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anni 1 - 222
222 - 336
336 - 432
432 - 530
530 - 606
607 - 640
640 -752
752-816
816-882
882-928
928-999
999-1048
1048-1119
1119-1292
1294-1455
1455-1691
1691-1831
1831- 2005

ANNI DAL 1455 al 1691

CALLISTO III, Alonso de Borja, spagnolo
(pontificato 1455-1458)
Morto Niccolò il 24 marzo 1455, per dargli un successore i cardinali presenti al conclave di Roma dei 20 esistenti nel Sacro Collegio, solo 15 erano presenti. Fra questi, 7 italiani erano dei soliti due partiti romani - i Colonna e gli Orsini - schierati irriducibilmente uno contro l'altro. Degli altri 8, 4 erano spagnoli, che con qualche altro voto straniero, dai contrasti degli italiani trassero vantaggio e riuscirono ad eleggere uno di loro.

L'8 aprila 1455, fu accalamto il cardinale Alonso de Borja (italianizzato in Borgia).
Consacrato il 20 aprile, prese il nome di CALLISTO III.
Aveva quasi 80 anni, nativo di Jativa, in Valencia, canonico presso (l'antipapa) Benedetto XIII, fu riconosciuto poi da Martino V, che lo nominò vescovo di Valencia. Aveva anche trascorso un periodo in Italia, a Napoli, alla corte di Alfonso V, ma essendo questi troppo anticlericale se ne allontanò e papa Eugenio IV lo aveva eletto cardinale.
Non aveva di sicuro le tendenze del precedente papa; non aveva nessun interesse per il libri, per la policica culturale, nè gli interessavano gli artisti. Cosicchè tutta l'opera iniziata dai due papi umanisti, prima quella di Eugenio IV, poi quella di Niccolò V, non ebbe un seguito. Le opere edilizie non proseguirono, e nella preziosa biblioteca vaticana per qualche tempo vi fu regina la muffa e la polvere.

Callisto nonostante i suoi ottantanni, era un uomo d'azione, quello che a lui interessava era l'ordine pubblico. Ma non lo attuò questo programma con dei funzionari di vecchia data, con buona esperienza, ma iniziò a dare alcune cariche ai tanti nipoti; e se prima il nepotismo con Martino V era stato enorme, con Callisto III il nepotismo raggiunse spudoratamente i massimi vertici, e morto lui ebbe poi per anni un indecoroso seguito.
Callisto come spagnolo nutriva un odio implacabile contro gli infedeli; non pensò quindi ad altro che ad una crociata contro i Turchi.
Callisto ventilava un piano grandioso: assalire i turchi per terra e per mare; il comando supremo della spedizione terrestre voleva affidarlo al principe Filippo di Borgogna; per la flotta pensava all'amico Alfonso V di Napoli. Purtroppo le aspettative furono deluse. Predicava al deserto.

Il Pontefice non si vide assecondato da nessuno: Venezia non voleva rompere la pace conclusa due anni prima col sultano, Francesco Sforza badava a consolidare la sua signoria in Lombardia, Firenze non si muoveva forse non proprio scontenta dei progressi dei Turchi così dannosi alla potenza veneziana; e così il Turco, sebbene vinto da Giovanni Uniade sotto Belgrado e da Giorgio Scanderberg in Albania, potè occupare alcune isole egee, Sinape, Trebisonda, Focea ed altri possessi di feudatari veneziani e genovesi ed occupare Patrasso, Corinto ed Atene.
Vi è da dire che il Pontefice contava specialmente sull'opera di Alfonso d'Aragona. Questi invece aiutava il Piccinino contro i Senesi (1455-56); procurava fastidi e nemici a Sigismondo Malatesta di Rimini e infine - tradendo - con la flotta che era stata allestita coi danari della Chiesa e di cui era comandante l'Urrea, muoveva guerra a Genova che doveva esser da lui costretta a darsi al re di Francia. Il contegno di Alfonso indispettì il Pontefice, ma la sua collera fu di breve durata, perchè l'Aragonese poco dopo morì. La vendetta venne postuma.
Ferdinando (figlio di Alfonso da lui avuto dalla bella cognata Caterina) assunse il titolo di re di Napoli, ma il Pontefice si rifiutò di riconoscerlo e con bolla del 12 luglio 1458 dichiarò devoluto alla Santa Sede il reame per estinzione della linea legittima. Fortunatamente per Ferdinando, il Pontefice morì il 6 agosto di quel medesimo anno e il suo successore papa  PIO II (Piccolomini) confermò il figlio d'Alfonso sovrano di Napoli, lo fece incoronare nell'ottobre dal cardinale Latino Orsini e strinse con lui perfino una parentela facendo sposare a suo nipote Antonio la figlia del re, Maria.
Quanto alla crociata Callisto si mise a far da sè; aveva superato da un pezzo gli ottanta anni, ma sprigionava una energia sovrumana. Si mise ad allestire una flotta sulle acque del Tevere, facendo arrivare carpentieri da ogni parte. Non badò a spese, e quando l'erario fu vuoto, si mise a vendere i tesori pontifici, liberandosi di ogni oggetto superfluo, comprese le stoviglie " a me bastano i piatti di coccio".
Si lavorò febbrilmente per tutto l'autunno- inverno del 1455, e la primavera del 1456. Il 1° giugno le navi scesero sul Tevere e presero il mare al comando del bellicoso ammiraglio Cardinale Ludovico Scarampi Mezzarota, patriarca d'Aquileia, il quale riusci a portare aiuti ai cavalieri dell'isola di Rodi.
Contemporaneamente l'esercito via terra al comando di Giovanni Huniade, appoggiato da una schiera di crociati trascinati e incoraggiati dallo zelo di frate Giovanni di Capistrano (un emulo di Pietro l'Eremita dei tempi delle Crociate) accorreva a liberare il 22 luglio 1456 la città di Belgrado che Maometto difendeva con 150.000 soldati. L'esercito turco tagliato a pezzi, si disperse quando lo stesso Maometto fu ferito da una freccia e di conseguenza ordinò la ritirata. Era il 6 agosto 1456.
Quando giunse a Roma la notizia che l'invincibiltà dei turchi era stata infranta a Belgrado, il pontefice nell'esaltazione, istituì feste di ringraziamento di ogni genere, per celebrare le armi turche sconfitte. Istituì nell'occasione anche la festa della Trasfigurazione di Cristo per ricordare il fausto giorno. Ma dall'esaltazione si passo poi alla trepidazione. C'era ancora molto da fare per sconfiggere i Musulmani nella penisola balcanica,

Le speranze erano tante; Belgrado era solo la prima tappa; bisognava marciare poi su Costantinopoli e da qui a Gerusalemme. Ma l'impresa non era così semplice. Occorrevano aiuti, uomini, navi, armi, condottieri; ma i principi europei nicchiavano, l'imperatore dormiva. " Ah, cuori di sasso ! La nostra flotta corre già verso Costantinopoli e l'imperatore dorme!" questo di Callisto era un generico breve, ma poi si rivolse direttamente all'imperatore, svergogandolo, perchè non favoriva le collette per la guerra santa, nè andava a soccorrere in Albania Skanderberg.

A Belgrado la vittoria c'era stata, ma nel caldo afoso dell'agosto, nella moltitudine di gente fra i cadaveri e la scarsa alimentazione, scoppiò la peste; lo stesso comandante Huniade l'11 agosto moriva. Due mesi dopo lo seguiva nella tomba l'indomito frate Giovanni di Capistrano.

Si riaprirono le speranze quando portando aiuti al Castriota in Albania, la flotta turca fu quasi annientata a Metilino nella successiva estate 1457 dalla flotta pontificia guidata da Scarampo. Ci fu un'altra esaltazione a Roma e Callisto euforico fece perfino coniare una sua medaglia con la scritta "Fui eletto per l'annientamento dei Musulmani". - Ma putroppo non era così, i Turchi stavano mettendo a soqquadro la Morea e dilagando più di prima in Africa.

Callisto rinnovò i tentativi di trascinare i principi cristiani nella lotta in Oriente, e propose anche un congresso a Roma -da tenersi nell'agosto 1458 - tra le potenze europee. Ma come in precedenza, sia prima, sia all'avvicinarsi di quella data, le adesioni furono non solo poche, ma quasi nessuna.
Inoltre il congresso andò a monte per la morte del suo stesso promotore. Callisto infatti moriva il 6 agosto, nel giorno della festa della Trasfigurazione, cioè nell'anniversario della conquista di Belgrado da lui stesso istituita.
Se Maometto aveva un nemico in meno, anche a Roma qualcuno fece festa. Fece la "festa" ai diversi personaggi che Callisto aveva favorito; i tanti parenti Catalani di cui il pontefice spagnolo aveva riempito la corte pontifica. E i parenti a lor volta chiamarono altri parenti e connazionali. E tutti si erano a Roma e dintorni arricchiti oltre il giusto, dentro quella corte quasi pretoriana che Callisto aveva creato, nominandoli segretari di ogni cosa, notai, protonotari, chierici di camera, conferendo la dignità a semplici operai, a un gran numero di ignoranti, oltre che a indegni personaggi.
Callisto aveva appena chiuso gli occhi che già a Roma si era scatenato l'inferno. Il popolo andò all'assalto delle case dei parenti arricchiti; che svaligiarono, arrestarono i proprietari e alcuni per difendersi dal saccheggio rimasero perfino uccisi.

Ma molti, moltissimi rimasero e fecero riempire molte pagine della storia nei successivi anni. Soprattutto il nipote Rodrigo (creato a 25 anni cardinale) e che vedremo cingere la tiara con nome di Alessandro VI.
L'altro nipote, Pedro Luis, fratello di Rodrigo, pur rimanendo laico, tramite lo zio aveva raggiunto le più alte cariche dello stato pontificio: capitano generale di Santa Chiesa, prefetto di Roma. Era perfino diventato proprietario di Castel San'Angelo e di altre fortezze. Quando anche lui seppe della morte dello zio, nella stessa notte vendette per 20.000 ducati Sant'Angelo e temendo quello che in effetti successe, fuggì da Roma riparando a Civitavecchia, ma qui ebbe vita breve, morì dopo aver contratto la malaria.
Questo Pontefice - scrive l'Orsi - « avrebbe lasciato buona memoria di sé, se per il grande affetto che portava per i suoi nipoti e per il desiderio di avere con essi un valido appoggio, non si fosse lasciato trascinare nell'accordare a loro troppi straordinari favori.  Con lui quindi - con il Borgia- il Nepotismo piantò salde radici nella corte di Roma. Purtroppo i nipoti di Callisto III furono anche indegni dei sui favori, ed uno di questi nipoti acquistò poi una ben triste celebrità, RODRIGO LANZOL o (come si diceva in Italia) Lenzuoli, al quale lo zio gli conferì per adozione il proprio cognome di Borgia e gli concesse il cappello cardinalizio appena arrivò ai 25 anni d'età ». (Orsi)
Ritornando a Callisto, anche per i cardinali del Sacro Collegio che dovevano riunirsi in conclave, erano in apprensione per quel nepotismo che aveva in mano tutta Roma; prima ancora che Callisto esalasse l'ultimo respiro, già avevano preso alcuni accordi che poi nel conclave presero corpo. Il più importante era quello della riforma della Curia, il conferimento di diocesi e abbazie, il rafforzamento di alcuni membri del Sacro Collegio, e la nomina di nuovi cardinali. A sfogare tutto il loro odio contro gli invadenti Catalani furono in prima fila gli Orsini. Non fu insomma un conclave tranquillo. Ma poi la scelta fu oculata; il 16 agosto eleggevano il successore di Callisto.
elezione di PAPA PIO II ....

PIO II, Enea Silvio Piccolomini, di Siena
(pontificato 1458-1464)
Come abbiamo anticipato nella biografia di papa Callisto III, prima ancora che lui spirasse (il 6 agosto 1458) i cardinali che avrebbero dovuto riunirsi in conclave per dargli un successore, erano in apprensione, temendo le intromissioni di tutta quella fauna che era poi il nepotismo che il pontefice catalano aveva lasciato dietro di sè e che dominava nelle più alte cariche dello Stato pontificio.
Fecero tra di loro alcuni accordi che poi nel conclave presero corpo. Il più importante era quello della riforma della Curia, il conferimento di diocesi e abbazie, il rafforzamento di alcuni membri del Sacro Collegio, e la nomina di nuovi cardinali. A sfogare tutto il loro odio contro gli intriganti Catalani furono in prima fila gli Orsini. Non fu insomma un conclave tranquillo. Ma poi la scelta fu ponderata e si concentrò su un nome che ebbe i voti decisivi per la sua nomina perfino dal giovanissimo cardinale Rodrigo Borgia e da due cardinali Colonna; il 16 agosto eleggevano il successore di Callisto: il cardinale Enea Silvio Piccolomini, poi consacrato il 3 settembre col nome di papa PIO II. Ci furono due cardinali francesi che volevano opporsi in vista dei suoi trascorsi di giovane umanista, temevano infatti che avrebbe governato la Chiesa da pagano più che da cristiano
Piccolomini aveva solo 53 anni, ma era già sofferente ed invecchiato. Morirà sessantenne dopo appena sei anni di pontificato.
Il neo-papa era nativo (1405) di Corsignano, nel Senese, che poi in onore del suo grande concittadino si chiamò Pienza. Unico maschio dei diciotto figli del nobile decaduto Silvio Piccolomini proprietario di una piccola tenuta, aveva avuto dalla moglie Vittoria Forteguerri, di cui sopravvissero insieme a Enea solo due femmine.
Di ingegno precoce, durante gli studi di diritto prima a Siena poi a Firenze era un giovane spensierato come tanti della sua età, compresi gli amori. Divenne invece maturo e diligente quando incontrato il vescovo Capranica, questi lo assunse come suo segretario. E con queste funzioni con il prelato partecipò al famoso Concilio di Basilea. Era una bella occasione per mettersi in mostra e in effetti il giovane grazie all'abilità oratoria, e una buona dote di avvedutezza politica le dovute attenzioni le ebbe. Ma era ancora giovane, e scelse lo schieramento sbagliato, sposò la causa dei dissidenti, schierandosi contro la curia romana, gli stessi dissidenti che poi elessero l'antipapa Amedo di Savoia. Di papa Felice V ne diventò perfino il segretario e fu lui a scrivere un libello in sua difesa. Ma poi fu anche consapevole che stava difendendo un papa che molti già dicevano uscito non da un Concilio ma da un "conciliabolo".

I conciliabolisti poi si ravvederono, e quando Amedeo rimase sempre di più isolato e senza gregge, a Basilea riconobbero unico papa Eugenio V. Enea Piccolomini abbandonò il papa perdente, e per le sue alte qualità diplomatiche, passò al servizio dell'imperatore Federico III diventandone il segretario. Era il momento in cui papa
Eugenio era amareggiato della neutralità dell'imperatore tedesco, ma anche questo non nascondeva di volersi a lui riavvicinare. Con intense trattative diplomatiche proprio il suo segretario Enea Piccolomini - scendendo a Roma a incontrare il pontefice - era riuscito a concludere un concordato con il papa, che fu firmato a Roma il 7 febbraio 1447, mentre era già a letto per la malattia che doveva condurlo al sepolcro. I buoni rapporti e ulteriori trattative proseguirono con papa Niccolò V, siglati poi con il concordato di Vienna.
Furono questi incontri che fecero mutare la vita dell'ex libertino. Già davanti a Eugenio aveva confessato i suoi errori teorici e pratici, ed era risoluto a cambiar vita: entrare nell'Ordine dei frati Minori.

Enea nella sua fulminante carriera diplomatica sempre all'interno della Chiesa, e senza essere un religioso, non aveva mai lasciato la sua intensa attività letteraria, che non era per nulla ascetica, ma erano semmai scritti mondani, molto simili agli scritti di un libertino nei quali si parlava di avventure galanti, di lettere d'amore e di amanti ( spregiudicata la sua "Historia de duobus amantibus"). Galante e libertino lo era stato anche lui con avventure piccanti; quando era andato in missione in Scozia, di donne ne mise incinte due.

Nulla di strano per un uomo di mondo come ormai lui era diventato, inoltre lui non era un prete, nè era uscito da un convento. Si era goduto sempre la vita. Non ebbe il minimo sospetto a quale alta carica ecclesiastica sarebbe pervenuto.
Ma quando Niccolò V per i suoi buoni servigi resi alla Chiesa volle dargli il vescovado della città di Siena, o perchè non seppe resistere di tornare nella sua città come vescovo, o perchè iniziò ad avere la vocazione a 45 anni, lui ripudiò ostentamente i suoi scritti profani.
Con Callisto III si impegnò moltissimo nella crociata contro i turchi, e il pontefice gliene fu così grato che un anno prima di morire gli concesse la porpora cardinalizia il 18 dicembre 1456.

Questo era il personaggio che era entrato dentro per la prima volta in un conclave per eleggere con il contributo del suo voto il nuovo pontefice; ed invece papa ne era uscito lui. Proprio per la sua fulminante carriera di diplomatico, era lui l'uomo più in vista. Dopo i primi contrasti gli elettori concentrarono i voti su di lui, e a votarlo furono anche i più irriducibili: il Rodrigo Borgia e i due Colonna. Fu una sorpresa per i votanti, ma lui fu ancora più sorpreso, quando i cardinali fatto il nome gli si inginocchiarono davanti, lui scoppiò a piangere.
Gli umanisti quando seppero chi era stato eletto, gioirono, da lui si aspettavano grandi cose, un altro Niccolò; invece furono delusi, il neo papa gli artisti li dimenticò, i letterati pure, e se questi gli ricordavano il suo passato diceva loro "Rigettate Enea ed accogliete Pio II". Si occupò più soltanto della Chiesa nutrito da una altissima fede apostolica. E si occupò anche di se stesso per la gloria dei posteri, o come disse qualcuno del proprio culto neopagano. Personalizzazione del potere quello di Pio II, che (con la continuazione del nepotismo non molto diverso da quello del Borgia) ben presto si delinea la figura del papa-re. Anche lui nominò due nipoti cardinali (uno di questi divenne poi papa Pio III), e anche lui sistemò nei posti nevralgici della Curia e dello Stato, parenti e compaesani. Tuttavia in mezzo ai fasti della sua Corte, lui seppe viverci con un tenore di vita semplice e parsimonioso; lavorando moltissimo, dalle prime luci dell'alba fino a tarda notte.
Pio II, che al pari del suo predecessore vagheggiava l' idea di una crociata, cercò di metter pace in Italia, riconobbe Ferdinando ed ottenne la restituzione di Benevento, già occupata da Alfonso, e di alcune terre pontificie di cui il Píccinino si era impadronito. Nel frattempo indiceva un congresso per metter d'accordo tutti i sovrano cristiani e spingerli alla guerra contro i Turchi. Su questa nuova avventura si era buttato a capofitto, null'altro lo distraeva. Alcuni storici dicono, che quella era per lui un'occasione per la affermare la sua sovranità di papa-re. Infatti, l'impresa non era solo di carattere religioso, ma era una nuova avventura politica dell'abile e geniale ex diplomatico Enea Piccolomini che questa volta giocava grosso. Certo, era investito anche dallo spirito missionario, non per nulla andava dicendo che dopo la Crociata avrebbe convertiti tutti i musulmani al cristianesimo, ma quando scrisse personalmente una dotta lettera a Maometto II promettendogli perfino l'incoronazione a Roma della corona imperiale d'Oriente, lo spirito (anche se era un sogno il suo) era tipicamente politico. Il disegno era grandioso. Creare un'impero come quello di Costantino, ma all'inverso, con Roma il centro dell'universo, e Costantinopoli una succursale. Il Turco a questa lunga e dotta epistola nemmeno rispose.
Il Pontefice per riunire tutti i principi cristiani, aveva scelto come sede del congresso Udine, ma già qui ebbe i primi contrasti: i Veneziani, che non volevano compromettere le loro relazioni con il sultano, lo indussero a scegliere un'altra città e il Papa designò allora Mantova. 
Nel gennaio del 1459 Pio II, lasciato come suo vicario il cardinale Niccolò Cusano, partì da Roma con un seguito di dieci cardinali e sessanta vescovi. Per Terni, Spoleto ed Assisi si recò a Perugia dove fu ricevuto con gran pompa e si trattenne tre settimane. Qui venne a rendergli omaggio Federico di Urbino.
Da Perugia andò a Siena, dal cui governo ottenne che i fuorusciti fossero riammessi in città e alle cariche pubbliche; poi si recò a Firenze, dove fu accolto con grandissimi onori: Galeazzo Maria Sforza, i Manfredi, i Malatesta e gli Ordelaffi gli andarono incontro e vollero sorreggere la lettiga papale; il comune diede un gran torneo in piazza Santa Croce, un combattimento di fiere in piazza della Signoria e un gran ballo al Mercato Nuovo. 
Il 27 maggio il papa entrò a Mantova. La città era piena di stranieri, ma la maggior parte dei principi invitati al congresso mancavano. Il Pontefice dovette spedir quindi messi a sollecitare un po' tutti, ed aspettar per il resto della primavera e tutta l'estate l'arrivo dei congressisti.

Il 26 settembre nel Duomo ebbe luogo la prima seduta. Erano presenti Francesco Sforza, il marchese Ludovico Gonzaga, il marchese di Monferrato, Sigismondo Malatesta, gli ambasciatori del re d'Aragona, del re di Napoli, di Venezia, Firenze, Siena, Ferrara, Lucca, Bologna, i deputati del Pelopenneso, di Rodi, di Cipro, di Lesbo, dell'Epiro, dell' Illiria. 
Il Pontefice parlò, destando la commozione dell'uditorio; pronunciarono pure discorsi pieni di ammirazione, il Filelfo, Ippolita Sforza e i rappresentanti delle isole del Levante; tutti i convenuti si dichiararono pronti a sostenere con i più grandi sacrifici per ricacciare in Asia i Turchi. Ma nella sostanza era tutto un bluff; i contrastanti interessi dei vari stati fecero fallire la Dieta. Tutti promettevano ma in realtà nessuno si muoveva o aveva intenzione di muoversi.

Il pontefice non si diede per vinto, come aveva fatto il suo predecessore voleva mettersi lui alla testa della spedizione, e cercò in tutti i modi di eccitare gli animi, anche col fanatismo, rispolverando i gridi di guerra di Goffredo di Buglione della prima Crociata, allestendo processioni di reliquie, promuovendo tridui e novene di preghiere in ogni chiesa. Poi il 22 ottobre 1463 emise la bolla che promulgava la guerra santa, che - diceva - poteva comportare al crociato il sacrificio della propria vita, ma anche guadagnarsi gloria imperitura come martire in nome di Cristo.
Nella bolla minacciava di scomunica tutti coloro che osassero turbare la pace tra gli stati della cristianità e designando come luogo di raduno Ancona. Ma il suo appello non procurò molti aderenti. Il duca di Borgogna, che aveva promesso di partecipare alla crociata chiese un rinvio, la Francia e la Germania rimasero sorde e in Italia, oltre le truppe pontificie, solo Venezia (questa volta ripensandoci) mossa dai suoi interessi anziché dalla fede, aderì alla lucrosa spedizione.

Pio II non si scoraggiò e rimase fermo nel suo proposito di recarsi ad Ancona e di passare quindi a Ragusa da dove i crociati avrebbero dovuto muoversi d'accordo con Mattia Corvino re d'Ungheria e Giorgio Scanderberg. 
Sebbene fosse gravemente infermo, il 18 giugno del 1664 il Pontefice partì da Roma e un mese dopo giunse ad Ancona. Ma non vi trovò le navi e gli eserciti che sperava. Infatti non vi erano soldati di mestiere, e quelli che c'erano non volevano certo partecipare ad una impresa in cui non si concedevano paghe; vi erano, sì, alcune migliaia di crociati sprovvisti di armi e di denari ma la maggior parte dovette essere licenziata. Il resto nel corso del rimanente giugno e inizio di luglio si squagliò stanco di aspettare le galee veneziane, che comparvero soltanto il 12 agosto.
Era troppo tardi. Inoltre quelle navi erano anche insufficienti a una così grande impresa come l'aveva il pontefice concepita.
Tre giorni dopo - il 15 agosto 1464 - Pio II cessava di vivere e il doge Cristoforo Moro riconduceva le sue dodici galee a Venezia. Così falliva miseramente quella crociata alla quale neppure la presenza del Capo della Chiesa aveva potuto trascinare popoli e principi che la fede oramai più non scaldava e solo l'interesse poteva spingere ad impugnare le armi.
Lo scopo forse Enea Piccolomini lo aveva raggiunto ugualmente; ad Ancona lui fece una "bella morte" (come nei classici di cui si era nutrito in gioventù); mentre all'orizzonte giungevano le navi veneziane, lui di persona era presente, presente con la grande idea. Ed era una sua idea stranamente bella, quindi gloria per i posteri al suo nome. Ed era quello che per Enea Piccolomini, salito poi all'improvviso sul soglio come Papa Pio II, era diventato lo scopo essenziale di tutta la sua esistenza: di lasciare un ricordo come papa illustre.
Lo aveva anche scritto nei suoi "Commentari" (opera biografica che intese ambiziosamente "consegnare ai posteri" come nota il Falconi, da "papa neopagano" quale egli fu, volendo con ciò "realizzare la più perfetta e ricca immagine di sè" perchè "lui stesso e nessun altro era il suo vero idolo, la sua vera divinità), parlando di sè in terza persona: "Enea Silvio Piccolomini sarò lodato e rimpianto quando poi estinto non lo si potrà più riavere. Cesserà l'invidia dopo la sua scomparsa e, dimenticate le passioni che sovvertono il giudizio, risorgerà la fama vera e schietta che collegherà Pio tra i pontefici illustri".
La storia gli ha dato ragione. E non si occupò solo di quella "idea stranamente bella", ma in alcune occasioni alzò la voce per protestare la schiavitù dei neri che gli Stati europei stavano cominciando ad introdurre; la alzò pure per prendere le difese degli Ebrei, fatti segni ad ingiuste persecuzioni per odio di razza; stava varando un ottimo piano di riforma ecclesiastica non completato a causa della sua morte; e pur - come abbiamo scritto all'inizio - l'ex umanista Enea Piccolomini salendo sul soglio deluse artisti e letterati non è che eliminò l'amore per gli studi, solamente gli cambiò indirizzo.
Fondò infatti diverse università, e quando si aprì quella di Basilea (la Basilea del Concilio "conciliabolo") nella bolla di fondazione ecco come Pio II si esprime sulla nobiltà e il progresso della scienza:
" Fra le varie felicità che l'uomo mortale può ottenere per la grazia di Dio in questa fuggevole vita, merita di essere ricordata, non ultima questa, che egli mediante la perseveranza nello studio può conquistare la perla della scienza, che addita il sentiero verso una vita buona e felice, e con la sua eccellenza fa sì che l'uomo colto sia elevato al di sopra degli incolti. Di più essa lo rende simile a Dio e lo conduce a fargli conoscere chiaramente i misteri del mondo. Essa aiuta l'ignorante e fa salire ai più alti gradi quelli che sortirono bassi natali. Perciò anche la Sede Apostolica ha sempre promosso le scienze, procurato ad esse delle sedi e dato aiuto per l'opportuna prosperità, affinchè gli uomini possano tanto più facilmente venir condotti a conseguire una felicità umana così sublime, e dopo averla conseguita a renderne partecipi gli altri. Essere perciò suo desiderio che venga aperta in Basilea una rigogliosa fonte di scienza, alla cui abbondanza possano attingere tutti quelli che desiderano di venire iniziati agli scritti della scienza".

Questo era Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II. Non così - come leggeremo nella prossima biografia - il suo successore che disprezzava e vilipendeva gli studi e chi li diffondeva.
Morto PIO II, i cardinali, che lo avevano seguito ad Ancona, se ne tornarono a Roma e la sera del 28 agosto si chiusero in conclave.
elezione di PAPA PAOLO II ....

PAOLO II, Pietro Barbo, di Venezia
(pontificato 1464-1471)
Morto PIO II il 15 agosto 1464, i cardinali, che lo avevano seguito ad Ancona, se ne tornarono a Roma e la sera del 28 agosto si chiusero in conclave al Vaticano.
Prima di procedere all'elezione essi stabilirono di porre un freno all'onnipotenza papale e di innalzare l'autorità del sacro collegio compilando una capitolato elettorale che conteneva le norme seguenti: il Pontefice doveva continuare l' impresa contro i Turchi con tutte le forze della Chiesa e come risorse economiche impiegandovi tutto il ricavo delle miniere d'allume scoperte a Tolfa; il numero dei cardinali non poteva oltrepassare i ventiquattro; nessuno poteva ottenere il cappello cardinalizio se non avesse compiuto i trent'anni; dei cardinali uno soltanto poteva essere parente del Pontefice; il Papa non poteva procedere a nomine cardinalizie, intimar guerre e concludere alleanze senza il consenso del sacro collegio; non doveva esser conferito a laici il comando delle fortezze del Patrimonio; infine i cardinali dovevano riunirsi due volte l'anno per esaminare se le disposizioni del capitolato fossero state fedelmente eseguite.

Passati all'elezione, i cardinali con molta facilità si accordarono sul nome del patrizio veneziano PIETRO BARBO, che il 30 agosto venne eletto Pontefice e consacrato il 16 settembre prese il nome di PAOLO II. 

Questo Veneto, di portamento maestoso, di gentili maniere, contava quarantasette anni, era nipote per parte di madre di Eugenio IV, ricchissimo, liberale, vanitoso, ed eccessivamente amante del lusso. Nella festa della sua incoronazione spese una enormità di fiorini e si fece fabbricare una tiara costosissima tempestata di preziose gemme. Ci fu qualche umanista che ebbe da ridire su questo sfarzo e lo ridicolizzò in due versi "Di Paolo papa il capo è vuoto: è giusto quindi che sia di gemme e d'oro onusto".
Ma vi erano altri che lo lodavano per la sua generosità; teneva una farmacia privata e i farmaci li distribuiva gratuitamente. Anche nell'incoronazione gratificò il popolo col destinargli una elargizione di 1200 ducati.

Quanto all'accordo con quella serie di convenzioni dette sopra, che avrebbe dovuto dare molta importanza al Sacro Collegio, era stato giurato da tutti, ma quando salì poi sul soglio, l'eletto non concesse ai cardinali più di tanto. Anzi, tre giorni dopo la sua elezione, con una bolla annullava quanto stabilito nella sede del conclave. Bloccò così il tentativo di "monarchia costituzionale" e si riprendeva la sovranità pontificia assoluta. La bolla la fece sottoscrivere dagli stessi cardinali, in cambio accordò loro aumenti nei sussidi finanziari. Inoltre volendo clerizzare l'intero apparato amministrativo non concesse più giurisdizioni e magistrature ai laici. E questo voleva dire anche sopprimere il collegio degli Abbreviatori. Cosicchè molti letterati e umanisti che ne facevano parte si ritrovarono a spasso senza lavoro e senza stipendio.
Ci fu una levata di scudi, discussioni e polemiche, e uno di loro - il Platina - prese le difese del folto gruppo dei radiati e intervenne a voce alta, propose perfino un ricorso al Tribunale della Sacra Rota. Ma per tutta risposta Pio II gli rispose "Io sono il papa e posso fare e disfare come più mi piace".
L'altro non si arrese, pubblicò una pubblica lettera inviata al papa, dove si metteva in discussione il suo operato, minacciando perfino la convocazione di un Concilio. Ma si ritrovò immediatamente messo ai ceppi e rinchiuso dentro Castel San'Angelo. Solo per intercessione del cardinal Gonzaga quattro mesi dopo fu liberato. Ovviamente il Platina non si liberò del rancore, e quando poi compose "Vitae pontificum" di Paolo II fece questo ritratto "Ebbe così in odio gli studi dell'umanità et così li dispreggiava e li vilipendeva, che tutti quelli che vi davano opera solea chiamare heretici. Per questo confortava et assortava i Romani a non fare molto perdere tempo ai figlioli loro negli studi di queste lettere e che assai era e bastava se essi sapevano leggere e scrivere".
Come annota il Gregorovius, il popolo doveva essere lasciato nell'ignoranza, e per arrivare al suo fine, ricorse al vecchio mezzo, con la tecnica del "panem et circenses", "lo saziò di pane e di divertimenti".
Con la pompa e con le feste il Pontefice mirava a distogliere il popolo romano dal Pensiero della libertà, volendo egli mantenere intatto il potere temporale.
"" Il suo pontificato - scrive il Bertolini - fu dei più tranquilli per la città di Roma. La quale riuscì  sotto di esso ad abbandonarsi ai sollazzi che gli elargiva con grande liberalità il Pontefice: ci furono feste carnevalesche con cortei bacchici e con corse nobilitate dalla presenza del Papa, che ne allungò il tracciato dall'arco di Domiziano alla loggia del suo palazzo situato presso  San Marco, a fine di poter godere anche lui il pubblico spettacolo. Delle feste romane facevano parte i pubblici convivi promossi anche questi a spese del Papa davanti al suo palazzo, sempre rallegrati dalla sua presenza; onde la politica del panem et circenses, dopo tanti secoli di oblio, parve allora rediviva". 
Fu infatti il primo che fece rivivere i pagani ludi carnacialeschi, che tornarono a svolgersi con cortei bacchici, vari giochi, corse sul "Corso", per poi concludersi in grandi libagioni, risa e lazzi. Lui conosceva bene le aspirazioni della plebe romana, e agendo così lo allontanava dalle aspirazioni municipali. E quando lo vedeva gozzovigliare, a divorare cibo senza ritegno, o a fare ressa per impossessarsi di quelle monete che lui - con cinica soddisfazione - soleva buttare affacciato dal balcone del famoso attuale Palazzo di Venezia (allora palazzo S.Marco) , poteva ben dire che il popolo era indegno della libertà. Inoltre un popolo che mangia, beve e gozzoviglia si sottrae ai subbugli demagogici e rivoluzionari; insomma chi si diverte non cospira.
Ma il papa si sbagliava, perchè non è mai il popolo a cospirare, nella sua ignoranza la plebe con la sua irrazionalità segue sempre i cospiratori di qualsiasi congrega, e fa le rivoluzioni con il primo che si presenta sulla piazza a predicare la "sua" demagogia, e dopo un giorno la plebe è capace di fare una controrivoluzione con un secondo che all'incirca dice le stesse cose, o perchè ha più carisma, o perchè ha più fascino del primo, o perchè promette donativi.
Non è che Paolo II non conoscesse il valore della cultura (era anche un profondo conoscitore d'arte), ma proprio perchè la conosceva, la sua politica fu quella dei regimi assoluti, che hanno la tendenza a lasciare il popolo nell'ignoranza. "Se li trasformiamo tutti in dotti, nessuno avrà più voglia di lavorare, tutti avranno la presunzione di voler comandare". Segnò insomma una battuta d'arresto nel progresso del Rinascimento.

