il suo solenne ingresso il 28 settembre del 1443 e si rese subito molto simpatico al popolo togliendo la tassa sul vino che il governatore pontificio aveva imposto. A Roma da Firenze si trasferì pure il concilio e qui riconfermò le bolle che il Papa aveva emanate contro l'antipapa (Felice V - Amedeo di Savoia) e i padri di Basilea.
Fra gli artefici della riconciliazione dell'imperatore con il papa, c'era sia a Basilea poi a Siena un giovane prelato, e che era prima ostile a Eugenio IV: Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II nel 1458.

Se a Roma era tornata la pace, tutto il resto d'Italia era in armi, a Milano come a Venezia, a Torino come a Firenze....
ma le dettagliate cronache guerresche le riportiamo nelle pagine in Storia d'Italia.
Poco prima di terminare il suo mandato terreno, Eugenio era amareggiato della neutralità della Germania e con Federico III d'Asburgo, nuoceva al suo prestigio, ma alla fine con intense trattative diplomatiche (al cui servizio fin dal 1442 era passato Enea Piccolomini) era riuscito a concludere un concordato con i principi tedeschi, che fu firmato a Roma il 7 febbraio 1447, mentre era già a letto per la malattia che doveva condurlo al sepolcro.Infatti, pochi giorni dopo, il 23 febbraio 1447, Eugenio moriva.

Enea Picolomini (futuro papa Pio II) pur schierato inizialmente contro Eugenio scrisse poi di lui "Fu un papa grande e glorioso; disprezzò il denaro, amò la virtù; nella prospera fortuna non fu orgoglioso, nell'avversa non si perse d'animo; non conobbe la paura; il suo animo tranquillo si rifletteva nel suo volto sempre uguale".
Era un uomo di modesta cultura, ciononostante si circondò di valenti letterati, aprì Roma all'Umanesimo, nel restauro delle chiese chiamò accanto a sè valenti artisti come il Donatello, l'Angelico, Pisanello, e proprio al Filarete (prima arte rinascimentale in Roma) affidò la scultura delle porte di bronzo della costruenda Basilica San Pietro, che sono ispirate proprio al Concilio di Firenze (un Concilio il suo, che ebbe - non era mai accaduto - tre sedi a Ferrara, Siena e Roma).l'elezione di PAPA NICCOLO' V ....

NICCOLO' V, Tommaso Parentucelli, di Sarzana
(
pontificato 1447-1455 )
Morto papa Eugenio IV il 23 febbraio 1447, i cardinali presenti a Roma del Sacro Collegio si riunirono il 4 marzo a conclave per eleggere il nuovo pontefice, nel convento dei Domenicani di Santa Maria sopra Minerva, dove era stato il precedente.
I cardinali erano 18, e già al primo scrutino 10 voti erano andati al cardinale Prospero Colonna, e 8 al cardinale Domenico Capranica. I due rappresentanti erano oltre che i più potenti di Roma i più in vista della riunione, e la votazione aveva seguito questo indirizzo, non altre qualità specifiche.
Alcuni cardinali fecero alcune considerazioni: la prima era quella di sbrigarsi ad eleggere un papa, e la seconda era un po' legata alla situazione politica-militare ancora caotica. Infatti il cardinale Le Juni, un po' infastidito che alla seconda votazione tre voti erano andati al cardinale Parentuncelli (come dire dispersi) un po' infastidito si alzò per dire "Sbrighiamoci ad eleggere un papa; la città è perturbata; il re Alfonso d'Aragona si trova quasi alle porte di Roma; il duca di Savoia (l'antipapa Felice V) cospira contro di noi; lo Sforza è nostro nemico..." e proseguì dicendo "...Dio ci ha dato una persona eccellente, il cardinale Colonna, e gli mancano solo due voti. Sgrighiamoci, perchè ancora indugiare ? !!!".
Con un fare altruista, Parentuncelli (lui che aveva preso tre voti) alla successiva votazione si stava alzando per andare a dare il suo voto al Colonna.