Tuttavia Paolo II non fece rivivere solo il Carnevale e le antiche feste pagane per la plebe, ma spese molti denari per far restaurare i monumenti che i colti e umanisti romani avevano un vero e proprio culto, ma che anche lui amava e collezionava nella sua residenza abituale che aveva iniziato a costruire prima ancora di diventare papa (l'attuale Palazzo di Venezia).
Gli archi trionfali di Tito e di Settimio Severo, la statua di Marco Aurelio e tanti altri monumenti e edifici furono restaurati per conto del pontefice.

Questo culto della romanità non era solo una particolarità del pontefice, ma in parallelo si era molto diffuso negli ambienti umanisti, si era enormemente ampliato, ed era così sentito che erano nati dei cenacoli, accademie (Accademia Romana), ritrovi, dove i più fanatici si vestivano alla romana, usavano nomi romani, celebravano le antiche feste, compreso il Natale di Roma del 21 aprile, contavano gli anni dalla sua fondazione, e avevano anche eletto un Pontefice Massimo: Pomponio Leto.
Pio II che proprio lui aveva iniziato questo "revival", cominciò a voler porgli un freno. Inoltre temendo l'ostilità di questi dotti e prestando fede alle dicerie che intorno ad essi correvano, che cioè complottassero contro di lui, cominciò ad essere guardingo, a sguinzagliare nei vari ambienti le sue guardie e i suoi informatori.
Il complotto (o come tale fu dipinto) fu scoperto in tempo e vi erano dentro letterati e circa venti soci dell'Accademia; quattro i capi, fra cui il Leto e nuovamente il Platina. Finirono tutti nelle celle di Castel Sant'Angelo. Non emerse granchè, qualche parola di protesta al vento di troppo e nulla più. Ma proprio Leto scrisse in carcere un'apologia che si chiudeva con una umiliante confessione di gravi offese fatte al pontefice, seguita da una implorante preghiera di perdono. Pio II fu indulgente, ritenendo sufficiente il castigo e l'umiliazione furono rimessi in libertà. Ma l'Accademia Romana fu definitivamente chiusa. E se da questa si erano sempre levate alcune voci di protesta sull'autorità pontificia, con la chiusura le proteste da allora non si udirono più.

Non elenchiamo qui le varie vicende italiane in questo settennale pontificato di Paolo II. Vicende che sono molte, e dove il papa disperse le sue forze in guerriglie e contrasti tutt'altro che fortunati. Sono abbondantemente narrate in queste pagine dei Riassunti di Storia d'Italia)
Come i suoi predecessori, anche Paolo II volle avventurarsi in una nuova crociata contro i Turchi.
A metà anno 1469 era caduta in mano dei Turchi Negroponte. Questo grave avvenimento, portò a proporre a tutti gli stati italiani di costituire una lega difensiva contro i Turchi, la quale venne conclusa il 22 dicembre del 1470. Ma essa non diede che scarsissimi risultati. Per molti i Turchi erano cose lontane, che non riguardavano l'Europa, ma semmai solo i Bizantini, e qualche mercante di Venezia.
Insieme ai Veneziani Paolo II cercò aiuti in altre parti. Cercò di spingere contro i Turchi Hassan Beg, conquistatore della Persia, e per mezzo del frate francescano Luigi di Bologna riuscì a stringere un'alleanza con lui; ma il Pontefice non riuscì a vedere i risultati di questa alleanza, essendo morto - come si è detto - il 27 luglio del 1471 per un colpo aploplettico; aveva soli 55 anni. 
Una morte che non gli permise di cogliere i frutti anche di un'altra sua singolare iniziativa. Mosso dallo zelo per la salute delle anime, tenendo calcolo che non tutte le generazioni avrebbero la possibilità di ottenere le indulgenze giubilari da indirsi ogni cinquant'anni, pochi mesi prima di morire aveva con apposita bolla stabilito che il giubileo avesse a ricorrere ad ogni quarto di secolo. Ma morì senza avere la consolazione di aprire la Porta Santa per l'anno giubilare che già aveva preannunciato: il 1475.

segue l'elezione di PAPA SISTO IV ....

SISTO IV, Francesco della Rovere, di Savona
(pontificato 1471-1484)
Dopo la morte di Paolo II avvenuta improvvisa il 26 luglio 1471, i cardinali del Sacro Collegio di riunirono in conclave per eleggere il nuovo papa. Erano 18, di cui 15 italiani, quindi esclusa la possibilità dell'elezione di uno straniero.
Anche questa volta i cardinali prima di eprimere il voto su uno di loro, stesero un accordo molto simile ai precedenti (ma poi sempre disattesi); il più importante era sempre il solito: consolidamento del Sacro Collegio nei confronti della sovranità assoluta del pontefice; un capitolato che tendeva a diminuire il potere monarchico del papa a tutto vantaggio di quello del Sacro Collegio. Ma anche questa volta le speranze furono deluse dal nuovo eletto che si avvalse del parere di alcuni canonici, ma in pratica era quel concetto ben chiaro espresso da Paolo II ""Io sono il papa e posso fare e disfare come più mi piace".
Il 9 agosto risultò eletto il cardinale Francesco della Rovere, poi consacrato il 25 dello stesso mese con il nome di SISTO IV.

Della Rovere era nato a Celle di Savona il 21 luglio 1414, da modesta famiglia. Entrato nell'Ordine dei Minori (dove poi divenne superiore generale dei Francescani) compì gli studi alle università di Pavia e Bologna, dove in entrambe fu anche professore. Il dotto francescano Bessarione dice che non vi era allora in Italia persona erudita al pari del Della Rovere. Compiaciuto di tali qualità ad elevarlo alla dignità cardinalizia il 18 settembre 1867, fu Paolo II.
Divenuto pontefice, nei suoi 13 anni di pontificato, non smenti la sua fama di dotto e di studioso, rivelandosi un uomo poltico di prim'ordine, per quanto poco fortunato, perchè il suo periodo coincise con quello più agitato in Italia.

Nel giuramento del famoso accordo pre-elezione, vi era anche l'impegno di proseguire la crociata contro i Turchi, e Sisto IV non venne meno a quel patto, mettendoci anche molto zelo per la difesa della cristianità, preparando navi e raccogliendo somme e inviando cardinali e legati ai vari sovrani europei per sollecitare il loro intervento.

Il fallimento principale fu che in questo periodo gli Stati Italiani erano in stato convulsionario, con alleanze che si facevano e disfacevano. Tuttavia un intervento in Asia minore ci fu con l'aiuto di Venezia e Napoli; e qualche risultato la flotta al comando del cardinale Oliviero Carafa lottenne, 23 gennaio del 1473 fece il suo solenne ingresso a Roma, portando con sé le catene del porto di Attalea che vennero appese alle porte del Vaticano. 23 gennaio del 1473 fece il suo solenne ingresso a Roma, portando con sé le catene del porto di Attalea che vennero appese alle porte del Vaticano. Ma i risultati furono ben scarsi. Anzi i Turchi giunsero fino all'Isonzo e quasi alla porte di Venezia, e tutti gi altri stati a guardare.
Queste vicende le narriamo con abbondanza di particolari nella pagine di Storia d'Italia.
Per Venezia fi fu la necessità di una pace con gli Ottomani e avviate trattative con Costantinopoli e il 26 gennaio del 1479 tra la repubblica e il sultano venne firmato un trattato. Oltre alla pace con "gli infedeli" Venezia pensò anche agli affari; due cose che sdegnarono gli ipocriti stati e staterelli italiani rimasti a guardare, forse in attesa della fine della Repubblica. Un cronista contemporaneo, Giovanni Duglos, si lagnò che Venezia avesse sottoscritto questo trattato con disonore proprio e di tutta la cristianità, e se ne dolsero vivamente anche i principi cristiani di cui l'inerzia e il mal talento erano stati non ultima ragione che si stipulasse.  Ben meglio sarebbe stato per loro e per essa se tale ipocrita concordia nei lamenti e nelle accuse si fosse palesata invece nella volontà di soccorrerla a tempo contro quel nemico di cui si deploravano i trionfi  dopo che con delazioni, con favori, con eccitamenti si era aiutato a conseguirli ».
Ma se a Venezia in questi anni si soffriva, a Milano gli Sforza prosperavano...

Nello stesso periodo  a Firenze non c'era serenità neppure dentro la famiglia dei Medici, né mancavano le congiure: come la "Congiura dei Pazzi".
Padrone quasi assoluto di Firenze Lorenzo de' Medici cercò di estenderne il territorio dalla parte della Romagna, acquistando Imola; che era caduta nelle mani di Galeazzo Maria Sforza. Il tentativo però di acquistare questa città non solo non doveva riuscirgli, ma doveva, procurargli un nemico: Sisto IV.
Il Pontefice, che aveva fatto base di tutta la sua politica il nepotismo e che aveva, non appena ricevuta la tiara, dato il cappello cardinalizio a due suoi nipoti, andava sollecitando lo Sforza affinchè gli vendesse Imola, che voleva dare in signoria a Girolamo Riario, suo nipote (un nipote, ignorante di politica, che trascinò lo zio papa in guerre e intrighi deleteri per lo Stato Pontificio. Colmato da lucrose rendite, si mise a sperperarle conducendo una vita dissoluta, fino al punto che a 28 anni era già morto). Per dare a questo nipote un grande principato Sisto IV minacciò l'equilibrio politico italiano. (Vedi più avanti)


La congiura de' Pazzi rafforzò a Firenze l'autorità di Lorenzo de' Medici, ma suscitò contro di lui, due nemici implacabili: il Pontefice e il re di Napoli. SISTO IV era stato vivamente colpito dalla notizia dell'impiccagione dell'arcivescovo Salviati e dall'arresto del cardinal Sansoni, che i Fiorentini trattenevano malgrado nessuna prova ci fosse della sua complicità con i cospiratori. 
Fallite le pratiche avviate da Roma per ottenere la liberazione del cardinale, il 1° giugno del 1478 il Pontefice lanciò la scomunica contro Lorenzo de' Medici, il gonfaloniere, i priori, gli otto della balia e tutti coloro che si erano resi colpevoli dei malvagi delitti dell'aprile e minacciò di sottoporre Firenze all'interdetto se tutti costoro non fossero stati consegnati alle autorità ecclesiastiche entro il mese di giugno.
La signoria di Firenze restituì la libertà al cardinale, ma non obbedì alle altre ingiunzioni del Pontefice, il quale, il 1° di luglio, lanciò l' interdetto sulla città, proibì ai fedeli di avere rapporti con i Fiorentini, dichiarò sciolte le loro alleanze, vietò che ne fossero contratte di nuove e mise il veto ai soldati di recarsi al servizio in quella repubblica.
Le operazioni guerresche ebbero inizio nel luglio del 1478. Sisto IV, cominciando le ostilità, con lìappoggio del re di Napoli, dichiarò che egli moveva soltanto contro Lorenzo de' Medici e che se i Fiorentini lo avessero cacciato li avrebbe accolti nella lega contro il Turco.
I Medici e i fiorentini non s'impressionarono, anzi Lorenzo  scese a Napoli e riguardo all'alleanza tra Ferdinando e il Pontefice, Lorenzo fece comprendere al re che essa non poteva durare a lungo data l'età avanzata di Sisto IV e che era meglio assicurarsi l'amicizia di una repubblica perché più stabile anziché quella della Santa Sede meno stabile a causa della breve vita dei Papi o della variazione della successione. I
l 6 marzo del 1480 Ferdinando concluse con Lorenzo la pace tra il suo reame e la repubblica fiorentina. 
Grande fu lo sdegno del Papa quando seppe della pace conclusa senza il suo consenso; ma non era in grado di continuare la guerra da solo e poco dopo sospese le ostilità contro Firenze pur mantenendo l' interdetto. Anche i Veneziani si rincrebbero con gli alleati Fiorentini per non essere stati consultati; ma questi non si curarono dello sdegno del Pontefice né delle lagnanze di Venezia e si mostrarono grati a Lorenzo, il quale, al suo ritorno, venne accolto come salvatore della patria.
Il 28 luglio del 1480 una numerosissima flotta turca si presentava davanti ad Otranto per punire il re Ferdinando degli aiuti prestati ai cavalieri di Rodi. Assalita dagli infedeli, Otranto si difese valorosamente per una quindicina di giorni, ma alla fine, sopraffatta dal numero dei nemici e battuta da poderose artiglierie, dovette cedere (1 agosto). Dei ventiduemila abitanti, dodicimila furono uccisi nel primo furore della vittoria; i fanciulli, che potevano esser venduti a caro prezzo, e gli adulti, dai quali si poteva ricavare una grossa taglia, furono fatti schiavi; l'arcivescovo Stefano e i preti perirono fra atroci tormenti.
Il pontefice preoccupato ora dalla presenza del Turco nella penisola e dalle voci che correvano di febbrili preparativi in Albania per una grande spedizione d'infedeli, si dava ad organizzare una lega italiana. Fino allora si era rifiutato di conciliarsi con Firenze, ma il 5 dicembre di quell'anno ricevette dodici ambasciatori della repubblica, si riappacificò coi Fiorentini, e tolse l'interdetto dalla loro città.
La lega e l'intervento fu superflua, perché il 3 maggio del 1481 moriva MAOMETTO II presso Nicomedia e, scoppiata una guerra civile tra Bajazet II e Gem, figli del sultano, Ahmet abbandonava l' impresa d'Italia per correre in aiuto del primo. Ariadeno, rimasto senza soccorso, si difese valorosamente per alcuni mesi, ma il 10 settembre del 1481 accettò gli onorevoli patti che gli si offrivano e consegnò Otranto al duca di Calabria. Con la liberazione di Otranto cessava il pericolo turco; ma cessava anche quel breve periodo di pace in Italia che questo stesso pericolo era riuscito a produrre.
La pace del 1480 tra Lorenzo de' Medici e Ferdinando re di Napoli aveva prodotto - come si è detto - un vivissimo malcontento nel Pontefice e nei Veneziani. Questi ultimi, pur potendo con la loro flotta, che si trovava nelle vicinanze, impedire ai Turchi lo sbarco presso Otranto, non si erano mossi, animati com'erano da gelosia e da odio verso il re di Napoli, anzi qualcuno crede che siano stati proprio loro a indurre il sultano a questa spedizione; il Papa, invece, che temeva il Turco, aveva finito con l'adattarsi a quella pace e se n'era giovato per combattere gli Ottomani. Ma quando il pericolo fu allontanato, egli si lasciò nuovamente guidare dal desiderio di accrescere la potenza della sua famiglia e orientò maggiormente la sua politica verso Venezia con la quale nel maggio del 1480 aveva stretto alleanza. 
Istigatore di questa nuova politica papale era il nipote del papa Girolamo Riario, che nel settembre del 1480, dopo la morte di PINO degli ORDELAFFI, si era impadronito di Forlì e ne aveva ricevuta l'investitura dal Pontefice. Con tale acquisto il Riario aveva considerevolmente accresciuto i suoi possedimenti; ma non era ancora contento ed aspirava al possesso di Ferrara. Per conseguire il suo scopo si recò a Venezia e, a nome del Papa, propose alla repubblica di muovere guerra agli Estensi.
La guerra scoppiò nel maggio del 1482. Due gruppi di stati si trovarono l'uno contro l'altro. Cosicchè la penisola fu divisa in due campi e si cominciò a combattere nel centro e nel settentrione con accanimento. Ma anche nello stesso Stato della Chiesa iniziò un turbinoso vortice: i Colonnesi uscivano dalle loro fortezze e saccheggiavano le campagne spingendosi fin presso le mura di Roma, spalleggiati dai Savelli ed osteggiati dagli Orsini, mentre Lorenzo Giustini, rivale di Niccolò Vitelli, devastava il territorio di Città di Castello. In Romagna stavano uno di fronte all'altro il Bentivoglio e il Riario; Ibletto dei Fieschi sconvolgeva i confini del ducato di Milano; Pier Maria de' Rossi dava filo da torcere alle milizie di Ludovico il Moro nel Parmense; mentre nei confini del Ferrarese si svolgeva la guerra principale ma a favore dei Veneziani. Successi che preoccupavano il Pontefice, il quale, temendo che la potenza della repubblica riuscisse di danno ai possessi della Santa Sede, deliberò di porre fine da parte sua alla guerra e il 28 novembre del 1482 stipulò con il re di Napoli una tregua, alla quale il 12 dicembre seguì una pace.
Conclusa la pace, Sisto IV scrisse alla repubblica di Venezia, elencando i danni prodotti dalla guerra ed esortandola a posare le armi. Venezia però che tanti sacrifici aveva fatto per quella guerra, alla quale era stata indotta proprio dal Papa, e che stava per raccogliere i frutti delle sue vittorie, si mostrò sdegnata sia della pace che delle esortazioni papali e si rifiutò recisamente di desistere dall'impresa di Ferrara. Sisto IV la minacciò di scomunica, ma queste minacce non fecero che inasprire maggiormente i Veneziani, i quali richiamarono da Roma il loro ambasciatore Francesco Diedo e dichiararono che non avrebbero cessato le ostilità contro gli Estensi a costo anche di dover da soli sostenere il peso d'una guerra contro tutta l' Italia.
E sola difatti si trovò Venezia contro il re di Napoli, il Pontefice, Firenze, Milano e Ferrara, ma non si perse d'animo. Non la spaventarono neppure le censure ecclesiastiche. Sisto IV, verso la fine del maggio del 1483 lanciò l' interdetto su Venezia ingiungendo al clero di abbandonare la città scomunicata; a sua volta il governo della repubblica richiamò da Roma tutti i preti veneziani, ordinò al suo clero di continuare a celebrare gli uffizi sacri, dichiarò di appellarsi a un futuro concilio e iniziò pratiche presso l' imperatore e i re di Francia e d'Inghilterra perché lo convocassero.

Seguirono intrighi, cambiamento di alleanze, a un certo punto la guerra procedeva pigramente perché tutti erano stanchi, specie i Fiorentini e i Ferraresi, e la lega non era più compatta come al principio delle ostilità. Reciproci sospetti avevano raffreddate le relazioni tra Ludovico il Moro e Alfonso di Calabria; il primo temeva che l'Aragonese volesse sostenere i diritti di Gian Galeazzo, cui da tempo aveva fidanzato la figlia Isabella, il secondo dal canto suo sospettava, e non a torto, che il Moro volesse usurpare il ducato al nipote. Iniziarono trattative con Ludovico il Moro, che portarono alla pace. Questa fu stipulata a Bagnolo (presso Brescia) il 7 agosto del 1484.
Scrive il Sismondi: "Questa pace indispettì il pontefice; egli aveva lungamente sperato di arricchire il nipote o con le spoglie del duca di Ferrara o con quelle dei Veneziani; ma, venute meno in parte le sue speranze, sperava almeno di assicurargli i piccoli principati della Romagna, anzi nemmeno dubitava che non gli fossero concessi; specialmente era sicuro che Girolamo Riario avrebbe ottenuto il grado, che invece fu dato al Sanseverino, di capitano della lega, grado che, unito allo stipendio, doveva risarcirlo delle pretese cui era stato costretto a rinunziare".
SISTO IV chiamò la pace di Bagnolo vergognosa e ignominiosa, e vogliono gli storici che il Pontefice ne provasse tanto dispetto da morirne. Cessò infatti di vivere cinque giorni dopo, il 12 agosto del 1484.
Benevolo non fu il giudizio che di lui diede la storia. Fu più un sovrano temporale che il capo della cristianità e si curò più degli interessi del suo stato e della sua famiglia che di quelli della Chiesa. Fra le sue opere, attinenti al ministero ecclesiastico..... 

...citiamo il Bertolini: « ....i privilegi strepitosi da lui concessi all'ordine dei Francescani, a cui egli era iscritto; l'ardore con il quale egli sostenne il principio della papale teocrazia onde i Concilii non erano per lui che meri strumenti della sovranità del Pontefice ed esecutori della sua volontà: il tribunale dell' inquisizione, istituito in Spagna con pieni poteri largiti a quei sovrani (breve del 1° novembre 1418), affinchè l'intento di reprimere le apostasie fosse meglio raggiunto: e dal breve di Sisto IV data l' inizio dei terribili supplizi, i quali resero infame nel mondo l' inquisizione spagnola, e fissarono l' irreparabile decadimento di quella nazione; la creazione di cardinali indegni quali suo nipote Pietro Riario e Ascanio Maria Sforza, l'autore dell'elezione papale di Rodrigo Borgia.
E a proposito dei nipoti di Sisto, non può certo tornargli a lode il fatto di avere egli conferito la porpora a sei di quei parenti: cioè il nominato Pietro Riario, Giuliano della Rovere il futuro papa Giulio II, Cristoforo e Girolamo Basso della Rovere, Raffaele Sansoni Riario e Domenico della Rovere. Di fronte a questi fatti biasimevoli, non può meritare gran valore il culto della Vergine da lui professato con grande ardore, così da innalzare in onore di Essa due templi, quello di Santa Maria del Popolo e di Santa Maria della Pace, che egli visitava con ostentata frequenza; e nemmeno può essere citata a titolo di compensazione delle sue colpe, la istituzione dei Cantori della Cappella Sistina eretti in corporazione speciale.
La Cappella Sistina (che prende appunto il suo nome) fu fatta costruire nel palazzo Vaticano espressamente per le funzioni religiose del papa; per abbellirla chiamò i maggiori pittori del tempo, da Mino da Fiesole a Sando Botticelli, da Domenico Ghirlandaio a Pietro Perugino, da Luca Signorelli al Pinturicchio. Completò poi l'opera con i suoi capolavori Michelangelo.
Ma se nei campi della politica e della religione le opere di Sisto IV meritano più biasimo che lode, in quelli che riguardano la cultura e l'edilizia di Roma, egli merita pieno plauso. Prima opera ammirevole è il riordinamento e l'incremento della biblioteca vaticana, la quale, per mezzo di Sisto IV, ebbe triplicato il patrimonio librario lasciatole da Niccolò V; onde i codici da essa posseduti oltrepassarono, sotto il suo pontificato, la cifra di tremila e cinquecento. L'importanza nuova acquistata dalla biblioteca vaticana ebbe il suo coronamento nella nomina dello storico dei Papi Bartolomeo Platina a bibliotecario.
Per ciò che riguarda l'edilizia romana, non si esagera dicendo che Sisto trasformò la città medioevale di Roma in una città moderna. Per le sue costruzioni egli si servì di diversi architetti; ma quelli a cui affidò le opere principali fu il fiorentino BACCIO PONTELLI, uno dei precursori del Bramante. Le costruzioni di Sisto IV ebbero per scopo più l' igiene che l'arte. In luogo di nuovi monumenti egli diede pertanto a Roma vie larghe e ben lastricate, un nuovo ponte (Ponte Sisto) che agevolasse le comunicazioni con Trastevere, e un grande ospedale, che fece risorgere ampliato e rinnovato quello eretto da Innocenzo III col nome di Santo Spirito. 
Per queste opere Sisto IV vive anche oggi e vivrà, finché il mondo duri, nella memoria dei Romani ricordato come un "sovrano" che si occupò della salute fisica dei loro antenati; ma per altre opere più copiose e ben più importanti la memoria di lui non potrà dissociarsi da quella del decadimento morale del Papato, onde egli segnò l'inizio ». (Bertolini).

Sisto IV era appena spirato il 12 agosto del 1484, e subito gravi tumulti scoppiarono in Roma.

l'elezione di PAPA INNOCENZO VIII ....

INNOCENZO VIII, G. B. Cibo, genovese
(pontificato 1484-1492)
Sisto IV era appena spirato il 12 agosto del 1484, e subito gravi tumulti scoppiarono in Roma provocati dall'odio che il defunto Pontefice aveva fatto risorgere tra gli ORSINI e i COLONNA e dalle persecuzioni che, insieme con i Riario, aveva fatto patire ai Colonnesi. Furono tali i tumulti che soltanto dopo sei giorni si poterono fare le esequie del papa morto e dopo tredici si riuscì a riunire il conclave. 
Caterina Sforza si chiuse in Castel Sant'Angelo e solo quando (25 agosto) a suo marito Girolamo Riario furono pagati ottomila ducati e i Colonna e gli Orsini, concluso un armistizio, lasciarono Roma, essa consegnò la fortezza ritirandosi nei suoi possessi d'Imola e Forlì.

I Cardinali prima di procedere all'elezione, compilarono una capitolato nel quale stabilirono delle condizioni che il futuro Pontefice doveva rigorosamente osservare. Le entrate dei cardinali - secondo tale capitolato - dovevano essere accresciute; nessun cardinale poteva esser colpito da censure ecclesiastiche o da reati criminali senza l'approvazione di due terzi del Sacro Collegio; il numero dei cardinali non poteva esser superiore ai ventiquattro; solo chi avesse compiuto i trent'anni e fosse dottore in teologia o in diritto poteva ricevere il cappello cardinalizio, eccettuati i figli o i nipoti dei re purché forniti di dottrina; il Pontefice non poteva nominare che un solo cardinale tra i membri della propria famiglia; infine il Papa doveva governare insieme con i cardinali e nelle faccende di grande importanza le sue decisioni non potevano esser valide se non avevano il consenso di sedici cardinali.

Impegnatisi per giuramento di osservare il capitolato, i cardinali procedettero all'elezione. Venne eletto, per le larghe promesse di uffici e di rendite, il cardinale genovese GIAMBATTISTA CIBO (29 agosto del 1484), che prese il nome di INNOCENZO VIII. 
Il nuovo Pontefice era di  indole molto mite e di ingegno non certo superiore. Irreprensibili non erano i suoi costumi: sette figli naturali aveva avuti prima di prendere gli ordini sacri e li riconobbe pubblicamente anche dopo che ottenne la tiara. Non era quindi il Papa che potesse opporsi alle irregolarità del clero e infatti la corruzione ecclesiastica fece, durante il suo pontificato, notevoli progressi.

Come uomo politico si mostrò incline alla pace, ma le circostanze furono più forti della sua volontà di mantenere in Italia quella pace che il trattato di Bagnolo aveva fatto concludere.
Innocenzo VIII tentò di spegnere quel fuoco che minacciava di suscitare un incendio più vasto e si impegnò per metter la pace tra Firenze e Genova, ma non vi riuscì, né, del resto, egli insistette, poiché avvenimenti di maggiore importanza lo inducevano a rivolger lo sguardo sul Reame di Napoli.
Il Pontefice aveva creduto che la guerra dovesse facilmente riuscirgli vittoriosa; aveva sperato molto sul duca di Lorena, sui Veneziani, sulla ribellione dei baroni. E invece tutto andava diversamente da quel che aveva creduto e sperato. Inoltre la guerra, portata dentro i territori dello stato della Chiesa, danneggiava la campagna romana e teneva costernata la popolazione di Roma.
Tutto ciò non poteva non influire sull'animo del Papa, incline alla pace per indole, né il concludere la pace poteva considerarsi difficile dato che la desideravano i cardinali, Firenze, Milano, il re di Napoli, che temeva un intervento della Francia e voleva ricondurre all'obbedienza i baroni, e infine la volevano il re d'Aragona e di Castiglia, il quale, essendo re di Sicilia, temeva una incursione dei Turchi in quell'isola e una discesa dei Francesi nel mezzogiorno d'Italia.
Ambasciatori vennero dall'Aragona nella penisola; ambasciatori mandò il re di Napoli a Roma, e l'11 agosto del 1486 fu concluso un trattato di pace in cui Ferdinando promise di pagare il tributo alla Santa Sede, di perdonare ai baroni ribelli e di lasciar libera Aquila di rimaner sotto il dominio della Chiesa.
"Ma non tutte le clausole, di questo trattato dovevano essere rispettate. Infatti due giorni dopo la firma, il re di Napoli fece arrestare un mucchio di gente, fece confiscare i loro beni, e alcuni li fece perire fra i più atroci supplizi.
Innocenzo VIII fu, naturalmente, sdegnato dall'agire di Ferdinando, che aveva sfrontatamente violati i patti della pace, ma ritenne opportuno non protestare per allora.
Eccellenti si erano fatte invece le relazioni di Lorenzo dei Medici con Innocenzo VIII. Lorenzo rinsalda con un matrimonio l'amicizia che lo lega al Pontefice: difatti, FRANCESCHETTO CIBO, uno dei figli di Innocenzo, sposa Maddalena, terzogenita dei Medici. 
A queste nozze seguì un altro matrimonio, quello di Piero dei Medici con una donna di Casa Orsini. Questa famiglia, già nemica di Innocenzo, per opera della politica medicea, si riconcilia col Papa e acquista a Roma una grande influenza che non può non giovare grandemente al signore di Firenze. Uno dei primi e più importanti effetti della politica di amicizie e di parentele di Lorenzo è la promozione del primogenito de' Medici al cardinalato, avvenuta nel marzo del 1489. La consacrazione, data la giovanissima età del nuovo porporato, che contava quattordici anni, ebbe luogo però al principio del 1492.
Lorenzo il Magnifico si spense, in età di quaranta anni, l' 8 aprile del 1492, e costituì una gravissima perdita non solo pel casato dei Medici e per Firenze, ma anche per l'Italia, perché con lui venne a mancare l'uomo che poteva ancora mantenere l'equilibrio nei vari stati della penisola ed impedire che altri turbassero la pace.

Tre mesi e mezzo dopo la morte di Lorenzo, cessava di vivere, il 25 luglio del 1492, a sessant'anni, anche INNOCENZO VIII, che come il suo predecessore aveva arricchito i parenti, ma non aveva saputo costituire degli stati, che non aveva voluto o saputo opporsi agli scandali e ai traffici della curia, che pochissimo aveva fatto per la religione, anche se aveva mostrato di amar la pace, meritando l'epigrafe che venne scritta sul suo sepolcro Italicae pacis custodi.

elezione di PAPA ALESSANDRO VI ...



ALESSANDRO VI, Rodrigo de Borja, spagnolo
(pontificato 1492-1503)
Cessato di vivere il 25 luglio del 1492 Innocenzo VIII, i ventitre cardinali del Sacro Collegio si riunirono in conclave il 6 agosto in S. Pietro nella Cappella Sistina. Pochi giorni dopo i conclavisti iniziarono a convergere i voti su un nome.
Era un uomo in vista per le sue abilità diplomatiche, aveva un carattere energico, e la cosa più importante è che era straniero, e quindi si trovava in una posizione di indipendenza dai diversi Stati italiani, che brigavano per avere un papa dalla loro parte.
Nella notte dell'11-12 agosto elessero Rodrigo de Borja, il 26 dello stesso mese con gran pompa ci fu l'incoronazione e prese il nome di INNOCENZO VI.
Papa Callisto III lo aveva nominato a soli venticinque anni, cardinale e vicecancelliere. Questa carica praticamente lo rendeva secondo solo al Pontefice sia negli affari amministrativi interni della Chiesa che nei rapporti con le altre potenze. Se ricordiamo, non ci sfugge che fu lui, morto lo zio, a far convergere i voti su Enea Piccolomini. La ricompensa da parte di Papa Pio II fu la riconferma del cardinale spagnolo nel delicato ufficio. Tra il novello Pontefice e il giovane cardinale, due uomini assolutamente diversi, pio e colto il primo, mondano e superficiale, seppur dotato di vivacissime doti intellettuali il secondo, si stabilì una collaborazione profonda.
Pio II considerava Rodrigo un uomo "eccezionalmente abile" e lo voleva sempre al suo fianco. Rodrigo lo ripagava con una fedeltà e un'obbedienza assolute, conformandosi anche alle regole quasi puritane e monacali del Papa, parco nel mangiare, indifferente alla mondanità, ma in compenso sensibile allo sfarzo nelle cerimonie religiose, nella cui organizzazione il cardinale spagnolo era un vero maestro, come la processione del Corpus Domini.
Non erano ancora gli anni in cui il cardinale Borgia sarebbe divenuto la delizia dei cronisti del pettegolezzo, sempre a caccia di scandali da offrire in diffusione al miglior offerente.
Pio II morì nel 1464; dopo di lui regnarono i Papi Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII. E sempre al fianco del Pontefice vi fu il vicecancelliere cardinale Rodrigo Borgia. Solo un uomo di eccezionale valore poteva resistere per trentasette anni sotto quattro diversi papi.
Indubbiamente Rodrigo si spianò la strada per diventare Papa: nessuno come lui era stato così al centro di tutti gli affari ecclesiastici più importanti di un trentennio. E la sua elezione a Papa l'11 agosto del 1492 non fu che il logico epilogo di una strada costruita con pazienza e tenacia.
Aveva raggiunto il suo scopo, nè fece nulla per dissimulare la sua gioia. Al posto del tradizionale e compassato "Volo" con cui il nuovo Papa dichiarava l'accettazione della carica, Rodrigo, al termine dello scrutinio, gridò con entusiasmo: "Sono Papa!" e impartì subito la prima benedizione al popolo, mostrandosi raggiante e sorridente. E da subito mostrò le sue doti, dando equilibrio ai suoi primi provvedimenti da Pontefice regnante.
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Alla fine del 1400 scandalizzo’ tutto il mondo
conducendo una vita corrotta e cinica

 

PAPA ALESSANDRO VI
( RODRIGO BORGIA )

STATO DI FAMIGLIA:
SCAPOLO CON 7 FIGLI.
PROFESSIONE: 
SOMMO PONTEFICE

 

di PAOLO DEOTTO

E' cosa nota che un uomo innamorato fa e dice un sacco di sciocchezze. Leggiamo ad esempio questa lettera, scritta nel 1494 a Giulia Farnese, (formalmente sposa di Orsino Orsini), dal suo impetuoso amante, seccatissimo per una "scappatella" di Giulia col legittimo sposo:

"Abbiamo udito che avete nuovamente rifiutato di tornare da noi senza il consenso di Orsino. Conosciamo la malvagità della vostra anima e dell'uomo che vi guida, ma non avevamo pensato per un sol momento che sareste stata capace di venir meno al vostro solenne giuramento di non avvicinare Orsino. Ma voi l'avete fatto, mettendo a repentaglio la vostra vita stessa per recarvi a Bassanello (la tenuta degli Orsini - N.d.R.) e cedere ancora una volta ai desideri di quello stallone. Pertanto vi ordiniamo con questa, sotto pena di scomunica e di eterna dannazione, che non vi rechiate mai più a Bassanello". Chi legge potrà giustamente osservare che questo focoso amante, oltre che autoritario, doveva essere anche un po' suonato. Ma chi credeva di essere, per minacciare scomuniche e dannazioni? Il Papa?

Ebbene sì, in effetti lo era. Era Sua Santità ALESSANDRO VI, cardinale RODRIGO BORGIA, salito alla Cattedra di Pietro l'undici agosto di due anni prima. Giulia Farnese, di una quarantina d'anni più giovane di lui, era l'amante in carica pro-tempore. Per lei Rodrigo Borgia, quando non era ancora Papa, aveva lasciato la precedente amante, Vannozza Cattanei, dalla quale aveva avuto quattro figli. Il legame con una giovinetta lo aveva travolto e ringalluzzito, ma gli faceva provare anche i terribili morsi della gelosia. E, come abbiamo visto, gli faceva anche perdere un po' di senso del ridicolo, perché sarebbe stato interessante, se la minaccia contenuta nella missiva avesse avuto seguito, vedere una donna cattolica scomunicata dal Papa perché teneva fede ai propri impegni coniugali...non dobbiamo stupirci più di tanto poiché nella Roma del XV secolo era cosa più che normale che un cardinale fosse un uomo di mondo, corteggiato dalle belle donne: godeva, a tutti gli effetti, di quello che oggi è un titolo solo formale.

Era un "Principe della Chiesa". E l'essere principe comportava un notevole potere e anche delle notevoli rendite economiche, un argomento, quest'ultimo, sempre molto valido in tutte le vicende amorose. Del resto la porpora cardinalizia era da tempo un privilegio che veniva concesso, il più delle volte, per ragioni di equilibri tra le diverse famiglie baronali di Roma e le varie potenze italiane ed europee con cui doveva fare i conti lo Stato della Chiesa per mantenere la sua posizione di preminenza all'interno del complesso gioco politico, fatto anche di matrimoni dinastici, di alleanze in perenne revisione, con l'aggravante del progressivo emergere di una classe mercantile che cercava, con le sue crescenti ricchezze, di prendere la sua parte di potere, spingendo via le vecchie caste nobiliari. Insomma, per molti cardinali la vocazione al sacerdozio era un optional quanto mai secondario. E i cardinali avevano, tra l'altro, il potere di eleggere il Papa, che era sempre scelto tra di loro.

IL PAPATO, UNA MONARCHIA NON DINASTICA - Questa non era la situazione della Chiesa in generale. La Chiesa aveva già avuto tre secoli prima il grande risveglio spirituale del francescanesimo e ci sarebbero voluti ancora decenni prima che Lutero scatenasse il suo tifone. Nessuno in Europa metteva in dubbio le verità fondamentali della fede cattolica, ma a Roma la Chiesa conosceva la corruzione del potere, forse inevitabile per la duplice veste di autorità spirituale e temporale rivestita dal Papa. E si trattava di autorità temporale, si badi bene, tutt'altro che formale, che oltretutto si espandeva fuori dai limiti territoriali dello Stato Pontificio, perché la Chiesa pretendeva di mantenere comunque antichi privilegi (come la titolarità della corona di Napoli) o invocava, in nome della Fede, la protezione di altre potenze anche per fini unicamente politici, se temeva di restare schiacciata, ad esempio, tra le pretese delle corone di Francia e di Aragona, o se vedeva con sospetto l'affermarsi di un’identità nazionale spagnola sotto un'unica corona.

La caratteristica assolutamente peculiare del Papato, di essere una monarchia non dinastica, contribuiva poi a rendere il gioco e soprattutto l'intrigo politico in perenne fermento, perché la mancanza di continuità data da una "casa regnante" faceva sì che con l'elezione di un Pontefice iniziassero subito le macchinazioni per l'elezione del successivo. Insomma, in grande stridore con un mondo occidentale che si proclamava cattolico, la Chiesa di Roma dava di sè uno spettacolo per nulla diverso da quello di tante altre corti europee, con l'aggravante di una dose massiccia di ipocrisia, inevitabile quando tutto, formalmente, veniva compiuto "Ad Maiorem Gloriam Dei".

La nostra storia però inizia con un Papa austero, vecchio, malaticcio, noioso, pieno di ideali irraggiungibili: Callisto III, eletto Pontefice nel 1455, quando morì improvvisamente, a soli cinquantasette anni, Nicola V. Probabilmente il primo a restar sorpreso della nomina era stato lui stesso, l'eletto, Sua Eminenza Alonso Borja, arcivescovo di Valencia, che aveva ricevuto il cappello cardinalizio pochi mesi prima, e che aveva un'età, settantasette anni, in cui in genere non si fanno grossi progetti per il futuro. Il Cardinale Alonso Borja, che a Roma divenne Alonso Borgia, si trovava nell'Urbe da tempo per perorare la causa del suo re, Alfonso di Aragona, che, desiderando cingere anche la corona di Napoli, aveva bisogno dell'approvazione del Pontefice, che era, seppur formalmente, il sovrano anche di Napoli.

UN BORGIA TIRA L’ALTRO - Alonso Borgia portò a termine bene il suo mandato ed ebbe in dono dal re Alfonso un palazzo e dal Papa il cappello di cardinale. L'arcivescovo di Valencia era un uomo che aveva passato la sua vita negli studi di legge, che all'epoca impegnavano moltissimi anni. A differenza di molti suoi colleghi, egli non era un vecchio "arnese di curia"; era un ecclesiastico severo e frugale che devolveva buona parte dei suoi proventi in beneficenza. Non gli si conoscevano amanti, nè passioni per le arti, per il teatro o per lo sfarzo, così di moda all'epoca. La sua unica passione era sempre stato l'arido linguaggio della legge, e si trovava a suo agio tra le pergamene, i documenti, i codici. Quando Nicola V morì, il cardinale Borgia era, oltre che avanti con gli anni, anche di salute malferma.

E la sua nomina avvenne proprio per queste sue caratteristiche. I cardinali erano arrivati ad un punto morto: le alleanze si facevano e si disfacevano attorno ai nomi più quotati senza riuscire a raggiungere un risultato. A tutti parve a un certo punto un'ottima soluzione l'elezione di questo vecchio grigio, che non sarebbe vissuto a lungo, ma abbastanza per permettere la formazione di un gruppo dominante che potesse esprimere un Papa. Inoltre il cardinale di Valencia aveva il pregio di essere uno straniero, e di restare quindi al di fuori delle normali faide che dividevano le famiglie della nobiltà romana, abituate ad entrare pesantemente nel gioco che doveva concludersi con la conquista di un immenso potere spirituale e temporale.

Insomma, il cardinale Alonso Borgia, papa Callisto III, non doveva essere che una parentesi che permettesse di riprender fiato alle varie fazioni, per poter meglio ricominciare le loro lotte, le loro alleanze, i loro intrighi. E in effetti il suo pontificato fu breve (tre anni scarsi), grigio come era lui stesso, che divenne ancora più aspro e scostante per il fallimento di quella che considerava la sua maggiore missione: una crociata. Ma Papa Callisto III, per quanto austero e riservato, non si sottraeva agli usi del nepotismo, tranquillamente accettato all'epoca, ed anche comprensibile in questo caso, per un uomo che desiderava circondarsi di compatrioti, trovandosi all'improvviso a dover prendere dimora definitiva in una città che non era sua e che, da sempre tollerante e cosmopolita, manifestava un'antica antipatia proprio per il popolo spagnolo, considerato un popolo di straccioni vanagloriosi, soprattutto ora che la nuova cultura rinascimentale faceva lievitare il gusto per tutto ciò che poteva esserci di bello e raffinato nel vestire, nel comportamento, addirittura nel modo di camminare e di mangiare.

... E ARRIVANO FROTTE DI SPAGNOLI - Roma iniziò a riempirsi di spagnoli, mal tollerati dai pur tolleranti romani, che non mancavano di far notare che, "se il vento spirava bene, si sentiva l'avanzare d'una compagnia di spagnoli ad un miglio di distanza", ironizzando così pesantemente su una presunta scarsa confidenza di quel popolo col sapone. Gli spagnoli a loro volta non nascondevano il loro disprezzo per i romani, considerati un popolo di rammolliti, se non addirittura di effeminati, salvo poi guadagnarsi il rimprovero dei romani, tenendo quei comportamenti di eccessiva sfrenatezza e dissolutezza che non si sarebbero mai potuti permettere in patria.

Callisto III volle vicino a sè i due nipoti prediletti, Pedro e Rodrigo, figli di sua sorella Isabella, da poco rimasta vedova. Erano due giovani gagliardi, poco più che ventenni, e il Papa spagnolo vedeva in loro il sostegno della sua vecchiaia. Tra i due Rodrigo, il più brillante, era già predestinato alla carriera ecclesiastica; ed infatti aveva dovuto seguire i lunghi e complicati studi di giurisprudenza, che avrebbero potuto dargli l'accesso ai più elevati incarichi.

E il Papa lo nominò, a soli venticinque anni, cardinale e vicecancelliere. Questa carica praticamente lo rendeva secondo solo al Pontefice sia negli affari amministrativi interni della Chiesa che nei rapporti con le altre potenze. Il fratello Pedro ebbe invece la carica di Prefetto di Roma. Il Prefetto era il funzionario che esercitava il potere temporale sull'Urbe in nome del Papa. Callisto, che adorava i due nipoti, non esercitò su di loro alcuna autorità, disinteressandosi del loro operato ed approvandolo a priori, preso com'era dalle varie incombenze della sua carica e dal pensiero di organizzare la Crociata. Malaticcio, dirigeva gli affari della Chiesa più dalla stanza da letto che dalla fastosa sala delle udienze, liquidando spesso le lamentele che gli giungevano sull'operato di Pedro come semplici espressioni di malevolenza contro gli spagnoli.

Ma la realtà era diversa: mentre Rodrigo, di indole brillante ed affabile, sapeva farsi benvolere, Pedro era arrogante, convinto di esercitare un'autorità indiscutibile, per nulla conoscitore dell'animo dei romani, pronti a impiccare domani chi oggi veniva incensato. E Pedro si accorse amaramente dei suoi errori di comportamento quando la salute del Papa precipitò. Spinta dalla potente famiglia Orsini, che considerava la carica di Prefetto come una proprietà privata e pertanto aveva visto come usurpatore il giovanotto spagnolo che aveva come unico merito il fatto di essere nipote del Papa, la plebaglia romana iniziò una vera caccia allo spagnolo, che si interruppe per qualche giorno quando sembrava che Callisto si riprendesse, per poi ricominciare con accresciuta virulenza quando era chiaro che il Pontefice era ormai agonizzante. Le truppe papaline non intervenivano: era del resto una tradizione che la città piombasse nel caos alla morte del Pontefice, per riprendere poi la sua vita quotidiana quando il Conclave proclamava il nuovo eletto.

IL FUTURO PAPA SE LA SQUAGLIA - Nel breve interregno nessuno voleva assumersi responsabilità eventuali di fronte al futuro padrone. E quindi i due spagnoli più eminenti, Pedro, Prefetto di Roma, abbandonato anche dal suo corpo di guardia personale, e Rodrigo, Cardinale vicecancelliere della Chiesa, fuggirono nella notte da Roma, travestiti, per raggiungere Ostia, dove una nave avrebbe dovuto portarli in salvo. Ma anche il capitano della nave aveva abbandonato il prefetto caduto in disgrazia, e pertanto i due fratelli presero la strada per Civitavecchia, dove peraltro Pedro, sfuggito al linciaggio dei vendicativi romani, trovò la morte per un'improvvisa febbre. Rodrigo invece a poche miglia da Civitavecchia, considerando il fratello ormai al sicuro, aveva ripreso la strada per Roma, dimostrando un notevole coraggio: anche se lui era benvoluto, ed era pur sempre un principe della Chiesa, gli Orsini non erano disposti a fare molte distinzioni fra spagnoli buoni e spagnoli cattivi. Ma nella città in preda alla plebaglia assetata di sangue spagnolo, Rodrigo riuscì a raggiungere il Vaticano e si portò al capezzale dello zio agonizzante. E lì attese, fino alla morte del vecchio Pontefice.

A soli ventisette anni il cardinale Rodrigo Borgia, grazie al suo ufficio di vicecancelliere, era il porporato più alto in carica tra i diciotto conclavisti che si riunirono il 17 agosto 1458 per eleggere il successore di Callisto III. Di questo conclave ci è rimasta una vivida cronaca, redatta dal cardinale Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Siena, che ne uscirà come Papa, col nome di Pio II. E fu in questo conclave che il giovanissimo cardinale dimostrò la sua abilità e anche la sua spregiudicatezza nel capire da quale parte schierarsi. Inizialmente favorevole all'elezione del francese Estouteville, potente e ricchissimo vescovo di Rouen, Rodrigo si dichiarò poi apertamente a favore del vescovo di Siena, riuscendo, con questa esternazione, a trascinare anche gli ultimi riluttanti conclavisti.

BORGIA COMINCIA L’ARRAMPICATA - Ma la sua scelta non fu determinata da pii motivi. Ammonito dallo stesso Piccolomini sull'inaffidabilità delle promesse del cardinale francese, che mai avrebbe riconfermato, al di là dei solenni impegni, nella fondamentale carica di vicecancelliere uno spagnolo, Rodrigo Borgia ebbe l'intuizione giusta e poi seppe sfruttare il suo ascendente e la sua personalità accattivante per far pendere l'ago della bilancia a favore di Piccolomini. E la naturale ricompensa da parte di Papa Pio II fu la riconferma del cardinale spagnolo nel delicato ufficio. Finalmente Rodrigo Borgia cessava di essere il nipote prediletto di un Papa regnante: ora doveva davvero misurarsi con le sue proprie forze, e l'esordio era stato promettente.

Tra il novello Pontefice e il giovane cardinale, due uomini assolutamente diversi, pio e colto il primo, mondano e superficiale, seppur dotato di vivacissime doti intellettuali il secondo, si stabilì una collaborazione profonda. Pio II considerava Rodrigo un uomo "eccezionalmente abile" e lo voleva sempre al suo fianco. Rodrigo lo ripagava con una fedeltà e un'obbedienza assolute, conformandosi anche alle regole quasi puritane e monacali del Papa, parco nel mangiare, indifferente alla mondanità, ma in compenso sensibile allo sfarzo nelle cerimonie religiose, nella cui organizzazione il cardinale spagnolo era un vero maestro, come la processione del Corpus Domini. Non erano ancora gli anni in cui il cardinale Borgia sarebbe divenuto la delizia dei cronisti del pettegolezzo, sempre a caccia di scandali da offrire in diffusione al miglior offerente. In una sola occasione Rodrigo fece uno scivolone: per una questione di donne, una piccola orgia a cui si diceva avesse partecipato in occasione di un viaggio a Siena. La reprimenda del Papa fu pesante, le proteste di pentimento del giovane furono pronte. E mai più durante il pontificato di Pio II Rodrigo fece simili errori.

Ormai stabilito a Roma, Rodrigo Borgia pensò anche alla costruzione di un palazzo adeguato alla sua posizione sociale. E lo fece proprio di fronte al Vaticano, sull'altra sponda del Tevere. Il suo palazzo, un palazzo-fortezza come erano tutti all'epoca, destinati ad abitazione sontuosa ma anche a rifugio nei non infrequenti periodi di caos, ci viene descritto dal Cardinale Ascanio Sforza, in una lettera che questi inviò la fratello Ludovico, il signore di Milano. E ne vien fuori la descrizione di un palazzo con una grande e disorganica esibizione di ricchezza: vasellame, tappeti preziosi, imbottiture in tessuti raffinati: tutto radunato senza un piano preciso, se non quello di sottolineare la propria agiatezza e magnificenza.

UN PLAY BOY VESTITO DI PORPORA - Ben presto la piazza prospiciente il Palazzo Borgia divenne anche il luogo di frequenti spettacoli che il cardinale spagnolo offriva al popolino: rappresentazioni, musica, in un'occasione anche una corrida. Il popolo minuto non partecipava certo al conclave, ma rendersi popolare era comunque una buona politica, faceva comunque parte dei requisiti da avere se si voleva mirare in alto, molto in alto.

Pio II morì nel 1464; dopo di lui regnarono i Papi Paolo II, Sisto IV e Innocenzo VIII. E sempre al fianco del Pontefice vi fu il vicecancelliere cardinale Rodrigo Borgia. Solo un uomo di eccezionale valore poteva resistere per trentasette anni sotto quattro diversi papi. Consideriamo infatti che dopo la parentesi di Pio II, uomo devoto e religioso per quanto il suo tempo poteva permetterlo ad un sovrano regnante, con i successivi pontefici il mercanteggiamento della carica papale, l'assegnazione degli uffici in base alle alleanze politiche, erano divenuti ormai la prassi comune. In un clima di rilassamento morale totale, nessuno dei nuovi Papi avrebbe mantenuto nel suo alto ufficio il cardinale Rodrigo Borgia se non avesse dovuto riconoscere che ormai, in quel posto, ambìto da molti postulanti e quindi possibile merce di scambio per voti nel conclave, nessuno poteva fare meglio di lui. E Rodrigo si spianò la strada per diventare Papa: nessuno come lui era stato così al centro di tutti gli affari ecclesiastici più importanti di un trentennio. E la sua elezione a Papa l'11 agosto del 1492 non fu che il logico epilogo di una strada costruita con pazienza e tenacia.

Quando divenne Papa Rodrigo Borgia aveva già sette figli (di cui quattro avuti dall'amante "ufficiale", Vannozza Cattanei e tre da altre donne), una nuova amante (come vedevamo all'inizio, la giovanissima Giulia Farnese), una situazione "familiare" decisamente intricata. E quest'uomo privo di scrupoli, che aveva costruito la sua strada per il potere con sagacia e pazienza, aveva però il suo tallone d'Achille: non tanto la sua esuberante passionalità, quanto il suo amore sviscerato per i figli, per i quali, come vedremo più avanti, mosse i suoi pochi, ma gravi, passi falsi. Forse, quando divenne l'uomo più potente della Terra, Padrone delle chiavi del Cielo, accarezzò anche, nel più profondo del suo animo, un folle sogno dinastico, che avrebbe trasformato la famiglia Borgia, di piccola nobiltà spagnola, nella famiglia più potente del mondo, per generazioni e generazioni.

L’ORGIA SEGRETA DEL CARDINALE - Un sogno folle, che non possiamo che ipotizzare. Ma comunque una follia permeava un mondo dove era cosa normale e accettata che un uomo di Chiesa, non potendosi sposare, avesse una o più amanti, dove ormai solo l'apparenza contava. E parliamo di follia non tanto per un discorso morale, il peccato essendo compagno di strada quotidiano di ognuno, quanto per la doppiezza che si impone come modello di vita quando, nello sfascio morale, la salvezza delle apparenze diviene essenziale. Se ben guardiamo, lo stesso biasimo di Pio II per l'episodio dell'orgia di Siena ha qualcosa di grottesco. Logica avrebbe voluto che un Principe della Chiesa, colto in un tale peccato, subisse una durissima punizione. Ma in fondo quello che si rimproverava all'allora giovane Borgia non era tanto il peccato carnale, quanto che la cosa fosse divenuta oggetto di pettegolezzo. E Rodrigo Borgia dimostrò di essere il campione di questo mondo artificiale e schizofrenico. Nell'autunno del 1474 il notaio Camillo Beneimbene venne chiamato a Palazzo Borgia a presiedere una cerimonia nuziale, onorata dalla presenza del cardinale stesso, tra Vannozza Cattanei e messer Domenico d'Arignano, di professione "funzionario ecclesiastico". Si sarebbe detto che si celebrava il matrimonio di un parente povero ma caro al cardinale, che per particolare benevolenza gli aveva concesso l'uso della sua dimora sfarzosa per la cerimonia.

La realtà era ben diversa. Questo matrimonio non fu che il primo di una lunga serie di atti formali con cui il cardinale Rodrigo Borgia intendeva dare "copertura legale" alla propria amante e ai figli che dalla stessa avrebbe avuto. Il marito morì pochi mesi dopo il matrimonio e Vannozza restò vedova per quattro anni, durante i quali dette alla luce due figli, Juan e Lucrezia, che vennero ad aggiungersi al primo, Cesare, nato un anno esatto dopo le nozze. Nei quattro anni successivi, Vannozza si sposò altre due volte, sempre con uomini scelti da Rodrigo Borgia, e mise al mondo altri due figli, Joffre e Ottaviano. Quest'ultimo fu l'unico riconosciuto dal legittimo marito, ma anche sulla paternità di Joffre esistevano dei dubbi, che lo stesso Borgia esprimeva nei momenti di collera.

I MARITI DELLE AMANTI DEL PAPA - Del resto questi "incidenti" erano inevitabili in una situazione così delicata: il cardinale sceglieva i mariti per l'amante, preoccupato di dare sempre a quest'ultima una situazione di "legittimità". Ma doveva certamente convincere con sostanziosi argomenti gli sposi "pro-tempore" a subire una situazione che era una bazza per i pettegolezzi romani. E poteva darsi che un marito "formale" volesse dimostrare di essere anche un marito "sostanziale". Vannozza Cattanei veniva dai ranghi della più bassa nobiltà, e secondo i più maligni era una delle tante cortigiane, più abile di altre.

Di certo fu per il cardinale spagnolo una compagna discreta che gli diede un lungo periodo di stabilità affettiva e che indubbiamente lo coinvolse profondamente, tant'è che il futuro Papa Alessandro concentrò tutte le sue attenzioni paterne sui figli avuti da Vannozza (Cesare, Juan, Joffre e Lucrezia), preoccupandosi molto meno per gli altri tre figli (Pedro, Gerolama e Isabella) nati precedentemente al suo legame con Vannozza e sulla cui madre riuscì sempre a mantenere il segreto più assoluto. Pedro ottenne il ducato di Gandia in Spagna, fu un soldato valoroso, e morì a soli trent'anni, nel 1488. Gerolama e Isabella vennero date in moglie a rappresentati minori della nobiltà romana. La prima morì giovanissima poco dopo le nozze, mentre Isabella sopravvisse a tutti i figli di Vannozza, li ignorò e fu da essi ignorata e morì ultrasettantenne, nel 1541.

Vannozza, dicevamo, fu la compagna discreta e sottomessa. Prudente e avveduta, a differenza delle vere cortigiane che quasi sempre finivano la loro vita in miseria, seppe amministrarsi molto bene; del resto Rodrigo Borgia era ricchissimo e generoso. Le diede molto: ma le chiese anche molto. E Vannozza seppe ritirarsi silenziosamente quando il futuro Papa Alessandro si infiammò per la giovanissima nuova amante, e seppe obbedire in silenzio anche quando le furono sottratti i figli, affidati alle cure di Adriana da Mila, una cugina di Rodrigo, a lui devotissima. E proprio Adriana è senza dubbio la figura più misteriosa e ambigua in tutta la vicenda di Rodrigo Borgia.

Adriana era nata a Roma, essendo suo padre venuto in Italia con la prima ondata di spagnoli, sotto il vecchio Papa Callisto, e aveva sposato un membro secondario della famiglia Orsini, da cui aveva avuto un unico figlio, nato poco prima che lei rimanesse vedova. E il figlio era quell'Orsino Orsini, uomo scialbo e senza particolari doti, che nel 1489 sposò la bellissima Giulia Farnese. La cerimonia si svolse nella Sala della Stella di Palazzo Borgia, e lo sposo, terminata la formalità, si ritirò subito nella tenuta degli Orsini a Bassanello.

COTTA PER LA BELLISSIMA FARNESE - Il suo posto venne preso dall'ormai cinquantottenne cardinale Rodrigo Borgia, che da questo nuovo legame ebbe gioie e dolori, come vedevamo all'inizio e due figli, Rodrigo e Laura, anche se sulla paternità effettiva di quest'ultima molto si discusse, per una certa coincidenza di date con l'ultima "scappatella" di Giulia alla tenuta di Bassanello. La relazione con Giulia fu una delle maggiori manifestazioni di potere del cardinale Borgia: la potente famiglia Orsini non mosse un dito di fronte alla ridicola situazione di un loro membro. E i Farnese, nobili spiantati, ricevettero a loro volta il loro compenso, perchè uno dei primi atti del nuovo Pontefice Alessandro VI fu la nomina a cardinale del fratello di Giulia, che ebbe così spianata la strada al futuro pontificato. Un enigma la posizione di Adriana, di fatto la suocera di Giulia.

Fu la torbida organizzatrice di tutto, o si limitò ad accettare la situazione? L'unica cosa certa è che per Adriana da Mila Rodrigo era l'universo che lei venerava. E per il quale potrebbe anche aver costretto il figlio a recitare l'incresciosa parte di marito "putativo" dell'amante dell'adorato cugino. L'aggrovigliata situazione affettiva del cardinale Borgia era ben rappresentata anche in termini logistici: Giulia infatti andata a vivere con Adriana e con i figli che Rodrigo aveva avuto da Vannozza e che, come vedevamo, aveva dato in tutela alla devota cugina.

C’era ormai materiale per deliziare i cronisti mondani e per alimentare i pettegolezzi a dismisura. L'antico livore romano contro gli spagnoli trovò nuovo alimento nell'esuberanza di questo cardinale spagnolo che spargeva figli in giro, preoccupandosi però di avere sempre amanti regolarmente sposate e ben sapendo, nel frattempo, che il segreto sulla sua situazione era il segreto di Pulcinella. E così sulla famiglia Borgia, tanto più quando Rodrigo divenne Papa Alessandro VI, si scatenò anche un diluvio di maldicenze, la più tenebrosa delle quali fu quella circa i rapporti incestuosi tra il Pontefice e l'adorata figlia Lucrezia, che a sua volta avrebbe avuto rapporti così obbrobriosi anche col fratello Cesare. Voci maligne, che non furono mai suffragate da prove. Ma comunque voci faticose da dissipare, per un uomo che, in ogni caso, non poteva certo dirsi un modello di virtù.

SOTTO UNA TEMPESTA DI PETTEGOLEZZI - Ma queste voci non impressionavano più di tanto nè il popolo romano, avvezzo ormai a tutto, nè il sacro collegio dei cardinali. Molti dei porporati avevano l'armadio così pieno di scheletri, da non pensare neppur lontanamente ad andare ad aprire gli armadi altrui. E gli scheletri non erano costituiti solo da peccati carnali, sui quali peraltro la Chiesa all'epoca era abbastanza indulgente. Il vero cancro che stava corrodendo la società era la corruzione dilagante: tutto era in vendita, era solo questione di prezzo. E naturalmente non mancarono le voci sull' "acquisto" da parte di Rodrigo Borgia dei voti in conclave per essere eletto Papa.

Diversi anni dopo la morte di Alessandro VI queste voci vennero date come assolute verità dallo storico fiorentino Francesco Guicciardini. Qualche dubbio resta legittimo, sia per l'animosità che comunque il Guicciardini mai dissimulò contro gli spagnoli che avevano "infestato" Roma, sia perchè il conclave da cui Rodrigo Borgia uscì con la bianca veste papale si svolse nel più assoluto segreto, sotto la ferrea vigilanza del maestro di cerimonie Johannes Burchard, funzionario arido ma scrupolosissimo nel far rispettare le regole, tra le quali esisteva quella della segretezza, violata solo, tanti anni prima, da Piccolomini. Comunque dobbiamo considerare anche altri aspetti, tra cui la conferma, da parte dello storico milanese Bernardino Corio, del fatto che il principale antagonista di Borgia, il cardinale milanese Ascanio Sforza, si era ritirato dalla competizione dopo una generosa elargizione di monete d'oro.

Corio era uno studioso moderato e, soprattutto, bendisposto per ovvie ragioni di convenienza verso la grande famiglia milanese. Inoltre, tornando a quanto dicevamo prima, la corruzione era un costume talmente diffuso (già in uso ai tempi di Piccolomini, che nei suoi racconti riferisce di complicate transazioni monetarie tra i vari aspiranti alla carica suprema) che più nessuno se ne stupiva, almeno intimamente. Ma l'accusa poteva sempre tornare utile in un secondo momento, quando con più o meno ipocrisia si volevano trovare argomenti per colpire il regnante.

ASCESE AL SOGLIO URLANDO DI GIOIA - Comunque per Rodrigo Borgia l'11 agosto 1492 restava la data in cui aveva raggiunto il suo scopo, nè fece nulla per dissimulare la sua gioia. Al posto del tradizionale e compassato "Volo" con cui il nuovo Papa dichiarava l'accettazione della carica, Rodrigo, al termine dello scrutinio, gridò con entusiasmo: "Sono Papa!" e impartì subito la prima benedizione al popolo, mostrandosi raggiante e sorridente. E da subito mostrò le sue doti, dando equilibrio ai suoi primi provvedimenti da Pontefice regnante.

Durante i giorni del conclave Roma era caduta, come di consuetudine, nel caos. Bande di teppisti avevano imperversato e si contavano oltre duecento morti. Alessandro capì che bisognava dare una risposta immediata al desiderio di ordine e di sicurezza. Scovare i delinquenti non era cosa difficile perchè questi, per una lunga abitudine all'impunità, si pavoneggiavano delle loro imprese. Le milizie papaline ebbero ordini precisi e spietati, e divennero finalmente simbolo di legalità, di severissima legalità: le case degli assassini vennero rase al suolo, e sulle stesse macerie si innalzava la forca alla quale veniva impiccato il colpevole. E il 26 agosto, quando ci fu l'incoronazione ufficiale di Alessandro VI, Roma si presentava come una città tranquilla ed ordinatissima alla quale, quasi in premio del suo ravvedimento (sollecitato a colpi di impiccagioni...), il nuovo Pontefice donò uno di quegli spettacoli che facevano andare in visibilio il popolo. La cerimonia dell'incoronazione in San Pietro e il successivo corteo per andare a prendere formale possesso del Palazzo Laterano furono quanto di più sfarzoso si fosse mai visto a Roma, un misto di esibizione di magnificenza, di pomposità, di gigantismo. Al centro del corteo, che sfilò per oltre sei ore, stava l'imponente figura del Papa stesso, maestoso, dalla figura alta, massiccia e piena di energia, in sella ad un cavallo bianco, vero sovrano capace di ammaliare la fantasia delle folle.