A quel punto, si fece sentire il cardinale di Taranto: "Calma, ci vuole calma e riflessione, qui non dobbiamo eleggere un condottiero o un governatore, ma un rappresentante della Chiesa universale. Quindi non precipitiamo". Gli elettori del Colonna si adirarono, accusandolo che quella presa di posizione era motivata dal fatto che forse lui non gradiva il Colonna. Gli chiesero allora che facesse lui un nome, e quello senza esitazione indicò il Tommaso Parentuncelli, arcivescovo di Bologna, che da appena tre mesi era stato eletto cardinale. Aveva solo 49 anni.
La sorpresa fu che alla successiva conta, la sua elezione fu unanime. Fuori i Romani, avendo sentito che il Colonna era il favorito, e qualcuno aveva riferito perfino che era stato eletto, come di solito i romani erano abituati a fare, si precipitarono subito alla casa dei Colonna per ricevere i donativi, ma spesso erano veri e propri saccheggi nell'abitazione di oggetti vari che al neo eletto non servivano più.
Resisi conto dell'errore, saputo l'altro nome, vollero fare il bis assaltando la casa del neo-pontefice. Ma questi non era un Colonna, ricchi appartamenti non li possedeva e tantomeno dentro vi erano oggetti di valore, quindi il bottino fu piuttosto scarso, Parentuncelli - amante degli studi, appassionato bibliofilo- aveva in casa solo libri, e questi ai romani interessavano molto poco.
Asceso al pontificato Niccolò riuscì a dedicarsi con più impegno quello che era stato sempre il suo sogno: raccogliere libri, costruire magnifici edifici per farne biblioteche o dare impulso alle arti e alle lettere. Parecchi anni prima per incarico di Cosimo de' Medici aveva ordinato a Firenze la biblioteca di Niccolò Niccoli. Mentre anni dopo - non badando a spese - fu lui a dare inizio alla Biblioteca Vaticana.
I maggiori umanisti del tempo affluirono alla sua corte, quali il POGGIO, il VALLA, il MANETT, il DECEMBRIO, il GILELFO; si circondò di amanuensi e di traduttori, fece cercare manoscritti in Italia e fuori, raccogliendo una biblioteca di circa cinquemila volumi; fece costruire o restaurare mura, chiese ed altri edifici non solo in Roma, ma ad Assisi, a Civitavecchia, a Civitacastellana e in altre città, e molto di più avrebbe fatto se meno breve fosse stata la sua vita (57 anni) e il suo pontificato (8anni).
Il neo-pontefice fu poi consacrato il 19 marzo, e prese il nome di NICCOLO' V.
Uno dei cardinali del conclave, il portoghese Martino di Chavez, entusiasta per la scelta, volle aggiungere che "...non i cardinali lo avevano eletto ma Dio in persona". A parte che in un conclave la protezione divina è scontata, in effetti Niccolò iniziò un pontificato sotto una buona stella. Tre mesi dopo la sua elezione - il 15 luglio 1447 - moriva Filippo Maria Visconti il nemico più pericoloso dello Stato Pontificio e l'uomo che aveva tenuto in armi buona parte dell'Italia; Bologna la ribelle, forse anche per far omaggio al suo vescovo ora diventato papa, spontaneamente tornava all'obbedienza; in quanto allo scisma della Chiesa e dell'antipapa, questo ebbe una fine curiosa. Venticinque mesi dopo l'elezione di NICOLÒ V, l'antipapa FELICE V (Amedeo di Savoia) rinunziò alla tiara nelle mani del concilio a Losanna e questo, fingendosi d'ignorare che sul soglio pontificio lui sedeva da due anni, il 19 aprile del 1449 elesse lo stesso Niccolò V.
Un anno prima - il 17 febbraio 1448 a Vienna, era stato firmato anche un concordato con l'imperatore Federico III, ratificato da Niccolò il 17 del mese successivo. Tale concordato regolò per alcuni secoli la materia ecclesiastica negli Stati tedeschi. Per solennizzare la pace felicemente conseguita con gli Stati e cementare l'unione interna della Chiesa, Niccolò annunciò il 4 gennaio 1449 la concessione del giubileo per l'anno seguente. Malgrado in quell'anno infuriasse la peste, considerevole fu il concorso dei pellegrini e rilevanti furono pure i guadagni dei Romani e della Chiesa. I cronisti e i testimoni oculari del tempo ne parlano con ammirazione; dicono essere stato superiore a quello indetto da Bonifacio VIII come numero di pellegrini e per le offerte. Se dobbiamo credere a Vespasiano da Bisticci, il Pontefice depositò nella banca dei Medici ben centomila fiorini. Enea Silvio Piccolomini assicura che giornalmente entravano in Roma ben 40.000 persone.
In questa grande ressa, si registrò un gravissimo incidente: mentre due grandi file di folla s'incrociava a Ponte S. Angelo, per l'improvviso impennarsi di alcuni cavalli, si scatenò il terrore e con un fuggi fuggi generale irrazionale, chi ci riusciva a spintoni calpestava chi si attardava, i deboli, i malati, i bambini.
Quando tornò la calma in terra c'erano 170 cadaveri, poi raccolti e deposti nella vicina chiesa di S. Celso. Niccolò fu così rattristato che si ammalò pure.