Iniziò così anche formalmente il regno di Alessandro VI, che per prima cosa si scontrò con una dura realtà: le finanze vaticane, al di là delle apparenze sempre sfarzose, vivevano in perenne asfissia, non essendo mai sufficienti le entrate a pareggiare completamente i costi di un apparato che era il più elefantiaco del mondo. Tra l'altro tutti i cattolicissimi regnanti europei avevano sempre diversi problemi quando si trattava di versare l'obolo dovuto alla Cattedra di San Pietro, mentre a carico delle finanze vaticane viveva un incredibile numero di persone non produttive, dipendenti di una burocrazia antiquata ma in perenne crescita, ivi inclusi quei cardinali a cui la Chiesa era tenuta a provvedere "comunque" e in misura adeguata al loro status di Principi.

BUSTARELLE PER LE INDULGENZE - Insomma, nonostante la Chiesa avesse varie entrate, comprese quelle derivanti dal quasi monopolio sulla produzione dell'allume (sostanza indispensabile per tingere le stoffe), proveniente dalle miniere della Tolfa, poichè non si riuscivano a comprimere le spese, era necessario reperire nuove forme di guadagno. E fu con Alessandro VI che la vendita delle indulgenze e degli uffici ebbe uno sviluppo così smaccato da suscitare scandalo anche in una società che sembrava ormai capace di assorbire qualsiasi nefandezza. Addirittura esisteva un ufficio apposito, la Datarìa, che aveva il compito di mettere ordine in questo settore. E ai fondi della Datarìa il Papa poteva accedere direttamente, senza passaggi burocratici, che si sarebbero rivelati comunque imbarazzanti, perchè Alessandro VI aveva bisogno di molti soldi, non solo per le sue spese "familiari", ma anche per far fronte alle ambizioni sempre maggiori dei figli.

Nei piani del Pontefice ognuno dei figli aveva un posto ben preciso. Mentre la prediletta Lucrezia era comunque destinata, dati gli usi dell'epoca, a divenire "merce di scambio" per matrimoni politici. Cesare, a soli diciotto anni, ebbe la porpora cardinalizia, nello stesso concistoro che nominò cardinale anche il fratello di Giulia Farnese. Juan era invece destinato alla carriera "civile": succeduto al fratellastro Pedro nella titolarità del ducato di Gandia in Spagna, ebbe una rapida ascesa, divenendo successivamente anche capitano generale, signore di Terracina e Duca di Benevento. Ma questa veloce carriera fu interrotta bruscamente la notte del 14 giugno 1497, quando Juan, dopo aver partecipato ad una festicciola familiare in casa di Adriana, la cugina prediletta del padre, non fece più ritorno a casa.

Il suo corpo fu rinvenuto due giorni dopo nel Tevere; il Duca di Gandia era quasi irriconoscibile, martoriato da diecine e diecine di colpi di pugnale e di spada. I sicari avevano fatto un lavoro accurato. La morte di Juan gettò il Papa nella più cupa disperazione, acuita anche dal mistero che circondò l'assassinio e dalle voci insistenti che volevano il fratello Cesare non estraneo al crimine. In effetti quest'ultimo da tempo scalpitava, mal accettando la sua posizione di ecclesiastico, seppur di altissimo rango, e non nascondendo la sua invidia per la carriera mondana e politica in cui invece era avviato il fratello.

CESARE, UN MOSTRO FIGLIO DI PAPA - E in effetti, mentre l'incolore Joffre andava sposo, giovanissimo, a Sancia d'Aragona, e si trasferiva poi nel Regno di Napoli, dove sarebbe morto nel 1517, Cesare iniziò la sua incredibile ascesa dopo la morte del potente fratello Juan. Si dice che Cesare esercitasse sul padre una notevole e nefasta influenza: sta di fatto che Alessandro VI, che per creare Cesare cardinale non aveva esitato a compilare un falso documento in cui lo si dichiarava "nipote", al quale era stato concesso benevolmente l'uso del cognome Borgia, non seppe rifiutare la richiesta del figlio, che ora voleva essere ridotto allo stato laicale. E Cesare, ora che aveva anche formalmente la libertà di agire, iniziò la sua avventura.

Ottenuta dal Re Carlo VIII di Francia (formalmente alleato del Papa dopo la goffa "invasione" dell'Italia del 1494 con la quale il giovane monarca voleva, tra le altre cose, deporre Alessandro, Papa corrotto e simoniaco, e fu da questi invece subornato) il titolo di Duca di Valentinois, divenuto cognato del Re di Navarra, iniziò l'invasione delle Romagne con truppe fornite dal re francese e finanziate dal pontefice. Ufficialmente il "Duca Valentino" (così era chiamato in Italia) doveva rivendicare i diritti papali su quelle terre: di fatto iniziò la costruzione di un suo regno personale, conquistando Imola e Forlì e ingrandendosi via via fino a raggiungere Perugia e Città di Castello.

In tutte queste campagne diede prova di crudeltà senza pari, ricorrendo, quando lo reputava conveniente, al tradimento e all'inganno. Il Papa stava a guardare questo figlio che ormai gli impartiva ordini, gli ingiungeva di non allearsi con gli Aragonesi per non creare imbarazzi al Re di Francia, costruiva un regno sui territori che erano della Chiesa. Fu Cesare Borgia l'ispiratore di Machiavelli quando questi volle descrivere il tipo ideale di "principe". E Cesare, già sospettato per l'assassinio del fratello, fu anche il principale indiziato per un altro fosco episodio, che si consumò addirittura all'interno delle mura vaticane: l'uccisione di Alfonso di Aragona, marito di Lucrezia, che l'aveva dovuto sposare quando il padre Alessandro, interessato a stringere alleanza con la casa d'Aragona, fece dichiarare nullo il primo matrimonio della figlia con Giovanni Sforza.

.... E AMBIZIOSO FINO ALL’OMICIDIO - Un primo tentativo di assassinio andò a vuoto: ignoti sicari accoltellarono Alfonso, ma la forte fibra del giovane ebbe la meglio. Si dice che Cesare, che si recò in visita al capezzale del ferito, fu sentito sussurrare "ciò che non s'è fatto per colazione, si farà per cena." Probabilmente la frase è inventata. Sta di fatto che il matrimonio "politico" di Lucrezia con un membro della casa di Aragona cozzava contro gli interessi del re di Francia e quindi contro quelli del Duca Valentino. E il 18 agosto 1500 Alfonso di Aragona, convalescente dalle ferite, fu trovato strangolato nel suo letto.

Da parte di molti fu fatto il nome di Cesare. Il padre, il potente ALESSANDRO VI, l'uomo che non aveva avuto alcun scrupolo per spianarsi la strada al papato, nè alcun scrupolo nel creare ricchezze e titoli per i figli, l'uomo che, come si diceva a Roma "vendeva le opere della Chiesa e poteva ben farlo, visto che le aveva comprate", ormai manifestava apatia, incapacità a dominare il figlio, mentre la figlia prediletta Lucrezia prendeva la via della corte Estense di Ferrara, andando sposa al duca Alfonso d'Este, finalmente svincolandosi dalla corte vaticana e vivendo serenamente, apprezzata dai suoi nuovi sudditi, i suoi ultimi anni. Cesare continuava a imperversare: stroncò la ribellione di Senigallia, e fu anche l'occasione per regolare i conti ormai ultradecennali con la famiglia Orsini.

Alessandro VI fece imprigionare a Castel Sant'Angelo il cardinale Orsini, lo fece avvelenare, confiscò i beni di famiglia, sfrattò familiari e servi. Cesare a questo punto giudicò di poter eliminare i fautori della rivolta di Senigallia, i due nipoti dell'ormai eliminato cardinale Orsini, e li fece strangolare. Alessandro VI, si diceva, era ormai uno strumento nelle mani del Duca Valentino, vittima del mostro da lui stesso creato, di questo figlio che aveva appreso dal padre una vita di inganni, scelleratezze, consumate all'ombra della Croce di Cristo. E il 18 agosto del 1503 Alessandro VI, stroncato da un attacco di malaria, morì. Erano passati esattamente tre anni dal giorno in cui una mano omicida aveva messo fine, nel suo stesso palazzo, alla vita di Alfonso di Aragona. Le leggende fiorirono anche sulle ultime parole del Papa: secondo alcuni morì invocando il Demonio, secondo altri fece in tempo a chiedere perdono dei propri peccati.

MORI’ INVOCANDO SATANA... SI DISSE - Resta il fatto che, pur sfrondandolo dalle molte leggende, il pontificato di Alessandro VI rappresenta probabilmente il punto più basso a cui arrivò la storia della Chiesa. L'aver abbellito Roma, o l'aver protetto artisti come il Pinturicchio o il Sangallo rientrava in uno stile rinascimentale: era quasi un dovere. Ma la morte di papa Rodrigo Borgia, Alessandro VI, che, salvo una vaga devozione, più che altro di maniera, per la Vergine, non mostrò mai altri interessi che non fossero quelli di sfrenato potere per sè e per i suoi figli, questa morte, dicevamo, non suscitò commozione nè rimpianti in alcuno. Roma, eterna e a tutto adattabile, mise pochissimo tempo a far sparire ogni traccia dell'esecrando periodo. La vita continuava.

La morte del Papa fu l'inizio della fine per Cesare Borgia. Il Duca Valentino era caduto malato assieme al padre, ma la sua forte fibra e la giovinezza ebbero la meglio sul morbo. Conscio del fatto che senza Alessandro VI i suoi molti nemici avrebbero iniziato a presentargli il saldo dei conti, Cesare ebbe però motivo di sperare con l'elezione a Papa di Francesco Piccolomini, nipote di Pio II, che prese il nome di Pio III.

Quest'ultimo confermò Cesare Borgia nella carica di capitano generale della Chiesa. Ma il pontificato di Pio III non durò che un mese: vecchio e malato, il Papa morì il 18 ottobre del 1503, probabilmente anche a causa delle fatiche imposte dalla complicata cerimonia dell'incoronazione. E dopo la morte di Pio III, Cesare fece il suo primo grave errore di valutazione, brigando (disponeva ancora del controllo dei cardinali spagnoli) per l'elezione a Papa di Giuliano della Rovere, già acerrimo nemico di Alessandro VI.

Della Rovere divenne Papa, col nome di Giulio II, e subito disattese le promesse che aveva fatto a Cesare in cambio dell'appoggio dei porporati spagnoli, tra cui quelle di confermarlo nella carica di capitano generale e di tutelare il "suo" ducato di Romagna, che senza la sua presenza si andava sfaldando. Cesare Borgia non contava più senza l'uomo che era il suo specchio e il suo succube, Alessandro VI. Svanito il sogno del Regno in Romagna, imprigionato dal già amico Re di Francia, Cesare, passato ora al servizio della Navarra, morì nel 1507 presso la città spagnola di Viana, dove si trovava alla testa di un esercito navarrino, per combattere la ribellione del conte Juan di Beaumont. Le circostanze della sua morte sono note: fu ucciso da alcuni soldati di Beaumont, che se l'erano visto arrivar contro, solo, in una specie di forsennata carica. Meno noti sono i reali motivi del comportamento di Cesare, che fece il marchiano errore (difficilmente pensabile per un generale del suo valore) di arrivare da solo a contatto del nemico, essendosi tagliato fuori dal collegamento col resto dell'esercito. E infatti non pochi parlarono di suicidio, un suicidio condotto con energia, virulenza, e comunque con coraggio. Un suicidio degno del Duca Valentino.

di PAOLO DEOTTO

Ringrazio per l'articolo
concessomi gratuitamente
dal direttore di Storia in Network

segue l'elezione del successore - PIO III...

PIO III, Francesco Todeschini-Piccolomini, di Siena
(pontificato 1503 - nemmeno un mese)
Alla notizia della morte del Borgia (Alessandro VI), il popolo romano si abbandonò in manifestazione di gioia. Era del resto stato il suo pontificato uno dei periodi più tristi della storia della Chiesa, un'età di corruzione e di nepotismo, di crisi dell'autorità spirituale e temporale del Papa.
Diffusasi la notizia della sua morte, a Roma erano precipitosamente rientrati gli Orsini e i Colonna, nel tentativo di riprendere il loro antico prestigio. E nel farlo qualche tumulto lo incitarono ma senza particolari conseguenze.

Il figlio del papa morto, Cesare (il Valentino) era ancora a letto con la stessa febbre perniciosa che aveva condotto alla tomba il padre; tuttavia, aveva inviato i suoi scagnozzi in Laterano, e aveva già provveduto a mettere le mani sul tesoro pontificio, due casse di monete d'oro, oltre una discreta quantità di oggetti di valore. Inoltre sempre con i suoi soldati teneva sotto controllo la situazione, soprattutto in Vaticano, dove doveva avvenire la nuova elezione e dove ovviamente mirava a influire sul suo andamento o meglio a dominare le sorti del conclave.
Il collegio cardinalizio temendo proprio un colpo di mano del Valentino per eliminare questo pericolo venne subito a patti con lui, assicurandogli un salvacondotto di tre giorni nello Stato Pontificio, garantendogli i suoi possedimenti in Romagna e il titolo di gonfaloniere della Chiesa. Non lo volevano però nel conclave, e nemmeno a Roma. Cesare - che malato com'era non era di certo nelle condizioni di fare diversamente - accettò di lasciare Roma entro tre giorni, e malandato com'era andò a proseguire la convalescenza a Nemi.

Il 16 settembre 1503, si riunì il conclave formato da 38 cardinali; una buona parte erano Spagnoli, l'altra composta da Francesi. I primi erano legati ai Borgia, i secondi in contrasto proprio con gli Spagnoli, per il fatto che da qualche tempo stavano litigando per la spartizione del Regno di Napoli , che insieme avevano strappato agli Aragonesi. Gli italiani erano pochi, inoltre non contavano nulla, anche se - guidati dall'abile Giuliano Della Rovere- erano loro l'ago della bilancia.
Nessuno dei due gruppi - com'era di norma per l'elezione di un nuovo pontefice - poteva raccogliere i due terzi di voti; fu quindi allora accettata la proposta italiana di una candidatura di transizione in attesa del maturare degli eventi.

Il 22 settembre i voti andarono a un anziano e devoto cardinale di Siena, che non era mai stato impegnato politicamente e questo ne aveva facilitato la scelta, però era con il piede già nella fossa, perchè da tempo sofferente di gotta; il prescelto era Francesco Todeschi Piccolomini, nato a Siena il 9 maggio 1439, figlio di una sorella di Pio II, ed infatti dopo essere stato eletto papa prese il nome di Pio III.
Fu consacrato nella basilica di S. Pietro dal cardinale Riario l'8 ottobre, ma soffriva di così gravi disturbi ed era così malandato che - com'era costume - non andò nemmeno a prendere possesso della basilica di S. Giovanni in Laterano.

Giuliano Della Rovere che capeggiava il gruppo cardinalizio italiano, con l'elezione del malconcio Piccolomini, era convinto di poterlo manovrare a suo modo. Ma per la sua indole di uomo amante della pace, Pio III non volle prendere dure posizione nei confronti di Cesare Borgia, anzi, quando il Valentino - sempre in convalescenza a Nemi - fece una accorata richiesta di tornare a Roma, nella sua ingenua bontà, il papa la concesse, così giustificandosi "I cardinali spagnoli hanno interceduto per lui e mi hanno detto che egli è gravemente ammalato e che non può più guarire. Desidera ardentemente tornare a Roma per esalarvi l'ultimo respiro; gli ho concesso questa grazia."

Cesare era invece perfettamente guarito, e tornò sì a Roma, ma si trincerò da padrone a Castel S. Angelo, allarmando gli Orsini e i Colonna, che subito chiesero al papa di farlo catturare. Ma ancora una volta la bontà di Pio III ebbe la meglio "E' mio dovere essere misericordioso con tutti" e condannò qualsiasi azione fosse intrapresa contro "...il diletto figlio Cesare Borgia di Francia, duca di Romagna e di Valenza, gonfaloniere della Chiesa". Anche se poi aggiunse "...ma vedo che finirà male dinanzi al giudizio di Dio"

Quando poi Pio III il 13 ottobre si mise a letto per un altro improvviso attacco di gotta, gli Orsini e i Colonna, insieme tentarono un colpo di mano per eliminare il Borgia, ma andò a vuoto. Pochi giorni dopo, il 18 ottobre, Pio III moriva. I cronisti maligni dell'epoca dissero "assassinato" con un veleno propinatogli da Pandolfo Petrucci, signore di Siena, ma dal Piccolomini considerato usurpatore e tiranno della sua città natale.

Il pontificato di Pio III non era durato nemmeno un mese.
Le sue spoglie mortali, assieme a quelle dello zio, vennero in seguito (nel 1614) trasportate nella chiesa di S. Andrea della Valle, in Roma.

La morte di Pio III, non colse impreparato il collegio dei cardinali, tutti sapevano che la sua malattia irreversibile l'avrebbe a breve termine portato alla tomba, quindi i maneggi tra i diversi gruppi per una nuova elezione erano iniziate già all'indomani della sua elezione. Infatti quando il 31 ottobre 1503 si riunirono in conclave, dopo poche ore elessero Giuliano Della Rovere, che prese il nome di Giulio II.
....segue la biografia del successore: PAPA GIULIO II....

GIULIO II, Giuliano della Rovere, di Savona
(pontificato 1503-1513)
Giuliano della Rovere nasce ad Albisola il 5 dicembre 1443. La famiglia, nobile da alcuni anni, ha già un suo membro candidato al trono papale; si tratta di Sisto IV (pontificato 1471-1484) , zio di Giuliano, che nei primi studi aiuterà il giovane nipote nella carriera ecclesiastica. Prima ancora che Sisto IV salga sul soglio, Giuliano diviene vescovo di Avignone e di altri sedi fra cui Bologna e Vercelli e ha anche la legazione della Marca e dell'Umbria.
Poi appena salito sul soglio (1471) lo zio al 28enne nipote gli dà la porpora di cardinale.

Sia dallo zio papa, sia da papa Innocenzo VIII, Giuliano riceve importanti incarichi diplomatici e missioni politiche presso la corte francese e in Olanda. Queste sue esperienze gli permette di contrarre vincoli di amicizie presso i regnanti di Francia e ciò gli sarà particolarmente utile quando chiederà l'aiuto del re francese Carlo VIII contro il papa Mediceo Alessandro VI, sotto il cui pontificato egli è costretto a vivere dieci anni in Francia, esule da Roma.

Era quello uno dei periodi più tristi della storia della Chiesa, un'età di corruzione e di nepotismo, di crisi dell'autorità spirituale e temporale del Papa. Per capovolgere la situazione ci voleva un uomo innanzitutto di nazionalità italiana, ricco di cultura rinascimentale, oltre che un uomo di azione, cioè
un principe che va alla conquista di un regno come un soldato.
L'obiettivo doveva essere: la restaurazione della potesta temporale della Chiesa assai compromessa nell'Italia delle Signorie, ed era una potestà che desiderava accomunare tutto il territorio italiano.

Finalmente, il 31 ottobre 1503, ormai 60enne, la tenace avversione allo scandaloso pontificato di Alessandro VI, è premiata. Alla morte di quest'ultimo per un attacco di febbre perniciosa (di malaria, ma alcuni dicono avvelenato) e dopo il brevissimo
(nemmeno un mese) pontificato di Pio III, Giuliano viene eletto Papa col nome di GIULIO II.
Più che un papa di chiesa, fu poi - per il suo procedere guerresco- definito un "papa soldato". Purtroppo la sua eccessiva audacia e impulsività non gli permetteranno di coronare i suoi intenti.
Si era scelto il nome Giulio, non tanto in omaggio al pontefice che aveva portato quel nome, quanto per ammirazione verso Giulio Cesare. E nonostante i suoi 60 anni, di animo e più ancora di aspetto era veramente cesareo, più adatto a fare un principe o un capitano d'esercito che non un papa. "Ma di un tal papa (sostiene il Rohrbarcher) aveva bisogno quel tempo".

Alla sua elezione ci furono i soliti maneggi tra i diversi gruppi di cardinali. Giuliano riunì il 20 ottobre nel palazzo Vaticano i cardinali spagnoli e Cesare Borgia (non del tutto ripreso dallo stesso male che aveva colpito Alessandro VI). Il Borgia nella speranza di poterlo sfruttare diede il suo voto favorevole a Giuliano Della Rovere, ma questi a sua volta contava di sfruttare il Borgia,
promettendogli di crearlo gonfaloniere della Chiesa, assicurardogli i domini, di unire in matrimonio il nipote Francesco della Rovere con una figlia del duca. Il Valentino - che non si era mai fidato di nessuno - non fece bene i suoi calcoli fidandosi proprio nel Papa che era stato il nemico più accanito della famiglia Borgia. Ma ciò non ci deve recare meraviglia. Le condizioni di Cesare Borgia erano tali da indurlo ad accettar l'amicizia di chi lo aveva sempre avversato. Egli aveva difatti perduta gran parte del suo stato, e le stesse Romagne che gli si erano mantenute fedeli, ora erano in subbuglio e gli sfuggivano di mano. 
Pandolfo Malatesta aveva ceduto Rimini ai Veneziani; in potere di questi ultimi erano cadute Faenza, Montefiore, Sant'Arcangelo, Verucchio, Porto Cesenatico e parecchie altre terre;  al Valentino non rimanevano che le rocche di Forlì, Cesena, Forlimpopoli e Bertinoro.

Il 31 ottobre 1503, in poche ore i 27 cardinali avevano eletto Giuliano, il giorno dopo lo proclamarono.
Per prima cosa Giulio II, avverso com'era alla famiglia del suo predecessore, non volle abitare l'appartamento dei Borgia, per non vedersi davanti i loro ritratti o i loro stemmi.
Suo pensiero dominante - e lo comunicò a tutti i sovrani - la restaurazione della potestà temporale della Chiesa, oltre il proposito di abbattere l'impero turco. Esortava quindi i sovrani di Spagna a far la pace con la Francia, onde unire le loro armi nella santa impresa. In cuor suo altro impegno, era quello di distruggere non solo i loro stemmi da ogni edificio ma i Borgia stessi.

Ma per distruggere l'opera dei Borgia, era necessario liquidare il duca Valentino e la di lui famiglia. Delle sue intenzioni il pontefice dava prova l'anno dopo (1504), quando con una bolla tolse il ducato di Semoneta a Rodrigo Borgia per assegnarlo al Gaetani, e a Cesare non concesse la carica promessagli di capitano generale della Chiesa. Il Borgia rodendosi dalla rabbia si accorse presto del suo errore, delle mire del papa, ed era indispettito perchè i territori della Romagna erano in subbuglio, e Venezia pronta ad impadronirsene, aveva già occupato Faenza, Ravenna, Cervia e scesa fino a Rimini, la parte migliore della Romagna.
Giulio in questa situazione non proprio chiara, anzi piuttosto ambigua dei veneziani, non volle rompere del tutto con il Valentino, gli sembrò invece più opportuno incitarlo a riconquistare quei territori, temendo che passassero in soggezione di Venezia (a suo parere già troppo forte).

In effetti i veneziani speravano di giocare il pontefice, dandogli a credere che quanto facevano in Romagna, lo facevano contro il suo nemico Cesare Borgia e non contro di lui.
Giulio non si fece incantare dai veneziani e agì subito: intimò al Borgia di consegnargli tutte le terre della Romagna. Cesare cominciò a nicchiare, e allora il papa diede ordine che fosse catturato e tradotto a Roma.
La cattura fu eseguita da Mantova, e il suo ambasciatore narra che Cesare era all'improvviso diventato vile e pauroso, e che piangendo pensava al suo triste destino, convinto che l'avrebbero condannato a morte. Giulio invece non arrivò a tanto, quando l'ebbe davanti non si mostrò crudele; gli assegnò perfino un appartamento dentro il Vaticano, ovviamente sotto stretta sorveglianza.
Dalla sua quasi prigionia, il duca scrisse e ordinò ai suoi capitani di consegnare le città ai messi papali. I capitani di Forlì e Bertinoro non vollero eseguire l'ordine dicendo che l'avrebbero eseguito solo alla presenza del duca in piena libertà; quello di Cesena non solo si rifiutò ma i messi del papa li fece impiccare. Giulio a Roma andò su tutte le furie e rinchiuse questa volta Cesare nella torre dei Borgia.

Però nel frattempo gli spagnoli avevano rialzato la testa in seguito alle vittorie di Consalvo Borgia di Cordova contro i francesi nell'Italia meridionale. I
n brevissimo tempo tutto il reame di Napoli era caduto in potere della Spagna, la quale, l' 11 febbraio del 1504 concluse a Lione una tregua di tre anni con la Francia. Giulio a quel punto acconsentì ad un accomodamento pacifico col Valentino; lo liberò, lo mise sotto la sorveglianza del cardinale spagnolo Carnayal, e lo mandò in Romagna dandogli tempo 40 giorni per convincere i capitani di Cesena, Forlì e Bertinoro a consegnare le fortezze delle città.
Bertinoro e Cesena (ma non Forlì) consegnarono le fortezze, e Carnayal dopo aver ricevute in mano le città, ad insaputa del pontefice mise il libertà il Valentino, il quale si precipitò a Napoli presso lo zio cardinale Lodovico Borgia. Consalvo di Cordova, non solo lo accolse bene, ma gli promise delle milizie per riconquistare la Romagna. Doveva però chiedere in Spagna a Re Ferdinando il Cattolico, che per tutta risposta invece di assentire, gli passò l'ordine di catturare il Valentino, perchè pericoloso alla pace d'Italia.

Il 27 maggio 1504, Cesare fu catturato, incatenato, rinchiuso nel castello di Ischia. Il 20 agosto successivo inviato in Spagna in catene e rinchiuso nel castello di Medina del Campo. Ma pur sorvegliato a vista, Cesare il 25 ottobre 1506 calandosi da una finestra riusci a evadere dalla fortezza. Andò a rifugiarsi presso il cognato Giovanni d'Albrette, re di Navarra.
Giulio II apprese la notizia con qualche timore, subito allontanato quando il 12 marzo 1507 gli giunse un'altra rassicurante
notizia che l'informava che Cesare era caduto combattendo in una banale battaglia sotto le mura del castello di Viana contro un ribelle del cognato.
Così finiva, quasi nell'oscurità, i suoi giorni questo principe che con ogni mezzo era riuscito a costituirsi in Italia uno stato potente. La sua sorte provava chiaramente come fossero di durata effimera quegli stati acquisiti con il nepotismo delle famiglie papali, con le nefandezze, con la forza, con la minaccia delle armi, con i crimini.
 

Tuttavia, Machiavelli parlando dell'opera politica del Valentino nel "Principe" dice: " Benchè l'intento suo non fosse di far grande la Chiesa, non di meno ciò che fece tornò a grandezza della Chiesa, la quale, spento il duca, fu erede delle fatiche sue". Vale a dire che il Valentino aspirò a formarsi un principato nei territori pontifici, dove imperversava l'anarchia. Vi riuscì, ma non potè conservarlo per sè, perchè Giulio II, con mano energica, seppe spodestarlo e recuperare alla Chiesa le terre di Romagna che il Valentino aveva riordinate.

Cio che accadde dopo la morte del Valentino (i fatti d'armi e le contese fra Stati e Chiesa, con Giulio II in testa a cavallo con la spada in mano) vi suggeriamo di leggere le pagine dedicate fino al 21 febbraio 1513 in "Storia d'Italia"....Capitolo Giulio II- Lega Cambrai- Lega Santa
Di fronte ai due stati stranieri che avevano messo piede nel settentrione e nel mezzogiorno d'Italia non rimanevano che due sole potenze, Venezia e lo Stato Pontificio, le quali avrebbero potuto impedire la rovina della penisola se fossero andate di accordo.
Per riavere le terre occupate dai veneziani Giulio II in un primo momento si limitò a lanciare contro la potente città lagunare semplici ammonimenti a titolo di rivendicazione. Ma poi risoluto a rimettere nelle mani della Chiesa tutti i possessi che le erano appartenuti, GIULIO II aveva ricusato le proposte di Venezia che si dichiarava pronta a pagare alla Santa Sede un tributo per le città che aveva acquistate, e nel novembre del 1503 a NICOLÒ MACHIAVELLI aveva manifestato il suo fermo proposito di ricuperare quelle città dicendo che se non fossero restituite egli «avrebbe fatto ogni estremo sforzo e provocati tutti i principi cristiani » contro i Veneziani. Vedendo che i suoi reclami rimanevano lettera morta, nel gennaio del 1504 il Pontefice pubblicò una bolla con la quale ingiungeva ai Veneziani di restituire tutti i luoghi di Romagna; ma all' ingiunzione il doge rispose che "mai si renderia dette terre, anche se dovessimo spendere fino le fondamenta delle nostre case". Una sfida dunque.

Alle minacce di scomunica, Venezia rispondeva con insolenza. Alle parole di Giulio "Io non mi rimarrò fino a che non vi abbia fatti umili, e tutti pescatori siccome foste", l'ambasciatore Pisani pare sorridesse di compassione e di rimando rispose "Vieppiù vi faremo noi, Padre Santo, un piccol chierico, se non sarete prudente".
A complicare ulteriormente le cose ai veneziani ci si mise l'imperatore Massimiliano I che accampava diritti su alcune città occupate da Venezia in terraferma, dove da un po' di tempo la Repubblica di San Marco stava allargandosi; e per le stesse ragioni anche il re di Francia che - come duca di MIlano - aspirava a Bergamo, Brescia, Cremona.

Non riuscendo ad ottenere ciò che chiedeva con pacifiche trattative, approfittò Giulio II, divenendo il promotore della nascita di una lega ai danni di Venezia. La Lega fu conclusa a Cambrai il 10 dicembre 1508. Vi aderirono i francesi, l'imperatore, il re di Spagna Ferdinando, il marchese di Mantova, i duchi di Savoia e di Ferrara ed altri principi minori.
La superba Venezia confidando nelle sue forze iniziò le ostilità con le truppe condotte da Niccolò Orsini e Bartolomeo di Alviano. I quali affrontarono il conflitto senza un vero e proprio piano di guerra, cosicchè il 14 maggio 1509 ad Agnedello avvenne lo scontro tra Francesi e i Veneziani. che ebbero la peggio, furono battuti. Ma più che una battaglia stavano perdendo una guerra; i nemici invadevano il suo territorio da tutte le parti, e tutti puntavano sulla laguna. Il pericolo era enorme per la stessa sua sopravvivenza. Ma qualche saggio salvò la Repubblica. Per prima cosa sciolse dall'obbedienza tutte le città della terraferma, così ognuna provvide alla propria difesa dall'occupazione straniera. Poi con Giulio II si dichiarò pronta (e inviò a Roma sei delegati) a restituire le città contestate. Il papa che non aspirava che a quel recupero, trattò la pace separatamente con i veneziani e in San Pietro ci fu la riconcialiazione.

La pace separata non piacque a Luigi XII, che oltre che strepitare, inalberò la bandiera della ribellione contro il pontefice; ad una assemblea di cardinali convocata prima a Orleans poi a Tours, stabilì che "il papa non ha la facoltà di far guerra a un principe straniero fuori dello Stato Pontificio; e che verificandosi il caso il principe aggredito ha facoltà di impossessarsi dei domini della Chiesa e di negare obbedienza al romano pontefice". Si ritornò insomma a proclamare i privilegi della chiesa di Francia e la nullità delle censure contro i medesimi.

Giulio non si perse d'animo. Prima fulminò con la scomunica il re di Francia e i cardinali ribelli (14 ottobre). Poi montò a cavallo e alla testa delle truppe accorse di persona contro il Bentivoglio (filofrancese), deciso a impadronirsi di Bologna. Aveva 70 anni, gli strapazzi e le fatiche incisero sul suo fisico. Si mise a letto con la febbre alta, ma nel delirio lanciava invettive contro i francesi. Quando riprese un po' di forze, un cronista bolognese narra che disse "...che non voleva più rasar la barba fino a quando aveva scalzato fora el re Ludovico de Franza dall'Italia".
Alla fine di un dicembre molto rigido, Giulio II lasciò il letto, e contro il parere dei medici, il 2 gennaio 1511 si portava all'esercito che stringeva d'assedio Mirandola in mano ai nemici.
Girolamo Lippomano, ambasciatore veneto così scrisse "Giulio II è comparso contro l'aspettazione di tutti. Da quanto pare è pienamente ristabilito: gira intorno al campo nel turbinio di neve; non teme nè vento nè pioggia, ha una tempra da gigante. Ieri dì e oggi ha nevicato senza interruzione; la neve arriva al ginocchio dei cavalli, pur tuttavia il papa sta nel campo".