Purtroppo questi lutti non furono i soli nel corso dell'Anno Santo. All'inizio del 1450, da alcuni mesi in Italia serpeggiava la peste, e chi si era messo in viaggio per Roma perchè scampato o per ricevere la grazia dell'immunità, giunti negli afosi caldi estivi a Roma, o perchè erano loro stessi ignari portatori con la malattia in incubazione e la trasmisero agli altri, o perchè la presero da altri, o perchè si nutrivano e bevevano ciò che trovavano, l'epidemia nella città scoppiò violenta. Si moriva ovunque, gli ospedali erano piene e le chiese che avrebbero dovuto ospitare i pellegrini, si riempirono di ammalati.
Da Roma fuggirono non solo i pellegrini, ma anche cardinali, vescovi, abati, monaci. Lo stesso papa abbandonò la città, rifugiandosi ora in un luogo ora in un altro. Nel castello detto di Fabriano trovò nessun malato, e proprio per questo fu proibito sotto pena di scomunica chiunque si portasse "pubblicamente o segretamente" a Fabriano.

La paura del contagio interruppe l'affluenza dei pellegrini, che col viaggio a Roma aspiravano all'indulgenza. Per non compromettere gli enormi interessi finanziari di questa grande festa giubilare, tornò in auge l'indulgenza per procura. Vennero concessi con speciali bolle a numerosi principi l'incasso delle indulgenze, cosicchè i pellegrini senza intraprendere il pellegrinaggio, versavano un obolo (che normalmente corrispondeva al denaro di circa la metà del prezzo del viaggio a Roma) e si guadagnavano standosene a casa l'indulgenza plenaria.
Quandò tutto questo finì, con gli oboli e le indulgense, le casse erano piene, e questo denaro servì egregiamente per rinforzare la struttura del potere temporale del pontefice e dei suoi vicari. Ad alcuni tutto ciò non piacque, dicendo che non era quello l'ideale cristiano dell'istituzione papale, anzi questo ideale veniva tradito. Gregoriovus è piuttosto esplicito "Niccolò agli occhi degli apostoli commetteva un errore scambiando il papato con la Chiesa e le cose di Stato ecclesiastico con quelle della repubblica di Cristo". C'erano insomma dei malumori ma anche voci inquietanti.
Niccolò V era ben lontano dal sospettare che qualcuno potesse tramare contro di lui. Eppure c'era chi, desideroso di ridare a Roma la libertà, non esitava, pur di raggiungere questo scopo, a meditare di sopprimere il Pontefice. Era costui un gentiluomo romano che rispondeva al nome di STEFANO PORCARI. Si era fatto notare per le sue idee rivoluzionarie ancora prima del 1447 con l'eccitare il consiglio della città, riunito nella Chiesa di Aracoeli, ad abbattere l'autorità temporale, approfittando degli interregni. Poi eletto il Pontefice, aveva continuato nella sua agitazione rivoluzionaria tanto che Niccolò V aveva dovuto confinarlo a Bologna con l'ordine di presentarsi ogni giorno al cardinale Bessarione, che era allora il governatore di quella città.

Ma anche da Bologna il Porcari continuò a tramar con i suoi amici di Roma e quando gli parve che tutto fosse pronto, fatto sapere al Bessarione che non poteva per malattia presentarsi a lui, fuggì travestito a cavallo e dopo quattro giorni di viaggio giunse a Roma il 2 gennaio del 1453. 
Il colpo destinato a dar la libertà ai Romani doveva esser tentato il giorno dell' Epifania. Quattrocento erano i congiurati, di cui erano capi due nipoti e un cognato del Porcari. Il giorno stabilito, dovevano appiccare il fuoco al Vaticano e, approfittando dello scompiglio che ne sarebbe nato, arrestare i Cardinali e il Pontefice, uccidere quest'ultimo se occorreva e chiamare al suono delle campane il popolo alle armi.