Per star vicino alle truppe, si stabilì al chiostro di S. Giustina. E poco mancò l'animoso pontefice di rimanerci per sempre. Il 17 gemmaio una palla di cannone nemica cadde nel suo appartamento ferendo due suoi camerieri e mancando di poco il papa (la palla fu poi inviata come ex voto al santuario di Loreto). E quando tre giorni dopo la fortezza capitolava, nella breccia aperta delle mura, Giulio II si arrampicò su per una scala a pioli per essere tra i primi a penetrare.


Il 21 febbraio del 1513 è il giorno in cui Giulio II cessò di vivere, dopo aver compiuto l'ultimo suo atto: l'alleanza che costrinse i veneziani a unirsi a lui nella Lega Santa per lottare contro gli stranieri. Diceva Giulio II all'ambasciatore veneto Giustiniani "Noi vorressimo che li Italiani non fossero nè francesi, nè spagnoli, e che fossero tutti Italiani e loro stessero a casa sua e noi alla nostra". Fu il primo a lanciare il fatidico grido. "Fuori i barbari!". E fu lui stesso a muovere e a comandare gli eserciti contro i mercenari del trono capetingio: lui il primo ad entrare a Modena nella fortezza presidiata dai francesi, attraverso una breccia. Lui a entrare a Perugia, lui a entrare a Bologna. I francesi furono poi cacciati e dovettero abbandonare tutti i loro possessi nella penisola italiana, compresa la Lombardia, anche se Luigi XII non si era rassegnato a perdere una città dell'importanza di Milano.
Purtroppo gli eventi che portarono a cacciare i Francesi ebbero per conseguenza la loro sostituzione con altri stranieri, gli Spagnoli.
Dunque l'opera di Giulio II quando morì, non era ancora compiuta, ma ebbe la soddisfazione di vedere i "barbari" lontani dall'Italia
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Un errore lo commise, forse di principio: credette di restaurare l'influenza religiosa del papato, rendendolo forte militarmente. Comunque fra i principi d'Italia di quel secolo Giulio II fu quello che ebbe una politica arditamente italiana. L'egemonia dello Stato Pontificio in Italia e l'egemonia dell'Italia in Europa: ecco l'ideale perseguito - ma non raggiunto - da papa Giulio II.
Si narra che gettò le chiavi di S. Pietro nel Tevere, e che serbò solo la spada di S. Paolo. E si racconta che Michelangelo quando abbozzava la statua da erigere a Bologna a Giulio II, dopo aver disegnata la mano destra del pontefice in atto di benedire, chiedeva "Ma che farà la sinistra? Porterà un libro?". E Giulio gli rispose: "A me un libro? Mi tratti da scolaro? Voglio una spada".

Liberatosi del Borgia, di Gian Paolo Baglioni, e di Giovanni Bentivoglio, dovè arrestarsi di fronte alla potenza di Venezia: come abbiamo letto aderì allora alla Lega di Cambrai affrettando così la fine dell'unico Stato italiano ancora in grado di resistere allo straniero: fu questo il suo principale errore politico. Resosi in seguito conto del pericolo rappresentato dalla Francia le si volse contro, e oltre che con la Spagna e Svizzera si unì proprio con Venezia nella Lega Santa.
Non commise invece nessun errore quando maturò la felice idea di illustrare la religione con la magnificenza delle arti. Andava dicendo "Noi reputiamo essere nostro dovere di promuovere il culto divino non solo con statuti, ma altresì col buono esempio..... Il saggio Salomone, sebbene non illuminato dalla luce del cristianesimo, non risparmiò alcun sacrificio onde edificare al Signore Iddio una casa degna di Lui". Evidentemente Giulio II non solo voleva imitare ma superare Salomone.
Basterà ricordare l'opera concepita e voluta da Giulio II: la nuova basilica di San Pietro; fu lui a collocare la prima pietra il 18 aprile dell'anno 1506; costruzione dapprima affidata al Bramante.
Una grandiosa mole materiale che desse l'immagine tangibile della grandezza della Chiesa, che Cristo aveva affidato da reggere a Pietro.

Altra scelta felice furono gli artisti chiamati da Giulio II a Roma; i più geniali architetti, pittori, scultori di tutti i tempi. Bramante concepì l'architettura di S. Pietro; Raffaello e poi Michelangelo dipinsero le Stanze e la Cappella Sistina; al secondo commise anche il suo sepolcro, che doveva consistere in un mausoleo gigantesco, coronato di statue e coperto da bassorilievi. Michelangelo non lo condusse a termine; ci resta però la statua del Mosè, che è lo sforzo più originale, più grande e più sublime della scultura cristiana. "In verità nel Mosè di Michelangelo (scrive il Pastor) è incarnato quel papa-re, che umiliava la superba Venezia, restaurava lo Stato ecclesiastico e cacciava dall'Italia i bellicosi francesi. Tutta la terribile violenza e quasi sovrumana energia del papa Della Rovere, ma insieme l'orgoglio, la fierezza e il carattere inflessibile non che il naturale oltremodo veemente e passionale dell'artista parlano da questa figura titanica".

Curiose le relazioni tra Giulio II e Michelangelo, due caratteri che giunsero a lotte violente fra loro, ma che tuttavia si comprendevano a vicenda, diventando perfino inseparabili. Ricorriamo a ciò che scrive l'inglese Addington Sjmonnds "Erano due uomini di egual calibro e dello stesso temperamento; grandiosi nei loro disegni, fieri nell'esecuzione dei loro piani, terribili nel rigore e nell'impeto del loro genio; uomini costrutti moralmente e materialmente con linee di forza e di grandezza, piuttosto che di grazia e di sottigliezza; uomini in cui niente era di volgare o di mediocre, i cui stessi difetti erano improntati di passione e di grandezza. Essi si incontrarono come nubi cariche di elettricità, piene di tempeste e di lampi, e di primo tratto s'intesero l'un l'altro".
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Il Gregorovius dà questo giudizio di Giulio II: " Sulla cattedra di S. Pietro fu uno dei più profani e antisacerdotali tra i pontefici, appunto perchè fu uno dei prìincipi più eminenti del suo tempo". Il Bellamino osserva dal canto suo che "...i pontefici avevano pur l'obbligo di difendere i propri Stati, dal momento che erano prìincipi temporali. Tanto meno poi spetta agli Italiani infamare la memoria del bellicoso pontefice, poichè nella sua politica e nelle sue imprese militari diede un raro esempio di seguire un indirizzo risolutamente nazionalista, precorrendo in tempi forse e meglio dei grandi scrittori di storia e di politica della sua epoca".
"I tempi erano tali - come dice il Burckhardt- che bisognava essere o incudine o martello, e Giulio II, per conservare il suo Stato e per restaurare la potenza della Chiesa, fece da martello".

In sintonia anche il Pastor: "All'estero, dove le cose italiane non si conoscevano da vicino, fece molto scandalo per il procedere guerresco del papa, mentre in Italia l'opera politica di Giulio II veniva quasi generalmente riguardata come indispensabile e benefica per la Chiesa e per la patria... Così Giulio II ci sta innanzi come uno dei più poderosi pontefici dopo Innocenzo III, per quanto ei non fosse un ideale di papa. La critica imparziale infatti non può negare che Giulio II, abbia secondato troppo delle tendenza esclusivamente politiche e proceduto in tutte le sue imprese con una passionatezza e interperanza punto dicevoli a un papa. Genuino, personaggio fuori affatto della comune, egli concepì il suo compito in maniera impetuosa, violenta, con una forza veramente erculea. Ma forse richiedevasi appunto un tale personaggio per diventare il salvatore del papato in un epoca di prepotenza, quale era il principio del secolo XVI" (vol. III, 712).
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Morto Giulio II, i cardinali si chiusero in conclave il 4 marzo e il giorno 11 riuscì eletto GIOVANNI de' MEDICI che, col nome di LEONE X, fu incoronato papa in San Giovanni in Laterano l' 11 aprile del 1513, anniversario della battaglia di Ravenna. 
Nella scelta del Medici, uomo dotto, amante delle arti e della pace, c'era la volontà e il desiderio da cui il collegio cardinalizio era animato di dare alla Chiesa un capo che del predecessore non avesse la natura collerica e l' indole battagliera.
.... vedi biografia del successore: LEONE X ....

LEONE X - Giovanni de' Medici (1475-1521)
(Pontificato 1513-1521)
GIOVANNI nacque a a Firenze l'11 dicembre 1475 dalla nobile casata DE' MEDICI, secondogenito di Lorenzo il Magnifico e Clarice Orsini. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica fu circondato da insigni precettori, raffinati umanisti quali Calcondila, Poliziano, Ficino, Eginota, Bibiena, crescendo in mezzo al fasto della casata medicea, che gli ispirò l'amore per il lusso e le prodigalità e quella passione per tutte le arti, che tanto distinsero il suo pontificato. Ottenne fin dalla fanciullezza cospicui benefici: nomina ad abate di Montecassino e di Morimondo, nomina a Protonotaio Apostolico a soli sette anni, nomina cardinalizia da parte di Innocenzo VIII avvenuta a soli tredici anni, con l'obbligo però di assumere le insegne soltanto dopo tre anni. Studiò per un triennio diritto canonico a Pisa, dove ebbe come compagno Cesare Borgia.

Nel 1492, una volta preso pubblicamente il cappello cardinalizio si trasferì a Roma, ma si trovava a Firenze quando, nel 1494, ebbe luogo la caduta dei Medici e fu proclamata la Repubblica. Allora per alcuni anni Giovanni prese a girare, trovando asilo dapprima alla corte urbinate di Guidubaldo di Montefeltro ed Elisabetta d'Este Gonzaga insieme al fratello minore Giuliano e al cugino Giulio (il futuro Clemente VII), poi viaggiò nei Paesi Bassi, in Germania e in Francia, dove conobbe molti uomini illustri ma dove venne anche arrestato, a Rouen, e quindi espluso. Ritornò a Roma nel 1500 e qui prese alloggio nel palazzo di san Eustachio, attuale palazzo Madama, residenza dei Medici in città, facendo vita mondana e dedicandosi agli studi umanistici, al teatro contemporaneo (nell'autunno del 1514 farà rappresentare nelle sue stanze la commedia Calandria del cardinale Bernardo Dovizi, il Bibiena), al collezionismo di antichità e al mecenatismo artistico (tra i pittori da lui ricercati e protetti figura l'ammiratissimo Raffaello, cui commissionò svariati lavori).

Nel 1511 ricevette da Giulio II l'incarico di Legato per la Romagna; l'11 aprile 1512 assistette alla battaglia di Ravenna dove venne catturato e fatto prigioniero dai francesi vincitori. Condotto a Milano riuscì tuttavia a fuggire prima di essere trasferito in Francia. Grazie al contributo dell'esercito ispano-pontificio riuscì a ristabilire la signoria medicea a Firenze (1512-1513) che governò insieme al fratello Giuliano.

Morto Giulio II (21 febbraio 1513), nel conclave che si aprì, abile fu il lavorio del segretario privato del cardinale de' Medici, Bernardo Dovizi il Bibiena, che riuscì a rendere bene accetta ai cardinali la presenza di un Medici sul trono pontificio, considerato anche esponente di una tendenza conciliatrice dopo il turbinoso pontificato di Giulio II; e considerata anche la salute malferma del seppur giovane candidato, che perfino in sede di conclave dovette stare a letto e subire degli interventi chirurgici, e che non lasciava intravedere un lungo periodo di governo. Il cardinale de' Medici fu eletto al soglio pontificio il 9 marzo 1513, scegliendo di chiamarsi LEONE X. Aveva appena trentotto anni. La sua incoronazione si fece attendere una decina di giorni, il tempo occorrente per poter ordinare il neoeletto sacerdote e vescovo.

Fin dai primi atti del suo governo mostrò di non possedere lo spirito battagliero del suo predecessore. Per la situazione caotica in cui versava l'Italia con i vari conflitti, Leone X cercò di condurre una politica meno belligerante, con un'azione di mediazione diplomatica, dal perdono concesso ai cardinali che avevano organizzato il "Conciliabolo" di Pisa, alla riconciliazione ufficiale con Pompeo Colonna, che aveva tentato di aizzare il popolo in un folle tentativo di instaurare una repubblica, e alla buona opera di mediazione compiuta a Firenze, nella scoperta della congiura di Boscoli e Capponi contro i Medici, per salvare la vita di Machiavelli. Non fu nemmeno costante nella posizione politica europea: da antifrancese a filofrancese, e infine, a filoimperiale, navigò nella doppiezza, ma fondamentalmente ebbe a cuore la sua famiglia: creò cardinale il cugino Giulio, futuro Clemente VII, e il nipote Innocenzo Cibo.

Purtroppo in vari punti della penisola si erano accese varie dispute: Francia e Spagna erano decise a ignorare ogni compromesso, e tanto meno a rinunciare alla loro ambizione; i veneziani avevano stipulato un'alleanza con i francesi il 23 marzo 1513 a Blois. L'intenzione era quella di sferrare un attacco agli svizzeri che controllavano il ducato di Milano. L' attacco avvenne e si concluse con la battaglia di Melegnano (1515) e la riconquista francese del ducato; il papa rimase a guardare, anche quando Francesco I si impossessò di Parma e Piacenza già assegnati allo Stato Pontificio tre anni prima. Lo lasciò fare, per avviare poi trattative segrete al fine di ricomporre tutti i contrasti esistenti a Bologna, dove furono gettate le basi di un concordato che regolasse definitivamente la questione religiosa in Francia.

Gli accordi si chiusero con un Trattato di pace firmato a Viterbo il 13 ottobre 1515, con cui il pontefice cedette Parma e Piacenza e il sovrano si obbligò a garantire l'autorità dei Medici a Firenze. Mentre il 18 agosto 1516 venne stipulato un Concordato che conteneva la soppressione (finalmente!) della Pragmatica Sanzione di Bourges del 1438, ma in compenso la curia papale dovette fare sacrifici grandissimi: il re di Francia ricevette il diritto di nomina per tutti vescovadi (93, fra cui 10 arcivescovadi), le abbazie (527) e i priorati del suo regno; al papa rimase solo il diritto immediato di collazione per un numero ristretto di casi e la facoltà di confermare i candidati alle sedi vescovili, da nominarsi entro sei mesi dalla vacanza. Questa sistemazione ebbe il buon effetto si stroncare le tendenze scismatiche della nazione francese e di riannodare più strettamente il paese alla Santa Sede fino alla Rivoluzione.

Nello stesso giorno Leone X dava l'investitura del ducato d' Urbino al nipote Lorenzo, figlio del fratello Piero de' Medici, che il 30 maggio di quell'anno, alla testa delle truppe pontificie e fiorentine era entrato a Urbino da dove poco prima era fuggito, riparando a Mantova.

Sempre nel 1517 la vita del pontefice corse serio pericolo per una congiura ordita all'interno del Sacro Collegio ad opera del cardinale Alfonso PETRUCCI, figlio di quel Pandolfo, signore di Siena, da alcuni sospettato di aver eliminato Pio III; era morto anche lui, lasciando il potere all'altro suo figlio, Borghese, ma Leone X nel 1516 lo aveva scacciato da Siena affidandone la signoria ad un altro Petrucci, Raffaello, vescovo di Grosseto, che aveva in vantaggio di essere amico del pontefice. Accecato dall'odio e assetato di vendetta, il cardinale Petrucci avrebbe voluto assassinare Leone X, ma resosi conto che la stretta sorveglianza da cui era circondato il papa non avrebbe consentito di attuare il progetto, decise di ricorrere al veleno. Corruppe il medico del pontefice, Pietro Vercelli, e lo indusse ad avvelenare la medicatura che era solito dare ad una fistola a cui Leone X soffriva da tempo. Ma una lettera diretta al suo segretario Antonio de Nini venne intercettata e la congiura fu scoperta. Il cardinale Petrucci arrestato e processato, fu fatto strangolare in castel sant'Angelo il 6 luglio; il de Nini e il Vercelli subirono sorte peggiore.

Nel processo risultarono coinvolti ben quattro cardinali: il Riario, decano del Sacro Collegio, il Sauli, il Volterrano e il Castellanese. Furono tutti deposti e riuscirono ad evitare il carcere solo dietro pagamento di forti somme di denaro. Il Riario perse anche il suo palazzo, che fu da allora assegnato a sede della Cancelleria. Leone X, accortosi che tredici cardinali che componevano il Sacro Collegio gli davano così preoccupanti prove di inimicizia, per circondarsi di persone devote, nominò in una sola volta trentuno nuovi cardinali, fatto che non si era mai verificato prima. In ogni caso quelle condanne a morte cancellarono di colpo i precedenti atti di magnanimità e perdono del pontefice e tanto più le grazie concesse sub condicione ai quattro cardinali furono fortemente criticate in Italia e Germania.


Durante il pontificato di Leone X si ebbe l'elezione del nuono imperatore, successore del defunto Massimiliano I d'Asburgo. I principi elettori elessero a Francoforte il 28 giugno 1519, l'appena ventenne CARLO V di Spagna, figlio di Filippo d'Asburgo e Giovanna di Castiglia, incoronato ad Aquisgrana nell'ottobre 1520. Il giovane imperatore era riuscito a far convergere su di lui i voti appoggiandosi alla potente banca dei Fugger (850.000 fiorini di prestiti promessi!), che si ripagò il favore imperiale con vasti possedimenti, grazie alla quale era riuscito a 'convincere' gli elettori. Il giovane imperatore era così venuto a trovarsi improvvisamente nella posizione di sovrano più potente d'Europa: un complesso blocco eterogeneo frutto di quattro eredità distinte, con una costellazione di principati e città libere; un agglomerato di repubbliche mercantili e urbane e di signorie feudali, spesso travagliate da lotte intestine; la Castiglia e le conquiste castigliane, nell'Africa settentrionale, nell'area caraibica e nell'America centrale; l'Aragona e i domini aragonesi d'oltremare e cioè Napoli, la Sicilia e la Sardegna.

Insomma stava iniziando l'avventura storica, politica e umana del monarca spagnolo che costruì un impero "sul quale non tramontava mai il sole". Leone X si convinse a dare il suo appoggiò quando si rese conto che Carlo V poteva costituire un ottimo appoggio per un tentativo di unificazione politico-religiosa dell'Europa.
Qualche tentativo di riforma e unificazione fu avviato con la conclusione del Concilio Lateranense V, aperto da Giulio II nel maggio 1512, e che si era protratto per parecchio tempo anche con Leone X. Nella sessione VIII (dicembre 1513) era stata condannata la dottrina della duplice verità in filosofia e teologia e nella sessione XI (dicembre 1516) con la bolla 'Pastor aeternus' veniva rigettata la Pragmatica Sanzione di Bourges (vedi sopra) e la teoria conciliarista, con la dichiarazione solenne che al romano pontefice spetta una giurisdizione plenaria sopra tutti i concili, la loro convocazione, il loro trasferimento e scioglimento.

Circa la questione specifica della riforma, furono emanate alcune buone disposizioni riguardanti la nomina ai benefici ecclesiastici, la condotta del clero e dei laici, l'esenzione, le tasse curiali, i diritti dei religiosi rispetto all'esercizio della cura d'anime, ecc.; ma nel loro complesso erano norme troppo superficiali e blande, come dimostrarono le clausole restrittive aggiunte. Ma il vero problema era la mancanza di una ferma volontà pontificia di una energica attività riformatrice.

Quello della politica religiosa è del resto un capitolo estremamente controverso del pontificato leonino. L'esaurimento delle già compromesse finanze papali (il mantenimento della corte leonina costava ben 100.000 ducati annui), la necessità di reperire i fondi per l'immenso cantiere di san Pietro, dove i lavori per l'erigenda basilica procedevano sempre piu a rilento, costrinsero il papa a un sensibile aggravio delle imposte, che aveva già causato il complotto del Petrucci (vedi sopra). A ciò si assommava l'esigenza di fronteggiare il pericolo turco, che ormai spadroneggiava con numerose scorribande per tutto il Mediterraneo. Inoltre, le costanti richieste di interventi di riforma, specie nel nord Europa, dove la situazione religiosa e politica era ormai in rapidissima evoluzione, convinsero Leone X a concedere, come già prima di lui i suoi predecessori, un'indulgenza plenaria da divulgarsi in tutta la cristianità.

L'indulgenza era (ed è) un condono delle pene che il credente dovrebbe scontare nel Purgatorio e in vita, che il papa concede a quei fedeli, sinceramente pentiti, disposti a compiere particolari penitenze (pellegrinaggi, elemosine, opere meritorie). Lo "sconto" offerto da questi certificati d'indulgenza era proporzionato all'importo del denaro versato. Quale commissiario dell'indulgenza per grande parte della Germania il papa nel 1515 nominò il giovane principe di Hohenzollern Alberto di Brandeburgo. I redditi ricavati dall'indulgenza dovevano venire devoluti per la metà alla fabbrica di san Pietro; l'altra metà veniva rilasciata all'arcivescovo, per dargli modo di pagare le gravi tasse dovute alla curia papale per la conferma della sua elezione e per la cumulazione di tre vescovadi (14.000 e 10.000 ducati), più esattamente per estinguere il debito di 29.000 fiorini contratto a tale scopo presso i banchieri Fugger di Augusta.

Ma fu proprio in Germania che si ebbero particolari abusi e scandali. Addirittura il predicatore domenicano Johann TETZEL giunse ad affermare che ad ottenere l'indulgenza per i defunti bastava la sola offerta dell'elemosina ("...appena il tintinnio della monetina tocca il fondo della cassetta delle offerte..."), anche senza lo stato di grazia. Chi, pagando una certa somma, riusciva ad entrare in possesso del documento scritto (i vivi direttamente, i morti tramite i parenti ancora in vita), poteva ottenere uno sconto sulla pena (per i vivi anche sulle pene future!), a prescindere naturalmente dalla fede personale di chi lo acquistava o di chi ne beneficiava. In tal modo i benestanti potevano facilmente mettersi la coscienza a posto. Addiritture era stato creato un tariffario (la 'taxa camarae', composta di 35 articoli), che catalogava le colpe in base alla gravità; in questo modo tutti i crimini, anche i più orrendi, potevano essere perdonati in cambio di denaro. Ne riportiamo alcuni articoli più significativi:
"[...] I sacerdoti che volessero vivere in concubinato con i loro parenti, pagheranno 76 libbre, 1 soldo. [...] La donna adultera che chieda l'assoluzione per restare libera da ogni processo e avere ampie dispense per proseguire i propri i rapporti illeciti, pagherà al Papa 87 libbre, 3 soldi. [...] Il vescovo o abate che commettesse omicidio per imboscata, incidente o per necessità, pagherà, per raggiungere l'assoluzione, 179 libbre, 14 soldi. Colui che in anticipo volesse comperare l'assoluzione di ogni omicidio incidentale che potesse perpetrare in futuro, pagherà 168 libbre, 15 soldi. [...] Il frate che per migliore convenienza o gusto volesse passare la vita in un eremo con una donna, consegnerà al tesoro pontificio 45 libbre, 19 soldi. [...] I laici contraffatti o deformi che vogliano ricevere ordini sacri e possedere benefici, pagheranno alla cancelleria apostolica 58 libbre, 2 soldi. Uguale somma pagherà il guercio dell'occhio destro, mentre il guercio dell'occhio sinistro pagherà al Papa 10 libbre, 7 soldi. Gli strabici pagheranno 45 libbre, 3 soldi. Gli eunuchi che volessero entrare negli ordini, pagheranno la quantità di 310 libbre, 15 soldi [...]".
Come si può vedere la Chiesa cattolica aveva raggiunto l'apice massimo in fatto di corruzione. Tra il malcontento generale si levò una voce, quella del monaco agostiniano tedesco MARTIN LUTHER (latinizzato in Lutero), nel cui sistema teologico (ricordiamo il voto di farsi monaco, l'esperienza della Torre, il suo commento alla Lettera ai Romani) ormai non c'era più posto per l'indulgenza. Il 31 ottobre 1517 questi affisse, secondo l'uso accademico, all'ingresso della chiesa del castello e dell'università di Wittenberg 95 tesi formulate in latino, sul valore e l'efficiacia delle indulgenze (Disputatio circularis pro declaratione virtutis indulgentiarum ) e altri problemi connessi. Queste tesi ebbero una risonanza enorme, in poche settimane si diffusero in tutta la Germania: molti speravano che dal suo intervento provenisse la spinta decisiva per una vera riforma della Chiesa.

Ma il suo scritto non fece altro che suscitare polemica: Tetzel contrappose alle tesi luterane delle tesi contrarie, il celebre teologo cattolico Eck lo accusò di sostenere le stesse tesi di Jan Hus, vale a dire la negazione dell'autorità del papa e dei concili. Frattanto la curia romana aveva cercato di ricondurre l'agostiniano alla retta dottrina per mezzo dei superiori del suo ordine ma invano; poi nel luglio del 1518, Leone decise di convocare il monaco a Roma, dove quest'ultimo confermò nuovamente le proprie posizioni; il mese successivo risolse ancora di farlo convocare, in Germania, dal cardinale Caietano, suo inviato alla dieta imperiale di Augusta, e di farlo incarcerare e mandare a Roma se avesse perseverato nella sua linea; se invece fosse stato contumace, di scomunicarlo.

Accolse quindi fiduciosamente le generiche promesse di sottomissione del monaco e attese fino al 1° giugno 1520 prima di condannare i punti fondamentali della sua dottrina (bolla Exsurge Domine). A sua volta il 10 dicembre il teologo ribelle di Wittenberg, bruciò in pubblico platealmente la bolla papale.
Leone rispose il 3 gennaio 1521 con la scomunica (bolla Decet Romanum ponteficem). Si stava prospettando la rottura definitiva fra il papato e il monaco. Ma quando arrivò la promulgazione dell'editto imperiale di Worms (25 maggio 1521),
con cui Carlo V poneva Lutero al bando dall'impero e ordinava la distruzione dei suoi scritti, il mondo germanico e del nord Europa aveva già avviato il distacco dalla Chiesa cattolica di Roma, e il monaco tedesco aveva già trovato ospitalità presso il principe elettore Federico di Sassonia.

Ricordando questi avvenimenti, appare chiaro come Leone X si sia mostrato inadatto alla situazione enorme che si era trovato a fronteggiare ed è azzeccata l'affermazione del Seppelt secondo cui egli «fu per la Chiesa una indicibile sfortuna e una fatalità che sulla cattedra di Pietro sedesse lui. Quando la catastrofe incombeva, egli non si rese conto della sua gravità e non fece nulla per allontanarla, perchè il suo buon senso si dissolveva in frivolezze e in politici intrighi».

Se la politica religiosa fu un vero disastro, nel corso dei nove anni di pontificato di Leone X fu tanto lo splendore a cui salirono le arti e le lettere italiane, da essere uno dei maggiori papati più prolifici che la storia ricordi. Ciò che valse a rendere illustre questo papa e a farlo annoverare fra i grandi italiani, fu l'aver riunito intorno a sè e l'avere incoraggiato e protetto i maggiori ingegni dell'epoca. Basti accennare a Michelangelo, Raffaello, Bembo, Sadoleto, Sannazzaro, Castiglione, Guicciardini, Erasmo, Giuliano e Antonio da Sangallo, Sansovino, Peruzzi, Romano ; piu freddo verso l'Ariosto, ostile verso il Machiavelli.
Leone X arricchì la Biblioteca Vaticana, restaurò e ampliò la Biblioteca già voluta dal padre (e detta appunto Laurenziana) dopo i saccheggi compiuti dai seguaci di Savonarola: compito, questo, che avrebbe portato a termine il cugino Clemente VII affidando i lavori a Michelangelo. A quest'ultimo commissionò la facciata di san Lorenzo a Firenze. Affidò a Raffaello la decorazione delle Logge del Vaticano. Mandò dovunque dotti esploratori alla ricerca di preziose antichità, acquistò manoscritti latini che erano all'estero, contribuì allo sviluppo e alla diffusione della stampa, protesse e favori la stamperia del Muzio. Istituì scuole e università che divennero famose per gli uomini che vi pose a insegnare.
Creò un collegio per gli studi greci sotto la direzione di Giano Lascaris. Favorì gli studi di arabo ed ebraico ed ebbe come segretari ai Brevi umanisti quali Pietro Bembo, Jacopo Sadoleto e Angelo Colocci (che fu anche segretario apostolico). Bembo (a Roma dal 1512 al 1519) raccolse poi epistole e brevi papali, esempi del suo gusto ciceroniano, negli 'Epistolarum Petri Bembi Cardinalis et Patricii Veneti, nomine Leonis X Pontificis Maximi scriptarum libri XVI'; Colocci fece della sua villa romana (detta anche Horti Colotiani) un importante luogo di elaborazione e diffusione dell'umanesimo romano dopo l'esperienza dell'Accademia romana di Pomponio Leto.

Su sollecitazione di Leone X Jacopo Sannazaro attese all'edizione del poemetto cristiano, lungamente elaborato, 'De partu Virginis' e Marco Girolamo Vida diede inizio alla 'Christias', un poema sulla vita e la passione di Cristo, che completò tuttavia soltanto nel 1527, sotto il pontificato di Clemente VII. In questa vera e propria "età dell’oro" delle arti, giunge a maturazione quel linguaggio antichizzante e classicista su cui si erano esercitati gli umanisti quattrocenteschi, e che comincia davvero ad affermarsi come strumento di comunicazione universale.

Non da meno la passione architettonica. Raffaello progettò Palazzo Branconio dall’Aquila e poi Palazzo Vidoni-Caffarelli; Antonio da Sangallo elaborò, in Palazzo Baldassini, nuove proposte tipologiche di derivazione antiquaria che poi troveranno applicazione anche al momento della costruzione di Palazzo Farnese in via Giulia, mentre in Palazzo Alberini-Cacciaporci e in Palazzo Maccarani Giulio Romano mise a punto ulteriori varianti tipologiche dello stesso segno. Baldassarre Peruzzi realizzò la residenza suburbana di Agostino Chigi alla Lungara (la Farnesina) che può ben dirsi il luogo dove, grazie anche al determinante appoggio decorativo di Raffaello, forse più che altrove si raggiunge quell’auspicata 'unione delle arti' che ne fa ancor oggi uno degli edifici più rappresentativi e ben conservati dell’epoca.

Tutta la città si rinnovò su iniziativa di molteplici promotori. In questo contesto il ruolo propulsivo di Leone X è centrale e determinante. Grazie al suo mecenatismo possono prendere il largo operazioni urbane raffinatissime e svilupparsi progetti di svariata natura. La sua passione antiquaria, inoltre, lo porterà a cercare di prendere provvedimenti anche in materia di conservazione del patrimonio monumentale antico, minacciato dalle attività edilizie più disparate. In tal senso risulta fondamentale la nomina di Raffaello a sovrintendente dei 'magistri viarum', con mansioni d’ispettore generale del patrimonio artistico. Raffaello svolse per il papa anche il ruolo di architetto della Fabbrica di san Pietro, proponendo per la chiesa un progetto a pianta longitudinale che risentiva di stilemi bramanteschi ed elaborando un’idea di nuova piazza rettangolare dominata al centro dalla presenza di un alto obelisco (1514).

Per il cardinale Giulio de’ Medici l’urbinate progettò inoltre la Villa Madama a Monte Mario, realizzata solo in parte, che venne esemplata dichiaratamente sul modello della villa pliniana di Tusci e rappresenta una delle più complesse opere architettoniche realizzate attingendo elementi compositivi derivati dal vocabolario progettuale dell’antichità. La presenza di Antonio da Sangallo in qualità di assistente di Raffaello in questi due ultimi cantieri ricorda l’alta considerazione che di lui ebbe il papa, il quale lo impiegò anche in progetti più direttamente legati alla sua persona, come nel caso della complessa opera di riprogettazione di piazza Navona e adiacenze, per dare forma a una vera e propria 'cittadella medicea' nell’area più rappresentativa dell’antico Campo Marzio. Nelle intenzioni del pontefice, infatti, l’area tra il Pantheon e piazza Navona avrebbe dovuto accogliere un’enorme residenza papale (dapprima progettata da Giuliano da Sangallo nel 1513 e poi da Antonio da Sangallo), oltre ad altre funzioni direzionali. La facciata del palazzo si sarebbe proiettata sulla piazza, che veniva così a essere a sua volta l’emanazione fisica del potere papale e principesco dei Medici. Se questo progetto urbanistico sfumò, altri non meno importanti vennero realizzati. Leone X si rivolse alla zona più orientale della città, verso la porta del Popolo. L’obiettivo era quello di mettere in collegamento la zona medicea di piazza Navona con quella che era la porta urbana più frequentata dell’epoca, nell’idea di rifunzionalizzarla in pieno.