La vigilia dell' Epifania però la congiura venne scoperta. Avvisato della fuga del Porcari dal Cardinale Bessarione, il Pontefice aveva ordinato che si ricercasse l'agitatore. Con tante persone che erano a parte della congiura qualcosa era trapelato, non fu quindi difficile sapere il luogo dove i caporioni erano soliti a riunirsi. Un forte reparto di milizie circondò la casa dov'era radunato buon numero di congiurati; questi opposero una accanita resistenza, ma alla fine dovettero arrendersi; il Porcari, che era riuscito a fuggire, fu trovato poi nella casa di sua sorella, nascosto in un cofano, arrestato e condotto in prigione, fece piena confessione della congiura. Il 9 gennaio, insieme con altri congiurati, venne impiccato ai merli di Castel S. Angelo. Il papa fu accusato di crudeltà e di essere fedifrago, perchè aveva promesso si suoi nemici la prigione e non la pena di morte. Ma si disse che quando gli fu sottoposta l'atto di grazia, era ubriaco e non fu in grado di firmara l'atto di clemenza. Questa congiura, che si trascinò dietro parecchie esecuzioni, ma anche molti libelli per Roma considerate le prime "pasquinate", rattristò molto il Pontefice, il quale divenne diffidente e sospettoso e di umore tetro. Cinque mesi dopo un altro e più grave dolore colpiva Niccolò V: la notizia della caduta di Costantinopoli, e questo dolore veniva aggravato dal fatto che la Cristianità si mostrava freddissima all'idea di una crociata e la stessa Venezia stipulava un trattato di pace con il Turco (18 aprile 1454).
Addolorato dagli avvenimenti d'Oriente e da quelli di Roma,  Niccolò V non si rimise più in salute. Tuttavia u
na consolazione la ebbe quando si giunse alla pace di Lodi (una pace che diede un quarantennio di pace all'Italia).
Il 2 marzo 1455, Niccolò con questa pace poteva annunciare la formazione di una grande lega offensiva e difensiva fra gli Stati Pontifici, Napoli, Firenze, Venezia e Milano.
Tre settimane dopo - il 24 marzo 1455 - Gregorio moriva. Qualcuno dice di gotta perchè gli piaceva mangiare molto, altri dicono di cirrosi epatica perchè anche nel bere non era per nulla moderato.
Una "pasquinata" ( riferendosi alla mancata clemenza ai congiurati) impietosamente diceva: "Da quando è Niccolò papa e assassino / Abbonda a Roma il sangue e scarso è il vino".
Questo e altri giudizi poco positivi, erano forse dettati da rancori, erano insomma le voci dei nemici. Mentre nei giudizi positivi, quel che è certo è che nel suo breve pontificato (8 anni) Niccolò lascio il segno. Come primo papa rinascimentista - come abbiamo già accennato all'inizio - i maggiori umanisti del tempo affluirono alla sua corte, e così i maggiori artisti. Nell'accoglierli Niccolò non solo faceva del grande mecenatismo, ma li trattava come veri signori, ed erano questi incontri degli ambiti ritrovi mondani, che qualcuno paragonò a quelli sfarzosi di Avignone. Ed erano spesso anche delle riunioni conviviali, dove si mangiava e si beveva; forse un po' troppo (come diceva la "pasquinata") Come il precedente papa (il Colonna che però era un illustre romano) anche lui non badò a spese per il rinnovamento della città oltre che promuoverne una riedificazione. A parte la ricostruzione delle mura, le fortificazioni di Castel Sant'Angelo e altri notevoli lavori, quello che ebbe un notevole punto di partenza, fu il Vaticano e la nuova Basilica di San Pietro. Fra un convivio e l'altro, Leon Battista Alberti gli presentò un ambizioso grande progetto, e altrettanto gigantesche erano le opere da costruire. Niccolò, preso dall'entusiasmo, il progetto lo approvò integralmente, forse nemmeno rendendosi conto che stava firmando delle opere che avrebbero sfidato il tempo e ridato lustro a Roma.

Questi grandi lavori rimasero allo stato iniziale per la sopravvenuta morte del pontefice, e solo in seguito furono ripresi. Tuttavia negli altri grandi lavori architettonici portati a termine Niccolò si era impegnato molto, anche se per realizzarli spogliò i più antichi monumenti romani. Proverbiale la frase "Niccolò, spogliava un'altare per rivestirne un altro". Fu infatti lui a far "spogliare" di bellissimi marmi e di travertino, il Colosseo prima, e il Circo Massimo poi.
Il Rinascimento architettonico creò così grandi danni, ma ci ha lasciato anche grandi tesori.

Quando il 24 marzo 1455 Gregorio morì, dopo 8 anni di pontificato, aveva solo 57 anni; per le sue grandi doti di umanista fu rimpianto dai grandi dotti di cui era diventato amico (quali il Poggio, il Valla, il Marsilio Ficino, il Manenti, l'Aurispa) e dai grandi artisti (quali il già nominato Alberti, poi il Beato Angelico, Piero della Francesca, Andrea del Castagno, Benozzo Gozzoli e altri).
Enea Silvio Piccolomini (futuro papa Pio II) ci ha lasciato di Niccolò un eloquente epitaffio, che inizia col dire "Questo papa ha fatto rinascere in Roma l'età aurea".

La successiva fu invece un età piuttosto triste, con un papa che non lasciò rimpianti; purtroppo lasciò dei nipoti, che in seguito conosceremo molto bene.
l'elezione di PAPA CALLISTO III ....

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