Nel 1517 venne aperta la via di Ripetta, denominata anche Leonina, che costeggia il Tevere fino alla porta. La fama di Leone X si diffuse ovunque e il fatto che il suo pontificato coincise con l'apogeo del Rinascimento hanno spinto alcuni storici e letterati a chiamare quel periodo col nome di 'papa Medici'.

Dopo aver da poco elevato Carlo V a difensore della fede cattolica contro il luteranesimo dilagante, una volta aver rivisto ritornare Milano nelle mani degli Sforza, assicurate allo Stato Pontificio Parma e Piacenza, per la quale a Roma già si preparavano grandi avvenimento, Leone X morì improvvisamente, il 1° dicembre 1521. La sua improvvisa scomparsa, a soli 46 anni, dopo appena otto di pontificato, fece circolare la voce che fosse stato avvelenato; per questo fu arrestato il suo coppiere, Bernabò Malaspina. Il maestro delle cerimonie di corte, Paride de Grassis insistette presso i medici per l'autopsia, ma non se ne fece nulla e tutto fu messo a tacere. La voce che parlò invece, come sempre, fu quella di Pasquino, che tra sarcasmo e maldicenza così salutava il papa mediceo:
Gli ultimi istanti per Leon venuti,
egli non poté avere i sacramenti.
Perdio, li avea venduti!
Di certo la continua ebbrezza intellettuale e materiale (non sono poche le testimonianze intorno ad una sua presunta omosessualità) in cui visse questo papa fece coincidere la sua volontà di vita con la voglia di vivere del suo tempo. Il suo desiderio di godere la vita e di evitare grandi responsabilita gli fece tollerare scandali di prelati e cortigiani, lo indusse a creare cardinali indegni, per brama di appoggi e ricchezze, senza rendersi conto che ormai l'unità cristiana dell'Europa era definitivamente compromessa. Floscio e obeso come lo dipinge Sebastiano da Piombo, ci appare idealizzato in una placida signorilità nel celeberrimo ritratto di Raffaello (oggi ammirabile nella Galleria di Palazzo Pitti a Firenze). Sepolto momentaneamente in san Pietro, fu poi trasferito nel suo mausoleo, disegnato dal Sangallo, in santa Maria sopra Minerva.
segue il suo successore: ADRIANO VI....

ADRIANO VI - Adriaan Florensz Dedel (1459-1523)
(papato 1522-1523)
ADRIAAN FLORENSZ Dedel, nacque a Utrecht in Olanda il 2 marzo 1459. Nonostante le umili origini fu teologo, professore e rettore dell'università di Lovanio dove ebbe come allievo Erasmo da Rotterdam. Fu scelto dall'imperatore Massimiliano come precettore del nipote Carlo, futuro imperatore, fino al 1515, riuscendo ad infondere una forte religiosità sul giovane. Questo tipo di formazione profondamente meditativa e contemplativa unita al carattere già profondamente introverso del suo protetto, diede vita ad una personalità di ottimo spessore culturale, intrisa di un fervente cattolicesimo, quasi mistico, che portavano il futuro sovrano, in casi di particolare difficoltà, anche a lunghi periodi di abbandono eremitico e di preghiera.

La protezione imperiale gli facilitò la carriera: vescovo di Tortosa e Inquisitore di Aragona e Navarra in Ispagna nel 1516; nominato da Leone X cardinale-presbitero del titolo dei santi Giovanni e Paolo nel 1517; Governatore generale della Spagna nel 1520.

Il conclave apertosi alla morte di Leone X era dominato da due correnti: quella filo-imperiale e quella filo-francese; non mancavano, però, rappresentanti di Enrico VIII, quale il cardinale Volsey. Il favorito sembrava fosse Giulio de' Medici (futuro Clemente VII). Dopo lunghe discussioni i suffragi furono dati al fiammingo Adriano di Utrecht, eletto il 9 gennaio 1522, malgrado la nazionalità straniera e le umili origini. Pochissimi a Roma lo conoscevano e ci volle poco a capire che la scelta di un tal cardinale si doveva alla preponderanza del partito di Cesare. Quando ricevette la notizia della sua elezione Adriano si trovava a Vittoria, città spagnola; accettò esclusivamente in obbedienza a Dio, cosciente della grave responsabilità a cui era stato chiamato.

Assunto il nome di ADRIANO VI, chiamato dall'Aretino 'la tedesca tigna', si preparò a partire, ma soltanto nell'agosto del 1522 riuscì a giungere in Italia, dopo aver rifiutato gli inviti di Enrico VIII, Francesco I e Carlo V che lo pregavano di recarsi presso le rispettive corti. Durante la sua assenza il governo fu tenuto da tre cardinali scelti a sorte ogni mese. Una volta entrato in Roma, venuto a conoscenza che si stava per costruire un arco trionfale in suo onore, che sarebbe costato cinquecento ducati, ordinò che fossero subito sospesi i lavori.

Con l'ascesa al trono pontificio di Adriano VI si passò dal fiorente mecenatismo e dalla mondanità della corte di Leone X all'austerità di questo monaco fiammingo che improntò la sua missione apostolica a rigore e severità. In un messaggio affidato ad un suo Legato, Francesco Chieregati, alla Dieta di Norimberga del 25 novembre 1522 riconobbe apertamente "gli abomini, gli abusi e le prevaricazioni della corte romana; [...] malattia profondamente radicata, sviluppata ed estesa dal capo ai membri". Il tentativo di riforma intera incontrò le resistenze venali di una curia corrotta e ostile; per questo invitò a Roma Gian Pietro Carafa (futuro Paolo IV), per affidargli la riforma dei costumi e della disciplina del clero. Agli ecclesiastici che reclamavano perchè venivano privati di tanti emolumenti era solito ripetere: " Il papa deve ornar le chiese con i prelati e non i prelati con le chiese".

Tentò anche di arrestare, in Germania, i progressi di Lutero, invitando i principi tedeschi all'unità, rispettando la messa al bando dall'impero di Lutero. Ma a causa dell'ostilità largamente diffusa contro Roma, il suo appello incontrò una ben scarsa eco. Lutero potè continuare senza interruzione i suoi attacchi violenti contro la Chiesa; libelli come il "Monaco vitello" e il "Papa asino" uscirono in quel tempo dalla sua penna.

Si rese fautore di un'intesa tra il cattolico Impero, con Carlo V, e la cattolica Francia, con Francesco I, unendo le forze in una spedizione contro il pericolo turco: Rodi era caduta in mano musulmana il 25 dicembre 1522. Ma suo malincuore dovette aderire alla lega imperiale contro i francesi quando si accorse che Francesco I simpatizzava per gli ottomani e si preparava ad impadronirsi del Regno di Napoli.

Interessantissima una sua affermazione, tratta da un suo Commentario, sull'infallibilità papale: "Se per Chiesa romana si intende il suo capo o pontefice, è indiscutibile che egli possa errare anche su argomenti concernenti la fede. Lo fa quando predica l'eresia nei propri giudizi o nelle proprie decretali. In verità molti pontefici romani furono eretici, e l'ultimo di essi fu papa Giovanni XXII".

Nonostante la vasta impresa di riforma intrapresa, Adriano VI, forse perchè non amante delle arti e delle lettere (scrive il Negri: "dubito molto che un dì non faccia quello che dice aver fatto già san Gregorio, e che di tutte queste statue, viva grandezza e gloria romana, non faccia calce per la fabbrica di san Pietro!"), benchè assai caritatevole, non fu per nulla amato dai romani, abituati a spensierate baldorie di feste paganeggianti: quell'integrità morale non suonava affatto bene. L'insofferenza dei romani fu evidenziata dalla voce poetica del Berni che si scagliò contro il papa con versi pieni di sarcasmi e vituperi, talvolta pungenti, spesso semplicemente calunniosi. Nel 1523 Adriano VI allontanò da Roma il poeta per uno scandalo legato ad un amore omosessuale e, forse, anche per aver composto delle rime contro il papa.

Ma la voce più grossa, come sempre in questi casi, fu il Pasquino, portavoce ufficioso di sentimenti e risentimenti di nobili e non. E gli insulti sulle carte, affisse nottetempo al torso di Parione, si moltiplicarono al tal punto che Adriano pensò di liberarsene gettandolo nel Tevere. Fu dissuaso dal duca di Sessa che "con ingegno civile e arguto, disse che ciò non si doveva fare, soggiungendo che Pasquino, ancora nel più basso fondo del fiume, a uso delle rane, non avrebbe taciuto"!.

In questo clima ingiustificato di malcontento generale, Adriano VI improvvisamente si ammalò e morì (secondo alcuni storici a causa della sua smodata passione per la birra) il 14 settembre 1523, dopo neanche due anni di regno. La sua morte fu salutata come una festa; alla porta del medico personale, Giovanni Antracino, fu apposta l'iscrizione 'Liberator Patriae S.P.Q.R.' (al Liberatore della Patria, il Senato e il Popolo Romano). Cardinali, curiali, cortigiane, buffoni e parassiti si unirono all'assurda euforia dei romani, fiduciosi di riguadagnare terreno con il nuovo papa. La Roma gaudente non aveva compreso a fondo questo pontefice che aveva gettato, forse troppo precocemente, forse in maniera esageratamente austera, i semi della futura Riforma cattolica.

Fu sepolto provvisoriamente in san Pietro tra Pio II e Pio III; la 'pasquinata' non tardò ad arrivare: "Hic jacet impius inter Pios", 'Qui giace un non pio tra i Pii". Una semplice ma amara iscrizione, che ebbe comunque una degna e nobile risposta nell'epitaffio che egli stesso preparò per il suo sepolcro: "Adrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam quod imperare ", 'Qui giace Adriano VI, che ebbe la maggiore delle sventure, quella di regnare'.
A farla incidere fu l'unico fedele amico su cui potè contare anche da morto, il cardinale Wilhelm Enkenvoert, che provvide nell'agosto del 1533 a far traslare le sue spoglie in un grandioso mausoleo, opera dello scultore Niccolò Pericoli il Tribolo, nella chiesa dei tedeschi in Roma, santa Maria dell'Anima. Adriano VI fu l'ultimo papa non italiano prima dell'attuale Giovanni Paolo II.
segue il suo successore: CLEMENTE VII.....



CLEMENTE VII - Giulio de' Medici (1478-1534)
(Pontificato 1523-1534)
( due personaggi del suo tempo : BEATRICE CENCI e GIORDANO BRUNO )

IPPOLITO ALDOBRANDINI nasce a Fano (PS) il 24 febbraio 1535 (ma diverse fonti riportano 1536). Studiò a Padova, Perugia e, particolarmente, a Bologna dove si laureò in giurisprudenza. Essendo ottimo giurista ricoprì le cariche di Avvocato concistoriale e Uditore di Rota; venne nominato cardinale nel 1585, l'anno successivo fu inviato come Legato papale in Polonia. L'agitato conclave apertosi alla morte di Innocenzo IX durò circa un mese; il 30 gennaio 1592 ne uscì eletto papa, tra i 52 candidati presenti, grazie ai voti della fazione antispagnola, il cardinal Aldobrandini, che scelse di chiamarsi CLEMENTE VIII.

La riforma cattolica, con il nuovo pontefice, fu energicamente promossa in diversi paesi. Dopo lunga esitazione, nei riguardi della Francia intraprese un'altra politica, diversa da quella dei suoi predecessori immediati e riconobbe, il 25 luglio 1595, come legittimo re di Francia Enrico IV, che due anni prima aveva abbracciato il cattolicesimo, annullando di conseguenza la bolla di Sisto V che lo aveva dichiarato eretico recidivo. Si scongiurò in tal modo il pericolo di un trionfo del protestantesimo in Francia. Con l'editto di Nantes del 30 aprile 1598 veniva infatti riorganizzata in Francia la politica religiosa ponendo al centro il cattolicesimo.

Il pontefice ebbe ancora un notevole successo diplomatico come intermediario tra Spagna e Francia, i cui rispettivi sovrani il 2 maggio del 1598 firmarono a Vervins un trattato di pace, con il quale i confini dei due stati ritornavano ad esser quelli che erano stati stabiliti nel 1559 a Cateau-Cambrésis.

A Clemente VIII fu offerta anche la mediazione di pace tra Enrico IV di Francia e il duca di Savoia Carlo Emanuele. Egli fu lieto dell'incarico ricevuto, ma ben presto comprese tutta la difficoltà del compito assunto e capì anche che non sarebbe riuscito ad accontentare nessuno dei due contendenti perché il francese voleva ad ogni costo riavere il marchesato di Saluzzo e il duca non intendeva cederglielo. Allora, approfittando delle nozze di Enrico IV con Maria de' Medici, mandò in Francia, il cardinale Pietro Aldobrandini, suo nipote, per benedire gli sposi ed iniziare i negoziati di pace. L'opera del legato pontificio non fu facile; questo dovette lottare contro le difficoltà opposte da tutti coloro che avevano interesse a non far concludere l'accordo e specialmente contro l'ostinazione di Carlo Emanuele, che non voleva a nessun costo cedere il marchesato di Saluzzo e voleva uscire con nessuna o poca perdita di territorio e contro quella di Enrico IV, al quale premeva di togliere alla Spagna le comunicazioni tra la Lombardia da una parte e i suoi possessi transalpini dall'altra.

Finalmente però l'opera del cardinale Aldobrandini fu coronata dal successo e il 17 gennaio 1601 fu firmato il Trattato di Lione. Il duca di Savoia cedeva al re di Francia la Bressa, il Bugey, il Valromay, Chàteau-Dauphin ed altri luoghi minori sulla riva del Rodano; Enrico IV cedeva al principe sabaudo il marchesato di Saluzzo, le piazze di Cental, De Monts, Roque-Esparvière e il ponte di Gresin; infine il re e il duca si restituivano le fortezze e i territori occupati durante la precedente guerra e si obbligavano di mantenere rapporti di amicizia e di buon vicinato. Il trattato di Lione fu molto vantaggioso a Carlo Emanuele I; aveva sì, dovuto cedere alcuni territori, ma questi, perché situati oltre le Alpi, molto difficilmente avrebbe in seguito potuto conservare; in cambio conservava Saluzzo, allontanava definitivamente i francesi dall'Italia e manteneva le comunicazioni tra l'Italia e i possessi transalpini della Spagna.

Nel 1597, con l'appoggio del riconosciuto Enrico IV, Clemente ottenne la città di Ferrara. Questa data segnò la fine del potere estense, durato tre secoli. Gli interessi del papato erano arrivati al territorio ferrarese, tanto che il duca Alfonso II (signore di Ferrara, Modena e Reggio) fu costretto a stipulare un patto con la Chiesa nel quale si sanciva che, se lo stesso duca fosse morto senza eredi legittimi, il Ducato Estense sarebbe passato sotto il controllo del papato. Nonostante i tre matrimoni Alfonso non ebbe eredi e decise di lasciare per via testamentaria i suoi possedimenti al cugino Cesare; il papa rifacendosi all'accordo stipulato sancì il passaggio del territorio ferrarese alla Chiesa. Ciò gli valse l'ostilità degli storici estensi. Cesare conserverà Modena e Reggio, ma ormai la illustre casata d'Este si avviava a un triste tramonto.

Deluse invece furono le sue speranze di ristabilire il cattolicesimo in Inghilterra con Giacomo I Stuart; non gli riuscì neanche il progetto di occupare Costantinopoli facendo leva sul capo dell'esercito turco, Sinan Bassà Cicala, un genovese che all'età di quattordici anni, rapito dai turchi, aveva dovuto rinnegare la fede cristiana.
Avvenimento su cui ancora oggi gli studiosi e gli storici molto vivacemente dibattono è la condanna definitiva, firmata dal papa, del 'libero pensatore' nolano, il frate domenicano GIORDANO BRUNO. La sua vita fu un peregrinare continuo, alla ricerca spasmodica della verità con l'incoscienza di abbeverarsi alle fonti più disparate pur di saziare la propria sete.

(vedi qui la biografia, la condanna all'indice, e altro )
("I tempi di Giordano Bruno" )

Comunque sia, verso la fine del marzo 1592 l'inquieto pellegrino, dopo aver visitato svariate cittadine europee e aver avuto già modo di far parlare di sè non solo le gerarchie cattoliche, ma diversi umanisti e centri di cultura europei, giunse in casa Mocenigo a Venezia. Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse insoddisfatto nelle sue aspettative e indispettito per il carattere indipendente del filosofo, contravvenendo alle più elementari regole dell'ospitalità, rinchiuse Bruno nelle sue stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo di averlo sentito "profferire bestemmie e frasi eretiche". Dopo un paio di mesi peraltro il processo, subito iniziato, si presentava in modo abbastanza favorevole all'accusato, che si era difeso sostenendo di aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede si rimetteva pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse aver pronunciato. Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando tutto faceva sperare in una prossima assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al Tribunale centrale del Santo Uffizio.

La prima risposta del Senato, da sempre geloso custode dell'autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, nella considerazione che l'inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare (ci si riferiva ai primi contrasti avuti nel 1575, quando era stato processato perchè erano stati trovati in suo possesso scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti), giunse alla fine il nulla-osta e il 19 febbraio 1593 il gran peregrinare del nolano terminò in una cella del nuovo palazzo del Santo Uffizio, a Roma.

A peggiorare la situazione si mosse, nello stesso anno, un suo vecchio compagno di cella, Celestino da Verona, che, accusato di eresia, pensò di ottenere la grazia per sè scrivendo ai giudici una lettera diffamatoria nei suoi confronti. Accusò Giordano Bruno di aver detto che "Cristo non fu crocefisso ma impiccato sulla forca; che l'Inferno non esisteva; che ci sono diversi mondi nell'universo e che le stelle sono mondi; che morti i corpi le anime trasmigrano in un altro corpo, che Mosè era un mago; che se fosse stato fatto rientrare nell'Ordine dei Domenicani avrebbe dato fuoco al monastero e sarebbe ritornato nei suoi paesi eretici. Sempre nello stesso anno iniziò, a Roma, una nuova fase processuale durante la quale Giordano Bruno accettò le accuse e decise di difendersi da solo subendo una grave disfatta a cui seguì una memoria difensiva che consegnò agli inquisitori il 20 dicembre 1594. Intanto, papa Clemente VIII ordinò che fosse realizzata una completa censura dei contenuti delle opere a stampa del filosofo.

Due anni dopo, nel dicembre del 1596, vennero consegnate a Giordano Bruno le proposizioni e le tesi censurate dalle sue opere, per preparare le sue controdeduzioni. Nel marzo del 1597, Bruno, innanzi agli inquisitori, difese la sua tesi filosofica centrale: l'infinità dei mondi, operando secondo la tattica della doppia verità, già adottata a Venezia. Il collegio giudicante non accettò questo procedere e, dopo averlo torturato, lo invitò a confessare, ma Bruno rifiutò di sconfessare tutto ciò per cui aveva strenuamente lottato. Nel 1598, furono definitivamente presentate le accuse imputate al filosofo che riguardavano gli atti irriverenti che si riteneva fossero stati compiuti nei confronti del clero relativi alle tesi su Cristo, lo Spirito Santo, la Trinità e le tesi eretiche riguardanti l'universo e la sua infinitezza.

Bruno Giordano, ormai distrutto, si dichiarò disposto a pentirsi e ad abiurare, ma compì un gravissimo errore fidandosi di Clemente VIII, che riteneva essere uomo di grande benevolenza ed onestà intellettuale. A lui,infatti, inviò un memoriale di difesa sulle sue tesi. L'errore di giudizio fu fatale, l'Inquisizione decise di attaccare un'altra sua opera, 'Spaccio della bestia trionfante', ritenendola antipapale e richiese al filosofo abiura e pentimento. Questa volta Bruno non rispose e, rifiutando l'abiura il 21 dicembre 1599, firmò la sua condanna a morte.

Clemente VIII, il 20 gennaio 1600, anno giubilare, ordinò la sentenza di morte e la consegna del detenuto alla giustizia secolare. Il filosofo fu riconosciuto "eretico, impenitente e recidivo". Il 17 febbraio Giordano Bruno venne portato al rogo a Campo de' Fiori con la bocca in giova, cioè con una mordacchia che gli impediva di parlare, e fu dato in pasto alle fiamme, spogliato nudo e legato a un palo. La formula recitava "vivi in igne mittantur!". Prima di morire, dopo esser stata pronunciata la sentenza, Bruno proclamò: "Forse avete più timore voi nel pronunziare la mia sentenza che io nel riceverla". Il monumento erettogli nel 1889 sul luogo del supplizio, per onorare in lui l'eroe "vindice della libertà ed umano incivilimento", fu un'iniziativa dei liberi pensatori contro il papato e la Chiesa cattolica. Dei documenti del suo processo finora non si è trovata traccia.


Oltre il caso Bruno, nella serie dei rigidi interventi atti ad estirpare rigorosamente l'eresia, il malcostume e il banditismo, molto spesso attuati con esecuzioni capitali, annoveriamo il caso della giovane BEATRICE CENCI, che molto animò la sensibilità dei romani, da farne un caso ancora oggi rammentato a favore dell'ingiusta giustizia. La giovane Beatrice apparteneva al casato di Francesco Cenci, di nobile stirpe ma di indole violenta, più volte incriminato per i suoi vizi e rilasciato solo grazie alla sua ricchezza; la madre, Ersilia Santacroce, era morta in seguito a un parto gemellare, dopo aver messo al mondo già dodici figli. I fratelli di Beatrice avevano chiesto piùvolte un'udienza papale per denunciare i soprusi paterni: Clemente VIII fu invece costretto a farli esiliare. Presso palazzo Cenci rimasero le due figlie, che in assenza dei fratelli dovettero sopportare i festini organizzati dal padre e subire ancora più forti le violenze del genitore. La più grande, per interessamento dello stesso pontefice, fu inviata come sposa al nobile Carlo Gabrielli della famiglia di Gubbio, riuscendo in questo mondo a salvarsi. Sentendosi isolato, il conte Cenci decise di perseverare nelle sue violenze e nelle sue attenzioni sessuali lontano dagli sguardi di Roma, portando Beatrice e la seconda moglie Lucrezia Petroni nel possedimento della fortezza di Petrella, in Abruzzo, presso L'Aquila. Beatrice, sostanzialmente seviziata, tentò di far pervenire a Roma, tramite persone di corte, una lettera dettagliata al papa che tuttavia non arrivò mai. I continui soprusi la portarono così all'estrema decisione che venne appoggiata dal fratello Giacomo. Ad aiutarli furono due vassalli che odiavano Francesco Cenci: Marzio Catalano e Olimpio Calvetti.

L'idea iniziale era di simulare un sequestro, in occasione di un viaggio a Roma del Cenci, e di farlo uccidere a causa del ritardato pagamento del riscatto. I banditi arruolati dai due commessi però sbagliarono i tempi, quando il conte aveva ormai superato il tratto di strada scelto per il rapimento. Si pensò così di agire durante il sonno. La sera del 9 settembre 1598 le due donne riuscirono con qualche stratagemma a far mangiare un po' di oppio a Francesco, che andando a dormire cadde in un sonno profondo. Vennero poi fatti entrare Marzio e Olimpio, a cui si promise un ottimo compenso, che con freddezza o meno conficcarono, usando il martello, un chiodo nella testa e uno nella gola dell'uomo, che morì poco dopo. Tolti i chiodi il corpo fu avvolto in un lenzuolo e gettato da un balconcino nel giardino sottostante, in modo da poter far pensare che era scivolato. Ma Beatrice, troppo sconvolta e ingenua per ragionare sui dettagli e su come agire, prima di tornare a Roma dette a far lavare il lenzuolo sporco di sangue, giustificandosi con la lavandaia asserendo che, la notte prima, aveva avuto il ciclo.

All'inizio nessuno indagò ma poi il giudice principale di Napoli, non convinto, mandò un commissario a Rocca Petrella per svolgere le indagini. L'uomo non trovò alcun indizio ma alla fine parlò con la lavandaia. Alla donna fu chiesto un parere sull'origine delle macchie e questa fu la prima aggravante che rese Beatrice e gli altri formalmente indagati. Monsignor Guerra, un prelato che si era invaghito della giovane e della sua vicenda, nel tentativo di aiutarla, o forse puntando all'eredità, si preoccupò subito di far eliminare i testimoni. Olimpio fu ucciso a Terni, Marzio fu solo arrestato e nel tentativo di salvarsi raccontò tutto per poi ritrarre quando ebbe il confronto con Beatrice. Ma, quando sembrava che ci si era dimenticati del conte Francesco Cenci, venne arrestato il sicario di Olimpio che confessò tutti i particolari. Monsignor Guerra, ricercato, fuggì da Roma travestito da venditore di carbone.
Lucrezia, Giacomo e Bernardo Cenci vennero portati al carcere di Corte Savella e non resistendo alla tortura della corda (che consiste nel tenere appese le vittime dalle braccia) confessarono. Poi toccò a Beatrice, che resistette, nonostante le braccia slogate. Ma Clemente VIII dubbioso che il giudice Moscati, al quale era stato affidato il caso, fosse stato intenerito dalla figura della giovane trasferì la questione nelle mani di un giudice più severo. Appesa per i capelli alla fine confessò. In difesa dei giovani Cenci si attivarono diversi principi e cardinali che riuscirono a ottenere dal Papa una proroga di venticinque giorni per presentare una difesa. Gli ottimi avvocati romani consegnarono alla scadenza una serie di motivazioni, puntando sul principio della legittima difesa e considerata la cattiva reputazione di Francesco Cenci tutto lasciava ben sperare.

Ma la notizia del matricidio del nobile Paolo Santacroce che si aggiungeva al fratricidio dei nobili Massimi indusse il pontefice a non fare eccezioni. Venerdì 10 settembre 1599 Clemente VIII ordinò l'esecuzione. Mentre si allestiva il patibolo a piazza Ponte sant'Angelo i principali cardinali tentarono ancora di salvare la vita dei ragazzi, o almeno di non farli uccidere e di fargli scontare la pena in prigione. L'avvocato Prospero Farinacci riuscì a parlare con il papa e insistendo ottenne la grazia per il quindicenne Bernardo, che comunque fu costretto a pagare 400.000 franchi entro un anno alla Santissima Trinità di Ponte Sisto. La notizia dell'esucuzione giunse a Beatrice alle sei del mattino, giusto il tempo di fare testamento e lasciare tutto in beneficienza.

La processione verso il patibolo partì dal carcere di Tor di Nona, dove erano rinchiusi Giacomo e Bernardo, che ricevette la notizia della grazia ma a cui fu imposto di assistere all'esecuzione. Accompagnati da numerosi cittadini, il carro del boia passò al carcere di Corte Savella, per prendere Lucrezia e Beatrice. Si doveva raggiungere la piazzetta di Castel sant'Angelo, scelta per il patibolo in quanto luogo di passaggio delle migliaia di pellegrini diretti a San Pietro ai quali si voleva mostrare l'esemplare punizione. La prima a essere uccisa fu Lucrezia, che salì sul patibolo con le mani legate dietro alla schiena e impiegò alcuni minuti prima di mettersi seduta come le aveva indicato il boia. Le venne tolto il mantello e rimase a petto nudo. Pochi istanti e scese la mannaia. Ma in attesa dell'uccisione di Beatrice, fatalmente, un palco dove qualcuno assisteva alla condanna, crollò, e ci furono parecchi morti. Quando salì la giovane Beatrice si attese il colpo di cannone da Castel sant'Angelo, che avrebbe segnalato al pontefice il momento esatto per poterle impartire l'assoluzione papale maggiore in articulo mortis.

La ragazza con fierezza prese posizione, si sistemò i capelli, in modo da non farsi toccare dal boia. Dopo la sua decapitazione fu il turno di Giacomo, che subì un trattamento ancora più atroce. Alle 21.15 il corpo di Beatrice fu condotto e sepolto, come aveva chiesto, nella chiesa di san Pietro in Montorio al Gianicolo. Ma la ragazza non trovò pace neanche dopo la morte. Nel 1798 durante l'occupazione francese un soldato aprì la tomba, rubò il vassoio d'argento su cui era stata posata la testa e si portò via il teschio, episodio di cui fu testimone il pittore Vincenzo Camuccini. Per evitare altre profanazioni e soprattutto polemiche ed imbarazzi per la sepoltura in un luogo sacro di una ragazza eletta a martire dal popolo ma comunque complice di un omicidio, per giunta giudicato proprio da un pontefice, la tomba fu coperta dagli strati superiori delle nuove pavimentazioni e non fu riportata nessun indicazione.

A Castel sant'Angelo, nel luogo in cui è stata decapitata, la notte dell'undici settembre, come hanno riferito a distanza di anni centinaia di persone, si è vista la sua figura aleggiare sopra il ponte, anche se lo scetticismo in questi casi è d'obbligo. Rimane il fatto che la storia e la vita di Beatrice sono emblema di una perpetua ingiustizia, di un'infanzia rubata, di muri di silenzio che costrinsero la ragazza a difendere la sua vita, ma allo stesso tempo a condannarla, in base a delle leggi che non conoscono il sapore del dolore, del senso della violazione di un diritto.

"Annus Domini placabilis" (ma a chi è riferito il 'placabilis'? a Dio o all'anno?) è l'incipit della Bolla con la quale papa Clemente VIII il 19 maggio 1599 annunciava il XII Giubileo, il primo del nuovo secolo; i preparativi erano indirettamente iniziati fin dal dicembre dell'anno prima, quando bisognò porre rimedio ad un eccessivo straripamento del Tevere. Due giorni dopo sospese le altre indulgenze con la Bolla "Cum sancti jubilaei" e, il 30 ottobre, inviò a tutti i vescovi una lettera, il breve "Tempus acceptabile", per esortarli a prepararsi al Giubileo facendosi promotori di pellegrinaggi a Roma. La Porta Santa fu aperta qualche giorno di ritardo sulla tradizionale data di Natale, propriamente il 31 dicembre, per un forte attacco di gotta (disturbo dovuto all'aumento dell'acido urico corporeo) avuto dal papa; tuttavia grande fu la suggestione al momento dell'apertura contemporanea delle Porte Sante nelle quattro Basiliche, quando le campane di tutte le chiese di Roma si misero a suonare, accompagnate dal rombo dei cannoni di Castel sant'Angelo.

La mobilitazione fu grande. Osti, albergatori, bottegai, negozianti vennero diffidati, pena severi provvedimenti, dal rincarare i prezzi; ugualmente prese rigidi provvedimenti per la repressione del brigantaggio e del malcostume; furono vietati i festeggiamenti del Carnevale; venne costruita una casa per ospitare vescovi e sacerdoti poveri d'oltralpe; la comunità ebraica di Roma offrì 500 pagliericci e coperte. Il 1600 è ricordato, perciò, come uno dei Giubilei più intensi: a Roma, che contava circa 100.000 abitanti, vennero circa tre milioni di pellegrini, 200.000 solo il giorno di Pasqua, ai quali veniva concessa l'indulgenza plenaria a patto che visitassero quindici volte le chiese, se stranieri; trenta volte, se romani. Clemente VIII diede, durante l'Anno Santo, un continuo pubblico buon esempio servendo a tavola i pellegrini, ascoltando le confessioni durante la Settimana Santa, salendo in ginocchio la Scala Santa, mangiando ogni giorno con dodici poveri,
visitando ben sessanta volte le Basiliche e recandosi di persona nei luoghi di penitenza per verificarne le condizioni e il funzionamento, mentre i cardinali, in segno di penitenza, rinunciarono ad indossare la porpora. Si mossero in tanti ad aiutare l'azione giubilare del Papa del 1600. La Confraternita di san Filinpo Neri fu, come sempre, in prima linea coaduviata allora dall'opera infaticabile di san Camillo De Lellis. Il papa coinvolse addirittura Filippo, re di Spagna, per rifornire di grano la Sicilia; il viceré di Napoli si recò a Roma facendo al papa l'omaggio di una splendida cavalcata di ottocento cavalli tutti coperti a festa. Sempre in ragione della malattia, Clemente VIII, che aveva programmato la chiusura della Porta Santa per il 31 dicembre 1600, spostò il rito al 13 gennaio 1601.

Qualche anno più tardi anche i Riformati, sull'esempio del Giubileo del 1600, celebrarono un loro Giubileo in occasione della ricorrenza del centenario della ribellione di Lutero (1517-1617). Si conservano monete con la scritta "saeculum Lutheranorum" e il libro "Du jubilé des églises réformées avec l'examen du Jubilée de l'église romaine".

Papa Clemente VIII è anche ricordato per essere il papa del caffè. Questa bevanda, a contatto con la cultura cattolica, incontrò diverse opposizioni. Siccome era una preparazione musulmana, il clero chiese formalmente al papa di proibirla. Ma, narra la leggenda, che Clemente, nel sentire che il caffè era un'invenzione del diavolo, ne chiese un assaggio. Sorseggiandone una tazzina così dichiarò: "È così squisito che sarebbe un peccato lasciarlo bere esclusivamente agli infedeli!". Sempre secondo la leggenda, egli battezzò il caffè per farne una bevanda in grazia cristiana. Da allora il nero liquido iniziò a diffondersi in Europa, diventando un vero e proprio culto, con la nascita delle 'botteghe del caffè', a Vienna, Londra, Parigi e Venezia.

Durante il suo pontificato, Clemente ordinò la pubblicazione di una nuova edizione della Vulgata, detta da lui 'Clementina', dopo che quella di Sisto V era stata ritirata poichè piena di strafalcioni; altresì pubblicò la revisione del Breviario e del Messale, e una rinnovata edizione dell''Index Librorum prohibitorum' (1596).
Nel 1592 fu introdotta nelle chiese di Roma, diffusa dal papa, e nelle altre diocesi la pratica delle Quarantore, istituita a Milano nel 1527.
Nel 1594 avocò la diatriba tra Gesuiti e Domenicani, a causa della faccenda del 'De concordia' del Molina, giunta quasi all'esasperazione, al foro della Sede Apostolica e istituì per lo studio della questione un'apposita commissione, la 'Congragatio de auxiliis gratia', che se ne occupò con deliberazioni e discussioni durate per nove anni. Per cinque volte essa propose di condannare la dottrina di Molina, ma ne fu sempre trattenuta dall'intervento del generale dei Gesuiti Acquaviva e dal cardinale Bellarmino.
Tentativi unionisti furono avviati con le Chiese orientali: i legati del patriarca Gabriele di Alessandria fecero la loro professione di fede cattolica in Roma e dichiararono la loro obbedienza, ma il patriarca che gli successe si allontanò di nuovo. Più a buon fine andò l'unione con i Ruteni o Piccoli Russi, favorita dall'azione propagandistica gesuituca in Polonia. I vescovi ruteni, presieduti dal metropolita di Kiew, nel sinodo di Brest-Litowsk del 1595 decisero di riunirsi con la Chiesa latina sulla base del decreto fiorentino del 1439. Quando Clemente VIII espresse la sua approvazione, l'unione fu proclamata e attuata nel Sinodo di Brest dell'ottobre 1596; i ruteni poterono conservare i loro riti e il matrimionio per i sacerdoti. Non mancarono però violente ostilità: l'arcivescovo di Polozk, Giosafat Kuncewicz, uno dei principali propugnatori della riunificazione, cadde vittima di un crudele assassioni da parte degli scismatici a Witebsk nel 1623; fu canonizzato nel 1867.

Nel 1593 ripristinò molte leggi, abolite da Sisto V, che gravavano gli ebrei con molte oppressive restrizioni economiche e sociali; resteranno in vigore fino al XIX secolo.
Clemente VIII si circondò di personaggi illustri per portare avanti la sua vasta opera di riforma. favorì l'amicizia e la protezione di san Filippo Neri, dei cardinali Bellarmino e Baronio, di personaggi come l'Antoniano, Guido Bentivoglio, Andrea Cesalpino, ma non fu immune dal fenomeno del nepotismo: creò cardinale due suoi nipoti, Cinzio e Pietro Aldobrandini. Ma tra i letterati e gli artisti pare che abbia preferito Torquato Tasso, che gli aveva dedicato una canzone augurale per l'elezione a papa; egli fu il poeta della sua corte papale e per lui in pontefice aveva preparato l'incoronazione in Campidoglio, non avvenuta per la morte del poeta. Nella "Gerusalemme conquistata" il Tasso aveva espresso l'auspicata integrale rinascenza cattolica promossa dal pontefice.

Fu anche papa che promosse lo sviluppo dell'edilizia artistica. In Vaticano, la sala del Concistoro e la sala Clementina (che serve da anticamera all'appartamento pontificio), furono opera sua, come pure la Villa Aldobrandini di Frascati, residenza estiva del pontefice, costruita su disegno di Giacomo della Porta e portata a compimento da Carlo Maderno con gli abbellimenti dei giochi di acqua ideati da Giovanni Fontana.
In particolar modo il Maderno fu il realizzatore delle sue commissioni; questi si lanciò in un intenso piano edilizio, realizzando, tra l'altro, la Manica Lunga, dove erano alloggiate le Guardie Svizzere, la Cappella Paolina, l'Appartamento dei Principi, la bellissima Sala Regia, il Salone degli Svizzeri e la Cappella dell'Annunciazione, affrescata da Guido Reni.
La cupola della basilica di san Pietro fu finalmente completata.
Si ebbe con lui anche la completa cristianizzazione degli obelischi orientali (in genere venuti dall'Egitto, dove erano nati come culto al dio sole) installati in tante piazze romane. A molti di essi Clemente VIII annesse una peculiare indulgenza. Il primo a beneficiarne fu naturalmente l'obelisco vaticano. La Roma paganeggiante del Rinascimento era ormai lontana, la città eterna riacquistava il ruolo di punto referenziale di conversione per ogni cristiano.
Clemente VIII si spense il 3 marzo 1605, a 69 anni.
A lui è toccato l'onore di aprire il nuovo secolo.

il suo successore PAOLO III .....

PAOLO III, Alessandro Farnese, romano  (1534-1549)
(Pontificato 1534-1549)
ALESSANDRO nacque a Canino (VT) il 29 febbraio 1468 dalla nobile ed antica famiglia FARNESE, figlio di Pierluigi e Giovannella Caetani. Formatosi alla corte fiorentina di Lorenzo il Magnifico, visse la giovinezza in modo movimentato e gaudente, essendo amante di caccia e divertimenti. Abbandonata questa vita si dedicò esclusivamente alla causa di Cristo, percorrendo rapidamente i gradini della carriera ecclesiastica, grazie al suo ingegno, alla sua cultura, e alla protezione di Alessandro VI e Clemente VII: Protonotaio Apostolico nel 1491, Tesoriere Generale nel 1492, nel settembre del 1493 fu elevato al cardinalato (cardinale-diacono); pare che quest'ultima nomina sia stata un indiretto ringraziamento di papa Alessandro alla famiglia Farnese per aver ricevuto in 'dono' la perla di famiglia più preziosa, la bellissima Giulia Farnese, sorella di Alessandro.

Nel 1499 fu nominato vescovo di Corneto e Montefiascone, Legato ad Ancona nel 1502, vescovo di Parma nel 1509. In seguito resse le diocesi di Benevento (1514), di Frascati (1519), di Palestrina (1523), di Ostia (1524) finquando alla morte di Clemente VII venne eletto, dopo appena ventiquattro ore di conclave, quale successore di Pietro, il 13 ottobre 1534.
La sua elezione fu acclamata dai romani con molta gioia e speranza. La scelta del conclave era stata saggiamente ponderata: le ferite inferte alla città per un intero anno (maggio 1527- maggio 1528) ad opera dei soldati di Carlo V, benchè fossero trascorsi sette anni, erano ancora più che mai aperte. Perciò, per cancellare il ricordo di quel triste periodo, causato dalla politica errata di Clemente VII, i cardinali, di comune accordo, si erano proposti di eleggere al soglio pontificio un romano proveniente da una illustre famiglia che aveva ormai da tempo piantato la sue radici in Roma ed al servizio della cattedra di Pietro. Il cardinale Farnese, appena eletto, si mise subito all'opera; assunse il nome di PAOLO III.

Trovò l'Europa spaccata in fazioni e divisa da guerre: il mondo cattolico era funestato da fiere lotte fra protestanti e cattolici e dalle rivalità fra l'imperatore Carlo V e Francesco I di Francia. E alle porte dell'Europa c'era il pericolo ottomano sempre in agguato. Infatti nell'estate 1541 il sultano Solimano II (il Magnifico) invase l'Ungheria; contemporaneamente alcune flottiglie turche minacciavano nel Mediterraneo occidentale i domini di Carlo V. L'imperatore allora stabilì sulle coste africane una spedizione contro il nemico, e passò per l'Italia per avere un colloquio con il papa. Da Lucca, ove ebbe luogo il convegno con Paolo III, Carlo V, verso la metà di settembre si recò a La Spezia, poi a Maiorca, per affrettare i preparativi dell'impresa di Algeri. Sebbene i suoi migliori generali gliela sconsigliassero data la stagione avanzata, l'imperatore volle tuttavia effettuarla e allestì, dandone il comando ad Andrea Doria, una flotta di 65 galee e di 450 navi onerarie con 12.000 marinai e 24.000 soldati. Nel 1545 Carlo V firmò una tregua con Solimano garantendo la sicurezza sul fronte orientale dell'Impero.

Si adoperò anche alla pacificazione degli animi dei governanti europei, proponendo la convocazione di un Concilio Ecumenico, che sin dagli inizi della riforma protestante era stato invocato non solo da Lutero e dai suoi seguaci, ma anche da moltissimi cattolici e dallo stesso Carlo V, concilio che il suo predecessore Clemente VII aveva costantemente rifiutato; ma dovettero passare ancora altri dieci anni prima che tale progetto si concretizzasse veramente. Un primo tentativo di convocazione fu fatto a Mantova nel 1536, ma fallì a causa di un nuovo conflitto franco-asburgico scoppiato per il dominio sul ducato di Milano; ne seguì una tregua (1538), stipulata a Nizza, ma il conflitto riprese nel 1542.
Allora Paolo III pensò di riunire l'ideato Concilio a Vicenza (1537), ma i cattolici di Germania si erano raccolti attorno all'imperatore stipulando un'alleanza difensiva a Norimberga, contro la Lega Smalcaldica protestante, grazie anche alla quale, per incarico del principe elettore Giovanni Federico il Magnanino di Sassonia, Lutero aveva compendiato la sua dottrina nei cosiddetti Articoli smalcaldici. Ma grazie alla tregua di Francoforte (1539) il clima, tesissimo, si rasserenò. Si aprì così il periodo dei "colloqui di religione", tentativi pacifici di confronto dottrinale, di cui il principale fu tenuto a Ratisbona nel 1541, alla presenza dell'imperatore in persona, ma ben presto anche questo mezzo fu trovato poco atto ad appianare la via all'intesa e superare il contrasto confessionale.

Dal 1542 al 1544 un altro conflitto contrappose Francia e Impero, ma con la pace di Crépy del settembre 1544, con la quale gli Asburgo prendevano possesso di Milano e i francesi del Piemonte e della Savoia, Carlo V ebbe mano più libera per occuparsi di affari religiosi. Il CONCILIO ECUMENICO fu convocato a TRENTO, sede di un principato vescovile appartenente all'Impero germanico, con la bolla "Laetare Jerusalem" per il 2 novembre 1542, ma per lo scarsissimo concorso di prelati fu sospeso il 6 luglio del 1543; venne riconvocato l'anno dopo, il 19 novembre 1544. Gli stati protestanti tedeschi respinsero aspramente l'invito; Lutero sfogò nuovamente il suo astio verso il papato nello scritto "Contro il papato di Roma, fondato dal diavolo".

Nonostante la tanto attesa convocazione del Concilio, probabilmente a causa del rifiuto protestante a parteciparvi, Carlo V si risolse all'uso delle armi. Come alleati egli aveva guadagnato, oltre suo fratello, re Ferdinando, il duca Guglielmo IV di Baviera, alcuni principi protestanti (tra cui il duca Maurizio di Sassonia), e lo stesso pontefice, il quale, in cambio, era riuscito ad ottenere l'apertura del Concilio. Paolo III inviò 12.000 uomini al comando di Ottavio Farnese. La 'guerra smalcaldica' ebbe uno sviluppo molto celere, l'imperatore sconfisse e sciolse definitivalmente la Lega nell'aprile del 1547: con questa vittoria l'astro Carlo V fu più rilucente che mai. Ma in realtà il protestantesimo era vinto solo come organizzazione politico-militare, non come potenza religiosa.

L'apertura del Concilio (durato complessivamente 18 anni, con due prolungate interruzioni) era stata fissata per la primavera del 1545, ma a causa di nuove difficoltà essa potè celebrarsi solo nella terza domenica d'avvento (13 dicembre) nel duomo della città. Esso non ebbe particolare influsso sullo sviluppo del protestantesimo come tale; non solo, ma non ebbe nessuna azione conciliativa con la nuova confessione ma si pose in chiara azione anti-protestantesimo. Alcuni storici affermano che, per il suo carattere 'unilaterale', cioè con presenze solo cattoliche, non meriti nemmeno di essere chiamato Concilio. I protestanti, che avevo rifiutato l'invito alla partecipazione, convocarono, nella primavera del 1545, un proprio Concilio a Worms, dove rivendicarono la propria autonomia religiosa dalla Chiesa di Roma, e, per quanto riguardava la dottrina e la disciplina, dichiaravano piena libertà di decisione.

La presidenza del Concilio (primo periodo, sessioni I-X, 13 dicembre 1545 - 2 giugno 1547) fu tenuta con capacità e destrezza dai Legati nominati dal papa, i tre cardinali Giovanni Maria del Monte (futuro Giulio III), Marcello Cervini (futuro Marcello II) e l'inglese Reginaldo Pole. Loro compito era determinare la scelta degli oggetti di discussione e sorvegliare i dibattiti stessi; nelle questioni più importanti, essi ricevevano istruzioni direttamente da Roma. Con un numero inizialmente scarso di membri aventi diritto di voto (32-42) fu fissato dapprima l'ordine di procedura e fu deciso di trattare in modo simultaneo e parallelo, materia dogmatica e materia disciplinare, sebbene l'imperatore dal canto suo desiderasse, per riguardo ai protestanti, che si desse la precedenza alla riforma, e il papa invece alle questioni riguardanti la fede. Così le decisioni del Concilio, che dopo essere state preparate e discusse nelle varie commissioni e nelle congregazioni, venivano infine approvate e proclamate nelle sessioni solenni, si articolavano regolarmente nelle due specie di decreta de fide e decreta de reformatione.

Come sistema di votazione si usò quello individuale, come s'era fatto sempre in passato fino al Concilio di Costanza. Al diritto di voto deliberativo furono ammessi i vescovi, i generali di ordini religiosi e una parte di abati; nella preparazione dei decreti tuttavia, furono chiamati a collaborare con voto consultivo anche numerosi teologi (theologi minores) non vescovi, fra cui parecchi uomini di alta fama, quali i gesuiti Salmeron, Lainez e Pietro Canisio, i domenicani Cano, Soto e Ambrogio Catarino, i francescani spagnoli de Castro e de Vega; fra i teologi di rango prelatizio emerse particolarmente per la sua vasta dottrina il generale degli Eremitani di sant'Agostino, Girolamo Seripando, il principale esponente della scuola agostiniana.
Il compito dogmatico del Concilio consisteva nell'esposizione e chiarificazione del dogma cattolico, di fronte alla negazione di verità fondamentali da parte dei protestanti, di fronte al loro nuovo principio materiale e formale del cristianesimo, al loro concetto spiritualistico della Chiesa e alla negazione di quasi tutti i sacramenti. Perciò nella IV sessione (8 aprile 1546) fu innazitutto riconosciuto il valore della Tradizione Apostolica pari a quello della Sacra Scrittura, come unica fonte della fede e fu definito il canone dei libri ispirati.

Fra le traduzioni della Bibbia fu dichiarata autentica per l'uso teologico-ecclesiastico la Vulgata, e fu infine proclamata come norma per l'interpretazione della Sacra Scrittura l'opinione comune dei Padri e il giudizio della Chiesa. Nella V sessione (17 giugno 1546) fu pubblicato il decreto dogmatico sul peccato originale, nella VI sessione (13 gennaio 1547) quello sulla giustificazione, che attribuiva alla fede il valore di "inizio e e fondamento e radice di ogni salvezza umana"; il decreto, vero capovolgimento teologico, esprime nella forma più precisa la concezione cattolica di fronte a quella protestante. L'opposizione dello scotismo affiorò nel corso delle discussioni, ma non si espresse nel decreto. Si prese quindi in esame la dottrina dei sacramenti, e nella VII sessione (3 marzo 1547) fu definita la dottrina dei sacramenti in genere, e del battesimo e della cresima in particolare. Inoltre, dalla V alla VII sessione furono emananti anche una serie di decreti di riforma, riguardanti l'obbligo di istituire nelle chiese maggiori e nei conventi delle cattedre di Sacra Scrittura, che dovevano diventare il centro dello studio teologico, l'obbligo di esercitare l'ufficio della predicazione, il dovere di residenza dei titolari di benefici, le qualità necessarie per i candidati all'ufficio vescovile, ed altro ancora.

Ma il luogo del Concilio non era gradito a Roma. In curia si era accettata controvoglia la scelta di una città dell'impero germanico; più volte si tentò anche di trasferire il concilio in una città più vicina a Roma, ma si dovette rinunciare all'idea per l'opposizione dell'imperatore. L'occasione giunse nel febbraio 1547 quando un preoccupante morbo epidemico (febbre petecchiale) scoppiato a Trento mise in grave situazione i Legati papali, per la partenza di molti prelati italiani, principali sostenitori del papa. Prima che il guaio fosse irreparabile i Legati decisero, con la maggioranza di due terzi del Concilio di trasferire l'assise a Bologna (sessione VIII, 11 marzo 1547); il papa confermò il trasferimento. Ma quattordici prelati di tendenze imperiali si fermarono a Trento, e lo stesso Carlo V fu estremamente indignato della traslazione, perchè una comparsa dei protestanti tedeschi, ch'egli proprio allora aveva assoggettato alla sua forza (guerra smalcaldica, cfr. sopra) in una città dello Stato Pontificio non era proprio pensabile. Perciò egli insistette con ogni energia perchè il Concilio fosse riportato a Trento, e ottenne almeno che si evitasse una pubblicazione di decreti nelle sessioni IX e X celebrate a Bologna, dove intanto le commissioni di studio avevano ripreso a lavorare alacremente.

Ma la situazione si era ancora più inasprita per una violentissima protesta dell'imperatore (gennaio 1548) e per il suo agire arbitrario presso dieta di Augusta, dove aveva fatto emanare un provvedimento provviso, il cosiddetto Interim del 30 giugno 1548. Questo documento, elaborato dal vescovo Pflug di Naumburg, dal vescovo ausiliare di Magonza Michele Helding e dal teologo protestante Giovanni Agricola, tanto dal lato dottrinale come da quello disciplinare era sostanzialmente cattolico, però concedeva ai protestanti il matrimonio dei preti e il calice ai laici fino a una decisione definitiva del concilio. Della restituzione dei beni ecclesiastici sequestrati non si faceva parola. Il papa ne fu scontentissimo perchè vi vedeva un'ingerenza indebita dell'imperatore nella sfera dei diritti ecclesiastici. Per questo agire arbitrario di Carlo V, a cui si aggiungeva la morte di Francesco I che privava il pontefice di un forte alleato, il 13 settembre 1549 (due mesi prima della sua morte), Paolo III sospese il concilio.

Pochi mesi dopo la sua elezione Paolo III si trovò a fronteggiare l'espansione protestante anche in Inghilterra. Infatti è datato 3 novembre 1534 l'Atto di supremazia votato dal parlamento, che dichiarava il re supremo e unico capo della Chiesa d'Inghilterra, e gli attribuiva in tutto il paese quell'autorità e quel potere spirituale che fino allora vi aveva esercitato il papa. Chi rifiutava d'accettare con giuramento l'atto di supremazia e di riconoscere il nuovo matrimonio del re (con Anna Bolena) col relativo ordine di successione al trono, era considerato reo di alto tradimento e punito con morte crudele. Lo scisma inglese era ormai un fatto compiuto. Purtroppo il clero, già da tempo assuefatto ad una chiesa di stato, si assoggettò nella grande maggioranza a questa nuova forma di cesaropapismo. Soltanto pochi ebbero il coraggio di opporsi; le vittime più note del dispotismo di Enrico furono il dotto e pio vescovo John Fisher di Rochester, che Paolo III nominò cardinale durante la sua prigionia, e il nobile umanista Thomas More. Entrambi furono decapitati nel 1535. Nel 1538 Paolo III pubblicò la bolla, già pronta da tre anni, in cui Enrico veniva scomunicato e dichiarato decaduto dal regno, e i suoi sudditi sciolti dal giuramento di fedeltà, ma questa sortì una scarsa efficacia.

Consapevole della tremenda situazione ecclesiastica si adopeò anche per il riassetto interno della Chiesa, con un'opera che andava di pari passo con il Concilio. Per questo chiamò a far parte del supremo senato della Chiesa una serie di personalità d'alto merito culturale e morale, quali Contarini, Carafa, Sadoleto, Pole, Cervini, Morone, Gilberti, Fregoso, Toledo e parecchi altri che onorarono la Curia romana. Con l'aiuto di questi porporati, Paolo III attuò parecchie riforme: riorganizzò la Camera Apostolica, la Sacra Rota, la Cancelleria e la Penitenzieria. Creò una commissione cardinalizia atta a preparare la riforma dei costumi del clero; frutto dei lavori furono il 'Consilium super reformatione ecclesiae' e il 'Consilium de emendanda ecclesia' del 1537.

Su suggerimento del cardinale Carafa (futuro Paolo IV) e di sant'Ignazio di Loyola, con la bolla "Licet ab initio" del luglio 1542, Paolo III ripristinò e riorganizzò l'istituto dell'Inquisizione romana, tribunale cardinalizio dotato di poteri senza confini geografici, con compiti di controllo e repressione indipendenti dalle autorità locali tanto laiche quanto ecclesiastiche, contro ogni deviazione eretica, di conservazione della purezza della fede. Essa doveva essere organizzata con regole uniformi e inviolabili; doveva avere la forza di procedere contro ogni dignitario della Chiesa, qualunque fosse il suo grado e la sua condizione, anzi doveva rivolgersi e combattere e a togliere di mezzo gli uomini più eminenti, qualora costituissero un pericolo per la Santa Sede.
Scopo trasversale della politica di Paolo III fu sempre quello di favorire i suoi parenti e familiari, mostrandosi, in questo modo, vistosamente nepotista. Tra i suoi preferiti c'erano i suoi quattro figli, avuti prima di prendere gli ordini sacri: Costanza, Pier Luigi, Paolo e Ranuccio. Suo favorito era Pier Luigi; il pontefice, nel 1537 lo creò duca di Nepi e di Castro, e Gonfaloniere della Chiesa. Qualche anno dopo diede Camerino ad Ottavio suo nipote (figlio di Pier Luigi), togliendola a Guidobaldo II d'Urbino al quale questa città spettava per diritto, essendo marito di una Varano.

Nell'ottobre del 1539, a Nizza, in occasione della tregua omonima (vedi sopra), ottenne che Pier Luigi fosse da Carlo V investito della città di Parma col titolo di marchese e che ad Ottavio fosse data in sposa Margherita d'Austria, figlia naturale di Carlo V e vedova di Alessandro de' Medici. Per questo nipote, nel convegno di Busseto, chiese, ma non ottenne dall'imperatore, il ducato di Milano. Carlo V fu anche sollecitato perché desse Siena a Pier Luigi, ma ne fu sconsigliato da Cosimo de' Medici, il quale sperava di potersene egli stesso impadronire.
Tentò di far concedere al proprio figlio anche Lucca, ma non vi riuscì e fallì pure il tentativo, come si disse e molti sostengono, di occupare la piccola Repubblica di san Marino nel giugno 1543.
Gli riuscì invece di 'convincere' il Sacro Collegio (agosto del 1545) a concedere a Pier Luigi l'investitura di Parma e Piacenza erette a ducato dipendente dalla Santa Sede. In cambio il figlio del pontefice rinunziava ai ducati di Nepi e Camerino che venivano incorporati alla Camera Apostolica. Questa politica familiare, condotta a spese dello Stato Pontificio, gli costò molte contrarietà e danneggiò non poco la sua reputazione.

Indisse il X Giubileo, pochi mesi prima di morire. Per tale motivo era intervenuto con un interessante decreto che ordinava, a vantaggio della povera gente, il blocco dei fitti e dei subaffitti per l'intera durata dell'Anno Santo, insieme con il divieto di cacciare gli inquilini per affittare ad altre persone disposte a pagare un canone più elevato: "[...] stabiliamo e ordiniamo che in vista dell'anno santo, sempre quando ricorrerà un anno del genere, per un anno prima e per il detto anno santo, la pigione delle case non possa essere aumentata agli inquilini da parte dei padroni delle medesime, né essere alterato il modo di pagare la pigione. Inoltre, al fine di evitare liti e controversie, ordiniamo che sia l'inquilino stesso, sia il subinquilino del medesimo non può essere espulso dalla casa affittata o subaffittata ai medesimi dal padrone di essa [...] a meno che questi non ne abbia veramente bisogno e si sia obbligato, a tal fine, a giurare di non affittarla ad altri ma di abitarla lui stesso per un anno, pena, in caso di spergiuro, la perdita per due anni della pigione della casa di cui si tratta".
Con la bolla 'Regimini militantis ecclesiae' del 27 settembre 1540 Paolo III concesse la desiderata approvazione in forma di ordine di chierici regolari alla regola, presentata al pontefice per mezzo del cardinale Contarini, alla Compagnia di Gesù fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola. I Gesuiti contribuirono enormemente alla Riforma cattolica, con la predicazione (specie degli Esercizi Spirituali), l'insegnamento, gli scritti, mettendosi al servizio della Chiesa intera, divenendo milizia prescelta del papato, a cui la Compagnia resta tutt'oggi legata tramite anche uno speciale quarto voto di rigorosa obbedienza alla sede apostolica in campo missionario.
Oltre ai Gesuiti, uno stuolo di Congregazioni religiose nascenti testimoniano il fiore più bello della Controriforma: Teatini, Cappuccini, Barnabiti, Somaschi, Orsoline, Fatebenefratelli, Camilliani, Oratoriani, Visitandine, Lazzaristi, Eudisti, Scolopi. Un contrassegno comune delle nuove associazioni religiose è, non soltanto la loro origine latina, ma anche la prevalente accentuazione in esse della vita attiva, rispetto a quella contemplativa. La loro costituzione fu generalmente quella più libera delle cosiddette 'congregazioni', senza clausura rigida, obbligo del coro, e con voti semplici, non solenni. Anche moltissimi tra gli Ordini più antichi si rinverdirono con nuovi rami (Maurini, Alcantarini, Carmelitani scalzi).

Grande mecenate, Paolo III resta uno dei protagonisti del Rinascimento artistico italiano. Accordò protezioni a dotti e letterati, fece costruire e restaurare cappelle, chiese e grandi monumenti romani (ricordiamo la costruzione della Sala Regia in Vaticano e il restauro della basilica Lateranense e delle mura di Castel sant'Angelo), promosse un grandioso sviluppo edilizio di Roma, abbellendola con nuove vie e fontane, come la Paolina, spendendo cifre astronomiche per migliorarne la viabilità. La moneta detta 'giulio', dopo di lui, prese a chiamarsi 'paolo'. Prima ancora dell'ascesa al soglio pontificio riuscì ad accumulare ciò che noi oggi chiamiamo 'collezione Farnese', distinta in due nuclei: la collezione romana, comprensiva per lo più di opere di artisti legati alla famiglia Farnese da rapporti di committenza (Raffaello, Sebastiano del Piombo, Tiziano, El Greco, i Carracci) e conservata nel palazzo di famiglia nei pressi di Campo de' Fiori, insieme alla grande statuaria antica, attualmente nel Museo Archeologico Nazionale; e la collezione parmense esposta nel palazzo della Pilotta a Parma, con una rilevante presenza di opere di scuola emiliana, nonché un cospicuo numero di dipinti fiamminghi.

Ma il protagonista indiscusso di questa stagione resta Michelangelo, ritornato a Roma nel 1534, e ivi fermatosi fino alla morte avvenuta trent'anni dopo. All'artista nel 1534 Paolo III commissionò un grande affresco per il muro di fondo della Cappella Sistina avente per tema il Giudizio Universale.
Michelangelo interpretò drammaticamente tale soggetto, rivelando la più intima disperazione di ogni personaggio. Allo scoprimento dell'opera (1544), nonostante le lodi e i consensi, tuttavia non mancarono i commenti malevoli dovuti all'invidia e ad un malinteso senso del pudore che permeava la curia di quel tempo. Pertanto fu deliberato di velare con appropriati panneggi alcune parti del dipinto ritenute 'oscene'. Questa decisione fu accolta da Michelangelo con sommo sdegno perchè vide la sua titanica composizione umiliata da idee così grette. Nel frattempo Paolo III gli affidò molteplici altri incarichi, tra cui quello di sovrintendente a vita ai lavori della Basilica Vaticana.
Quando, ormai settantaduenne, Michelangelo accettò l'incarico per la fabbrica di San Pietro, si buttò nel lavoro con il massimo impegno, rifiutando ogni compenso, consapevole della complessità dell'opera e del fatto che egli, data l'età, non avrebbe potuto vederne il compimento.
Sempre opera del celeberrimo artista è la piazza del Campidoglio. Poco dopo l'allestimento del percorso trionfale di Carlo V (1536), Paolo III affidò a Michelangelo la realizzazione di una piazza monumentale che resuscitasse gli antichi fasti con una veste moderna; un luogo dove egli avrebbe potuto stabilire la propria dimora, concepita come unità residenziale fortificata. La scenografica soluzione dell'artista fu una terrazza trapezoidale, non di grandi dimensioni (m. 53x63), ma grandiosa e armoniosa per l'impianto architettonico, la giustezza delle proporzioni e la coerenza stilistica, da cui si domina il passato (il Foro Romano) e il presente (la città moderna), gravitante sulla statua equestre di Marco Aurelio, con il Palazzo Senatorio sullo sfondo e i Palazzi Conservatori e Nuovo ai lati come quinte teatrali. Al progetto di Michelangelo si deve pure la Cordonata che sale alla piazza e la Balaustra, ambedue impreziosite da statue antiche.
Al centro della piazza campeggia la famosa statua di Marco Aurelio, stupendo esempio di statua imperiale equestre ed uno dei pochissimi bronzi antichi scampati alla distruzione o alla fusione, forse perché si credeva rappresentasse Costantino, primo imperatore cristiano. Fu trasportata nella piazza del Campidoglio dalla piazza del Laterano per volere dello stesso Paolo III, nel 1538, nonostante il parere contrario di Michelangelo. La statua in bronzo dorato fu posta sopra un elegante piedistallo disegnato da Michelangelo e ornato con i gigli farnesiani di papa Paolo III. Dell'antica doratura restavano tracce sul viso e sul manto dell'imperatore, sulla testa e sul dorso del cavallo. Un'antica leggenda afferma che quando la doratura sarà tutta scomparsa, canterà la 'civetta' (il ciuffo di peli tra le orecchie del cavallo, in realtà il supporto che in origine doveva permettere l'inserimento di un pennacchio), e annuncerà il giudizio universale. A questa statua si ispirano i monumenti equestri del Rinascimento e molti altri nei secoli seguenti. Nel 1981 la statua, attaccata dalla corrosione dell'inquinamento, è stata rimossa e affidata all'Istituto Centrale per il Restauro. Oggi ritrovato il suo bagliore della doratura antica, si può ammirare in un vano a destra del cortile dei Musei Capitolini. Sul piedistallo, nella piazza, è stata posta una copia. Il disegno della pavimentazione è stato realizzato nel 1940.

Dopo quindici anni di densissimo pontificato, che l'avevano visto protagonista principale delle vicende europee non solo religiose, Paolo III si spense a Roma il 10 novembre 1549. Fu sepolto nella basilica di san Pietro. Era riuscito appena in tempo a chiudere il Concilio di Trento, trasferitosi a Bologna.
Il 18 febbraio 1546 era morto Martin Lutero; "il più grande fra i tedeschi del suo tempo" (Dollinger) aveva avviato la Riforma protestante. Paolo III, forse unico fra i pontefici del suo tempo ad aver seriamente compreso la portata e le conseguenza di tale Riforma, è ancora oggi considerato un grande pontefice.
suo successore fu GIULIO III

GIULIO III - Giovan Maria Ciocchi dal Monte (1487-1555)
(Pontificato 1550-1555)
GIOVANNI Maria CIOCCHI dal Monte nacque a Monte san Savino (AR) nel 1487. Dotato di viva intelligenza, studiò giurisprudenza a Perugia e Bologna; avviato alla carriera ecclesiastica fu nominato arcivescovo di Siponto dal 1512 al 1544 e di Pavia dal 1544 al 1550; nel 1543 fu anche presso la diocesi suburbicaria di Palestrina. Venne inviato da Paolo III come Legato pontificio al Concilio di Trento (primo periodo 1545-1547), insieme a Marcello Cervini (futuro Marcello II) e all'inglese Reginaldo Pole. Loro compito era determinare la scelta degli oggetti di discussione e sorvegliare i dibattiti stessi e nelle questioni più importanti, essi ricevevano istruzioni direttamente da Roma; vi si distinse per la fermezza di propositi e la severità dei principi. Grazie all'appoggio del cardinal Farnese, nipote del pontefice suo predecessore, fu eletto cardinale nel 1536.

Alla morte di Paolo III si ebbe una vacanza della sede per quasi tre mesi. Il conclave era diviso tra i cardinali imperiali e quelli francofili; egli era il rappresentante della fazione moderata; l'8 febbraio 1550 il cardinal Ciocchi dal Monte fu eletto assumendo il nome di GIULIO III. Riportiamo uno stralcio di un singolare documento, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, contenente alcuni consigli che i cardinali diedero al papa appena eletto:

"Fra tutti i consigli che possiamo avere a presentare alla Sua Santità, ne riserviamo il più importante in ultimo. Dobbiamo tenere gli occhi bene aperti ed intervenire con tutta la potenza nostra nell'affare che abbiamo da considerare. Trattasi di quanto segue:
- La lettura del Vangelo non deve essere permessa che il meno possibile specialmente nelle lingue moderne, e nei paesi sottomessi alla Vostra autorità. Il pochissimo che vien letto generalmente alla messa, dovrebbe bastare e devesi proibire a chiunque di leggere di più.
- Finche il popolo si contenterà di quel poco, i vostri interessi prospereranno; ma nel momento che se ne vorrà leggere di più, i vostri interessi cominceranno a soffrire. Ecco il libro, che più di nessun altro, provocò contro di noi le ribellioni, le tempeste che hanno arrischiato perderci.
Difatti, se alcuno esamina accuratamente l'insegnamento della Bibbia e lo paragona a quanto succede nelle nostre chiese, troverà ben presto le contraddizioni e vedrà che il nostro insegnamento spesso si scarta da quello della Bibbia e più spesso ancora in opposizione ad essa. Se il popolo si rende conto di questo, ci provocherà senza requie finche tutto venga svelato ed allora diventeremo l'oggetto della derisione e dell'odio universale. È necessario dunque che la Bibbia venga tolta e strappata dalle mani del popolo però con gran prudenza per non provocare tumulti".


Il carattere fermo e deciso mostrato da prelato, si trasformò in lento e mondano. Ma ugualmente l'opera di Riforma proseguì. Appena eletto papa promulgò il X Giubileo (anche detto 'Giubileo di Michelangelo', per l'attiva presenza a Roma del celebre scultore), indetto da Paolo III, con la Bolla 'Si pastores ovium', che venne inaugurato, con la tradizionale apertura della Porta santa della basilica di san Pietro, il 24 febbraio 1550, e si concluse il giorno dell'epifania del 1551; onde durò meno di un anno. Al fine di favorire i pellegrini, attuò le disposizioni emanate dal suo predecessore sul blocco dei fitti e per regolare il mercato alimentare, norme che in seguito verranno sempre ripetute. Il moderato afflusso dei pellegrini furono seguiti particolarmente da san Filippo Neri con la Confraternita della santa Trinità, un ospizio che ospitava fino a 600 persone al giorno. A questo Giubileo partecipò anche Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti.

E proprio ai Gesuiti, nel luglio 1550, confermò le Costituzioni della Compagnia e li autorizzò, nel 1522, a fondare in Roma il Collegio Romano e il Collegio Germanico, quest'ultimo destinato all'educazione dei giovani prelati tedeschi nella lotta all'eresia.

Si adoperò per combattere il nepotismo e gli abusi della Chiesa romana (con un Concistoro convocato poco dopo l'elezione, il 28 febbraio 1550). Negò la porpora a Pietro Aretino il quale aveva scritto e dedicato al pontefice alcune opere sacre, e si aspettava di essere fatto cardinale, tanto più che con Paolo III la sua quasi certezza di aver il cappello rosso era stata stroncata solo dalla morte di quel papa. All'arrivo a Roma del letterato suo conterraneo, Giulio III gli preparò una calorosa accoglienza, lo abbracciò, lo baciò in fronte e gli mise a disposizione un appartamento veramente regale in Vaticano, ma di farlo cardinale non ne parlò neppure.

Ma proprio con Giulio III si ebbe uno dei fenomeni nepotistici più significativi, che ancora oggi, odora di scandalo. Infatti già da cardinale le pasquinate lo additavano insistentemente come sodomita, ma lo scandalo esplose quando, nemmeno quattro mesi dopo la sua elezione, nominò cardinale il diciassettenne INNOCENZO DEL MONTE (1532-1577), che aveva già fatto adottare dal fratello Baldovino (prima dell'adozione il ragazzo si chiamava Santino). Anche se molti storici affermano che Giulio III fece nominare cardinale 'un figlio', molti altri studiosi non mettono in dubbio che il pontefice fosse affettivamente molto legato a questo ragazzo che aveva conosciuto tredicenne, quale figlio d'un suo servitore. Pare che la nomina cardinalizia fu il premio supremo della sua compiacenza. Tale nomina, contro cui protestarono invano i cardinali più sensibili alla necessità di riformare i costumi della Chiesa per contrastare la Riforma protestante, suscitò ampio rumore nelle Corti europee: la lista dei commenti scandalizzati dell'epoca è lunghissima. E nonostante una voce benevola che circolava a Roma spiegasse beffardamente la nomina come premio del fatto che il ragazzo era... custode della scimmia del papa (e fu quindi soprannominato 'Bertuccino'), per i protestanti non c'erano dubbi sulle motivazioni della nomina.

Come se ciò non bastasse, Innocenzo si rivelò uno dei peggiori cardinali che la Chiesa abbia mai avuto: rimasto libero di sé a 23 anni (Giulio III morì nel 1555) fu coinvolto in una catena di fattacci ed esiliato da molti pontefici successivi.

Protettore di artisti e mecenate, Giulio III fece costruire sulla via Flaminia, dal 1551 al 1553 la splendida Villa Giulia, opera dell'Ammannati, del Vignola e del Vasari. Il complesso della villa si articola su due cortili separati da un ninfeo, che originariamente era un vero e proprio teatro d'acque. Internamente la villa è riccamente decorata con affreschi, stucchi, marmi policromi e statue; ivi venne collocato il Museo archeologico. Dopo la morte del papa fu ereditata dal fratello Baldovino, ma, alla sua morte avvenuta nel 1557, fu confiscata dal Paolo IV.
Inoltre potenziò la Biblioteca Vaticana e l'Università La Sapienza di Roma. Protesse Michelangelo e Palestrina.

Riuscì a far riaprire il Concilio di Trento (secondo periodo, sessioni XI-XVI) sospeso da Paolo III nel 1548; infatti la nuova bolla di convocazione fu promulgata il 14 novembre 1550. Per alleviare il lungo viaggio dei prelati a Trento si fece uso per la prima volta, di carrozze sospese a cinghie di cuoio per ammortizzare i balzi provocati dalle ruote, normalmente cerchiate in ferro.
Il Concilio fu ufficialmente aperto il 1° maggio 1551.

A questa parte del Concilio non intervennero i prelati francesi a causa della guerra contro la Francia in cui Giulio III si trovò implicato (vedi sotto); invece dalla Germania convennero a Trento gli arcivescovi elettori di Magonza, Treviri, Colonia. Nel suo insieme il nomero deipartecipanti fu di poco superiore rispetto al primo periodo.
Si proseguirono i lavori circa i sacramenti e si pubblicarono i decreti relativi sull'Eucarestia (sess. XIII, 11 ottobre 1551), sulla Penitenza e sull'Estrema Unzione (sess. XIV, 25 novembre 1551) e i decreti di riforma riguardanti per lo più l'esercizio dell'autorità vescovile, i costumi del clero e la regolare collazione dei benefici. In seguito all'infaticabile azione dell'imperatore Carlo V, comparvero dall'ottobre 1551 al marzo 1552, muniti di un salvacondotto del concilio, anche alcuni inviati dei protestanti tedeschi, cioè del principe elettore Gioacchino II di Brandeburgo, del duca Cristoforo del Wurttenberg, di sei importanti città imperiali della Germania Superiore e del principe elettore Maurizio di Sassonia.

Nonostante ogni accondiscendenza però le trattative con loro non approdarono a nulla, perchè essi posero condizioni in parte inaccettabili, quali la sospensione e la ridiscussione di tutti i decreti già emanati, il rinnovamento dei decreti di Costanza e Basilea sulla superiorità del concilio sul papa, e lo scioglimento dei membri del concilio dal giuramento di obbedienza al papa.
Il tradimento del principe elettore Maurizio verso l'imperatore e il suo passaggio al servizio della Francia, la spedizione degli alleati nella Germania meridionale, e la minaccia di occupazione della città di Trento, convinsero Giulio III, preoccupato anche di veder precipitare la contesa tra Carlo V ed Enrico II in una guerra generale, alla sospensione del concilio per due anni, decretata nella sessione XVI (28 aprile 1552); in effetti però trascorsero quasi un decennio completo prima che il sinodo venisse ripreso.

Giulio III, infatti, si era lasciato trascinare dall'imperatore in una guerra contro i Farnese, anche se dopo appena due giorni la sua elezione, aveva ordinato che Parma fosse restituita ad Ottavio Farnese; aveva anche confermato l'investitura del ducato di Castro ad Orazio, fratello di Ottavio, e ad entrambi aveva lasciato le cariche di prefetto di Roma e di gonfaloniere della Chiesa. Eppure nonostante questo zelo, ben presto i buoni rapporti che regnavano tra il pontefice e i Farnese si alterarono e ciò dipese dal fatto che i Farnese avevano visto nuovamente il territorio di Parma invaso da Ferdinando Gonzaga, e Orazio, il 27 maggio del 1551, lusingato da Enrico II, che gli prometteva in sposa la figlia naturale Diana, aveva stretto legami con il sovrano francese.
Ne risultò che la casa Farnese, prima era schierata a favore del papa e dell'imperatore, ora si metteva sotto la protezione della Francia. Giulio III, suo malgrado, si trovò coinvolto in una guerra che tornava a metter di fronte la Francía e la Spagna. Come al solito, il teatro delle contese dei due sovrani non poteva che essere l'Italia.

Ferdinando Gonzaga (filo-imperiale) occupò Brescello, terra del cardinale Ippolito d'Este, che era al servizio del re di Francia, e si preparò a cingere d'assedio Parma, mentre alla Mirandola, mandati da Enrico II, giungevano Piero Strozzi e Cornelo Bentivoglio per radunare truppe e soccorrere il Farnese. Sul cominciare del luglio 1551 l'esercito imperiale-pontificio mandò ad assediare la Mirandola, saccheggiando e bruciando barbaramente il territorio; intanto Enrico ordinava al suo generale, il Brissac, di occupare san Damiano, Chieri, Brusasco ed altre terre del Piemonte, riuscendo ad alleggerire Parma e la Mirandola dalla pressione ispano-pontificia. Difatti Ferdinando Gonzaga, che aveva devastato il territorio parmense e occupati parecchi luoghi, fra cui Calestano, Torrechiara e Felino, lasciato all'assedio della città parte del suo esercito al comando del marchese di Marignano, con il resto dovette accorrere in Piemonte (settembre del 1551).

La partenza del Gonzaga cominciò a far sentire il peso maggiore della guerra a Giulio III, il quale si pentiva ora di essersi messo in una lunga e dispendiosa guerra e cercava di riavvicinarsi alla Francia. Trattative con Enrico II vennero iniziate, ma il sovrano francese pose delle condizioni così pesanti che il pontefice ruppe i negoziati. Questi però furono ripresi quando il papa si accorse che la fortuna dell'imperatore, minacciato da una terribile insurrezione in Germania e da grandi preparativi francesi, stava declinando, di modo che i nuovi incontri condussero ad un accordo, stipulato il 29 aprile 1552.
In questo accordo si stabiliva una tregua di due anni, passati i quali il re di Francia avrebbe lasciato il duca Ottavio in piena libertà di poter trattare e accordarsi con il papa; quest'ultimo e l'imperatore non sarebbero stati più offesi nell'indipendenza dei loro territori; Castro veniva consegnata in mano dei due cardinal Farnesi. L'imperatore aveva undici giorni di tempo per poter essere incluso nell'accordo; se non lo avesse fatto sarebbero stati dichiarati nulli tutti i provvedimenti presi in suo favore e, inoltre, se non avesse voluto ratificare gli articoli che riguardavano lui, il papa sarebbe stato libero di ritirarsi dalla guerra "senza prestare ad esso l'autorità sua, né aiutarlo, né di favore, né di gente, né di denari, né di vettovaglie, né altrimenti in qualunque maniera si sia".
Il pontefice fece sapere a Carlo V di essere stato costretto all'accordo dalle sue finanze esauste, dai pericoli cui era esposto lo Stato Pontificio e dal fatto che la Francia tendeva ad abbracciar le dottrine luterane; l'imperatore, che in quel momento non si trovava in condizioni migliori del papa, accettò l'accordo e lo ratificò il 10 maggio.

Giulio III si interessò anche al ritorno dell'Inghilterra al cattolicesimo. La riconciliazione avvenne di fatto sotto la regina Maria la Cattolica, a cui il pontefice, nel gennaio 1555, mandò legato un valente prelato, il cardinale Reginaldo Pole; ma non fu che breve tregua: succeduta al trono Elisabetta I, il distacco della Chiesa inglese da Roma divenne definitivo.

Grande mangiatore di cibi grassi e agliati, Giulio III, gottoso da tempo, morì a Roma il 23 marzo 1555. Le sue spoglie riposano insieme a quelle del suo pupillo, Innocenzo, nella Cappella del Monte, nella chiesa di san Pietro in Montorio a Roma.
suo successore MARCELLO II .....

MARCELLO II - Marcello Cervini (1501-1555)
(Pontificato 1555)
MARCELLO nacque da Riccardo CERVINI di Montepulciano (Siena) il 6 maggio 1501. Uomo colto, umanista, giustamente ricordato per le traduzioni dal latino e dal greco, dal 1526 godette della benevolenza di Alessandro Farnese, il quale, divenuto poi Paolo III, lo volle segretario del suo cardinale nepote; in tal modo ebbe un ruolo importante nella politica dello Stato Pontificio e nelle questioni religiose. Nel 1539 fu nominato vescovo di Nicastro; nello stesso anno ottenne la porpora cardinalizia. L'anno successivo lo troviamo vescovo di Reggio Emilia e, nel 1544 di Gubbio; come vescovo lavorò per una vera riforma ecclesiastica.

Distintosi in diverse ed importanti missioni diplomatiche presso la corte imperiale di Carlo V, fu nominato, nel dicembre 1545, insieme ai cardinali Giovanni Maria del Monte (futuro Giulio III) e l'inglese Reginaldo Pole, Legato papale al Concilio di Trento, dove tenne l'effettiva presidenza dell'assemblea. Il compito dei Legati era determinare la scelta degli oggetti di discussione e sorvegliare i dibattiti stessi; nelle questioni più importanti essi ricevevano istruzioni direttamente da Roma. Durante il Concilio combattè con inflessibile risolutezza le tendenze conciliariste.

Nel 1548 Paolo III lo nominò Bibliotecario Apostolico, incarico che gli fu rinnovato a vita da Giulio III. In questo periodo si fece promotore di ricerche storiche e archeologiche. Papa del Monte lo nominò Presidente della Commissione per la riforma ecclesiastica, ma ne venne in seguito escluso per aver criticato la politica nepotista del pontefice.

Alla morte di Giulio III, venne eletto papa, il 9 aprile 1555, assumendo il suo stesso nome, MARCELLO (II); fu l'ultimo pontefice a non cambiare nome all'atto dell'elezione, confermando, tra l'altro, la leggenda che vuole un pontificato brevissimo per i papi che conservano il proprio nome. Immediatamente pose mano a un rigoroso programma di riforma morale della Chiesa, volle frenare e ridurre il lusso e le spese della corte papale, per meglio opporsi alla Riforma protestante e toglierle motivi di accusa. Si propose, con gli stessi intenti, di riaprire il Concilio di Trento; addirittura, per la sua idea spirituale del papato, pensò di abolire anche la Guardia Svizzera. Ma un attacco apoplettico stroncò i suoi propositi e lo portò alla tomba dopo poco più di un mese di pontificato, il 1° maggio 1555. I suoi resti riposano nella basilica di san Pietro.

A lui il Palestrina dedicò, nel 1563, la 'Missa Papae Marcelli' a 6/7 voci a cappella. La ragione di questa dedica è narrata nel 'Mistagogus' di Lodovico Cresolli Armorici: «...durante le funzioni del Venerdì Santo, il pontefice rimase colpito dal contrasto fra la celebrazione di un doloroso mistero, ben espresso nelle parole del testo liturgico, e il carattere del servizio musicale, eseguito dalla cantorìa: erano polifonie del consueto stile fiammingo, complesse e ampollose, in cui non solo le parole ma anche il significato della ricorrenza sacra venivano sommersi, quasi annullati. Marcello II volle allora spiegare personalmente ai cantori come ben diversamente dovesse intendersi il compito della musica da chiesa, ausilio al sentire e all'intendere la Parola divina (audiri atque percipi)».
Per Palestrina, l'ammonimento del papa dovette essere la conferma di un convincimento già maturato. La Missa Papae Marcelli resta un capolavoro per eccellenza della polifonia sacra romana e si pone in contrapposizione alla coralità luterana che stava dilagando nell'Europa centrale. Concettualmente il capolavoro palestriniano si riassume come la sublimazione di una perfettissima geometria sonora di antica concezione neoplatonica che, valendosi del significato intrinseco della parola e del suono che l'avvolge, giunge a rendere misticamente visibile l'invisibile.
suo successore fu PAOLO IV .....


PAOLO IV - Gian Pietro Carafa (1476-1559)
(Pontificato 1555-1559)
GIAN PIETRO nacque a sant'Angelo della Scala (Avellino, ma diverse fonti riportano Capriglia, quasi confinante con sant'Angelo) il 28 giugno 1476 dal ramo napoletano dei baroni CARAFA. Suo mentore fu lo zio cardinale Oliviero Carafa, che lo introdusse nella Curia romana e grazie al quale ricoprì diversi incarichi, tra cui, nel 1503, quello di Protonotaio apostolico. Alessandro VI avrebbe voluto inserirlo nella sua corrotta corte, ma egli resistette irreprensibilmente. Nello stesso anno Giulio II lo nominò arcivescovo di Chieti; partecipò al Concilio Lateranense V. Nel 1506 Leone X lo inviò Legato in Spagna presso Ferdinando il cattolico e, successivamente, 1513-1514, fu in Inghilterra in qualità di Ambasciatore presso Enrico VIII. Nel 1518 fu nominato arcivescovo di Brindisi; nel 1522 Adriano VI lo richiamò a Roma per affidargli la riforma della corte e della disciplina del clero.

Nel 1524, rassegnò le sue dimissioni dal governo della diocesi pugliese a Clemente VII; al pontefice chiese di rinunciare ai suoi benefici e ritirarsi a vita solitaria. Entrò a far parte dell'Oratorio del Divino Amore e fondò poi con san Gaetano da Thiene l'Ordine dei Teatini, chiamato così appunto da Theates (Chieti), già suo vescovado. I Teatini si proponevano uno stile di vita rigido e ascetico, con il quale venivano attuati i principi della Riforma cattolica per arginare l'eresia protestante; dopo il 'Sacco' di Roma nel 1527 si rifugiò con in suoi compagni a Venezia.

Celebre resta un suo 'Memoriale' scritto a Clemente VII nel 1532 sul dilagare dell'eresia; egli proponeva, fra l'altro, di affidare l'Inquisizione all'Ordinario o ai Nunzi togliendola ai frati. Benchè riluttante, il Carafa venne richiamato a Roma da Paolo III per sedere nel Comitato di riforma della Corte papale; nel dicembre 1536 il pontefice lo nominava cardinale; gli fu assegnato l'arcivescovado di Napoli, ma per l'opposizione di Carlo V, non riuscì mai a prenderne possesso. Ricoprì, allora, diversi incarichi, tra cui il principale fu la nomina a Prefetto del Santo Uffizio (1542) ruolo in cui riversò tutto il suo rigore e la sua disciplina; ricoprì inoltre anche incarichi di responsabilità nelle commissioni dei lavori del Concilio di Trento. Nel 1550 fu nominato vescovo di Frascati e nel 1553 di Ostia-Velletri; nello stesso anno era decano del Sacro Collegio.

Alla morte di Marcello II, il nuovo pontefice fu il cardinale Carafa: fu una scelta a sorpresa in quanto il suo carattere rigido, severo e inflessibile, combinato con la sua età (79 anni) e il suo patriottismo facevano pensare che avrebbe declinato l'onore; accettò apparentemente perché l'imperatore Carlo V si era opposto alla sua ascesa. Il 23 maggio 1555 veniva eletto con il nome di PAOLO IV.

Appena sul soglio confermò il suo carattere rigido e intransigente, al punto tale da inimicarsi tutte le monarchie europee. In particolare si adoperò per combattere gli spagnoli (la casa asburgica ricambiava i sentimenti di insofferenza) unicamente per portar via loro il Regno di Napoli. Fu così che sviluppò una politica di intesa con la Francia in chiave antispagnola, che si concluse con un'alleanza segreta con Enrico II (1556) e con la guerra contro la Spagna. Ma un'irruzione nello Stato della Chiesa ad opera del duca d'Alba, lo costrinse alla Pace di Cave del 13 e 14 settembre 1557; in base a questo trattato il papa usciva dall'alleanza con la Francia e la Spagna, le cui truppe erano giunte alle porte di Roma, rinunciava ai territori che aveva sotratto al pontefice.

Fece esprimere, per mezzo dei suoi nunzi, la sua disapprovazione per la Pace religiosa di AUGUSTA del 25 settembre 1555, invocata e realizzata dall'imperatore Carlo V (più volte minacciato di destituzione dallo stesso pontefice) come compromesso spirituale, la quale decretava che doveva regnare "una pace perpetua tra cattolici e i seguaci della confessione augustana". Ai principi degli stati dell'impero fu consentita la libera scelta della religione; a loro era riconosciuto anche il diritto di imporre ai territori loro soggetti la confessione preferita, da cui, più tardi, la formula 'Cujus regio, eius religio'. Al popolo fu riservato solo lo 'jus emigrandi'. Non si giunse ad un accordo circa la questione se il diritto di abbracciare la riforma fosse da concedere anche ai principi ecclesiastici.

L'imperatore Ferdinando I d'Austria (succeduto a Carlo V, ma non riconosciuto da Paolo IV, in quanto egli aveva assunto la dignità imperiale, senza il consenso papale), valendosi della sua autorità decretò che i vescovi e gli abati che fossero passati alla nuova confessione, avrebbero perduto l'ufficio, le rendite e il territorio, che dovevano rimananere alla vecchia religione (Reservatum ecclesiasticum). Inoltre Ferdinando dovette concedere in una dichiarazione segreta (Declaratio ferdinandea) che i nobili, le città e i comuni che già da tempo avevano abbracciato la confessione augustana e che si trovavano nei territori dei principati ecclesiastici, godessero libertà religiosa anche in futuro. Di fatto la Pace augustana fu una 'sanatoria' ma, sul piano temporale, non soddisfò veramente le controparti.

Si alienò anche l'Inghilterra rigettando la pretesa alla corona inglese da parte di Elisabetta I; arrivò al punto di destituire Reginaldo Pole, suo valente Legato, e consegnarlo all'Inquisizione nel 1556. L'anno precedente aveva dichiarato nullo il rito anglicano delle ordinazioni introdotto da Edoardo VI e usato da Mattia Parker, cappellano di Anna Bolena, creato arcivescovo di Canterbury e messo alla testa della gerarchia riformata; egli stesso ordinerà, infatti, la maggior parte dei nuovi vescovi. Leone XIII, dopo aver fatto esaminare la questione da una commissione di studiosi, con lo scritto 'Apostolicae curae' del 1896 decretò l'interrotta successione apostolica della gerarchia anglicana (pronuntiamus et declaramus ordinationes ritu anglicano actas irritas prorsus et esse omninoque nullas).

A coronamento della sua disastrosa politica estera, nel 1559 emanò la Bolla 'Cum ex apostolatus officio', in cui, in forza della "pienezza del potere sui popoli e i regni", egli rinnovava tutte le punizioni precedentemente decretate contro gli ecclesiastici e i laici, i principi e i sudditi che avevano apostatato dalla vera fede e li dichiarava destituiti di ogni dignità, diritto e possesso; i loro territori e i loro beni dovevano appartenere a quei cattolici che per primi se ne fossero impadroniti. Con questo documento tentò di far rivivere l'intransigenza ideologica della ierocrazia medievale, senza tener minimamente conto del mutar dei tempi.

Deluso dagli insuccessi politici, si votò alla Riforma; ma anche qui si rivelò maldestro e precipitoso.
Decisamente contrario ad una prosecuzione del Concilio di Trento, egli intendeva piuttosto riformare la Chiesa con la sua attività diretta, nel tentativo di estirpare l'eresia con una rigida moralizzazione dei costumi; all'uopo creò nel 1556 una Congregazione Generale per la Riforma composta da 72 membri, successivamente riordinata in quattro sezioni. Rafforzò ulteriormente l'Inquisizione davanti al cui Tribunale trascinò perfino cardinali, vescovi, dottori e uomini pii; anche il grande inquisitore cardinal Ghislieri (futuro Pio V) fu accusato di scarso zelo. Il cardinale Morone, uomo retto e innocente fu imprigionato per due anni.

Sancì l'obbligo della residenza per i vescovi, scelse i cardinali indipendentemente da situazioni politiche. Il suo spirito riformista represse qualsiasi forma di devozione non solo ereticale, ma anche sincera e irenistica. Impose riforme durissime dalle quali non risparmiò neanche Roma, ridotta ad un convento. Licenziò Palestrina da maestro della cappella pontificia, in quanto era sposato; non contento, con un motu proprio vietava che fossero scelti maestri, cappellani e cantori non celibi, e proibì ai musicisti di comporre musica profana.

Nel 1559 promosse l'iniziativa di raccogliere in un catalogo tutte le opere ritenute pericolose per i credenti e la cattolicità: così fu pubblicata la prima edizione ufficiale dell''INDEX LIBRORUM PROHIBITORUM', sempre ad opera dell'Inquisizione. Vi primeggiava il 'Decameron' di Giovanni Boccaccio e il 'Il Principe' di Niccolò Machiavelli, ma non mancava neppure 'Il Novellino' di Masuccio Salernitano; ovviamente vi furono inserite anche tutte le edizioni della Bibbia pubblicate dai protestanti. Si avvalse, in questa sua opera purificatrice, di monsignor Giovanni Della Casa, l'autore del 'Galateo'. Con molteplici edizioni l'Indice dei Libri proibiti sarà regolarmente pubblicato fino al 1938.
In questa sua opera riformatrice si fece coadiuvare dai nipoti, specie CARLO CARAFA, eletto cardinale e segretario di stato, uomo immorale, che abusò del suo ufficio per losche manovre. Quando finalmente Paolo IV aprì gli occhi sui traffici dei suoi nipoti, procedette contro Carlo e suo fratello con la destituzione delle cariche e l'esilio (1559), ma non potè ormai più rimediare al male da essi provocato.

L'apice fu raggiunto con la promulgazione, il 12 luglio 1555, della Bolla "Cum Nimis Absurdum", con la quale era istituito a Roma, e in altre città, il GHETTO per gli ebrei, sancendo la totale separazione dai cristiani. Il documento così motivava le gravi restrizioni imposte:

"Poiché è assurdo e sconveniente al massimo grado che gli ebrei, che per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna, possano, con la scusa di essere protetti dall'amore cristiano e tollerati nella loro coabitazione in mezzo a noi, mostrare tale ingratitudine verso i cristiani ed oltraggiarli per la loro misericordia e pretendere dominio invece di sottomissione; e poiché abbiamo appreso che, a Roma ed in altre località sottoposte alla Sacra Romana Chiesa, la loro sfrontatezza è giunta a tanto che essi si azzardano non solo di vivere in mezzo ai cristiani, ma anche nelle vicinanze delle chiese senza alcuna distinzione di abito, e che anzi prendono in affitto delle case nelle vie e nelle piazze principali, acquistano e posseggono immobili, assumono donne di casa, balie ed altra servitù cristiana, e commettono altri e numerosi misfatti a vergogna e disprezzo del nome cristiano, ci siamo veduti costretti a prendere i seguenti provvedimenti [...]".
I provvedimenti imposti stabilivano in particolare che da allora in poi gli ebrei avrebbero dovuto abitare in una strada (o all'occorrenza in più strade) separata dalle case dei cristiani e munita di un portone di chiusura; che in ogni ghetto non potesse esistere più di una sinagoga; che gli ebrei dovessero vendere ai cristiani tutti gli immobili posseduti fino ad allora. Veniva inoltre imposto: un segno distintivo per il pubblico riconoscimento (il berretto per gli uomini, un velo o uno scialle per le donne), il divieto di avere servitù cristiana e rapporti, anche di semplice amicizia, con i cristiani, avere botteghe fuori dal ghetto, gravi restrizioni circa l'interesse che si poteva percepire per il prestito, gravi restrizioni riguardo i mestieri consentiti (era permesso il solo traffico di stracci e abiti usati, 'sola arte strazziariae seu cenciariae', diceva il documento papale).

La bolla rappresentava un significativo mutamento di rotta nella politica della Chiesa verso gli ebrei; col succedersi dei pontefici le condizioni di vita imposte agli ebrei non mutarono, anzi, la politica della Chiesa ebbe conseguenze negative anche negli stati non direttamente dominati dal papa.
Il pericoloso isolamento politico e diplomatico e il rigorismo che egli aveva imposto alla Chiesa e a Roma provocò alla sua morte, avvenuta il 18 agosto 1559, una rivolta popolare; fu dato fuoco al Tribunale dell'Inquisizione e distrutta la sua statua; ciò ne impedì i solenni funerali. Venne seppellito nella basilica di san Pietro, ma venne in seguito traslato in santa Maria sopra Minerva.

suo successore fu PIO IV .....



PIO IV - Giovanni L. Angelo de' Medici (1499-1565)
(Pontificato 1560-1565)
GIOVANNI Luigi ANGELO nacque a Milano nel 1499 dal notaio Bernardo de' Medici e Cecilia Serbelloni. Gli umili suoi genitori non gli diedero la celebrità. Fu invece il fratello Gian Giacomo, detto 'Medeghino il famigerato', con la sua brillante carriera militare e con le sue clamorose imprese, a dargli un nome ed una fama. La stessa moglie di Gian Giacomo, Marzia Orsini, era cognata di Pier Luigi Farnese, parente del papa Paolo III.

Compiuti gli studi giuridici, fu avviato alla carriera ecclesiastica, godendo della protezione del cardinale Farnese, futuro Paolo III. Fu Protonotaio apostolico e Commissario per la città di Roma. Nel 1545 venne eletto vescovo di Ragusa e, l'anno successivo, Commissario della Lega Smalcaldica; cardinale nel 1549. Protetto da Giulio III e avversato da Paolo IV (durante il cui pontificato si era ritirato a vita privata, dal 1556 al 1559) per le sue simpatie filospagnole, venne eletto papa, alla morte di quest'ultimo, la notte di Natale nel 1559, dopo un tempestoso conclave durato circa quattro mesi.
Volle chiamarsi PIO IV per indicare la mitezza che si proponeva di usare nel suo governo.

A differenza del suo predecessore, si mostrò veramente conciliante usando buona diplomazia. Ristabilì i buoni rapporti con l'imperatore Ferdinando I e condusse la sua politica in accordo con lui e con Filippo II di Spagna, che si sentiva protettore nato del cattolicesimo e del papato, ma anche ardente fautore del cesaropapismo nei suoi regni. Incline veramente alla mitezza si rifiutò di scomunicare Elisabetta I d'Inghilterra.
Addirittura temperò la severità dell'Inquisizione cercando si regolarne le procedure, limitandone la giurisdizione.

Pio IV aprì un clamoroso processo contro i nipoti di Paolo IV, i Carafa, ed in particolare contro il nipote porporato Carlo, il quale, esiliato da Roma dallo stesso zio, aveva avuto la sfrontatezza di tornare in città. La mattina del 7 giugno 1560 furono arrestati i cardinali Carlo ed Alfonso, oltre al duca Giovanni, al conte Ferrante e a Leonardo de Cardenas. Il primo di costoro era accusato di aver indotto lo zio pontefice a muovere guerra contro la Spagna, nonché sospettato addirittura d'eresia, per aver tentato di stringere alleanze con alcuni principi protestanti tedeschi e con il sultanato turco. Il cardinale Alfonso era invece accusato di aver estorto denaro allo zio morente. Sul duca, infine, pendeva l'accusa di aver, col consenso degli altri membri della sua famiglia, fatto strangolare la moglie per adulterio, e per avere personalmente ucciso il suo presunto amante Marcello Capece. A sostenere la pubblica accusa nel processo fu designato, quale procuratore fiscale, Alessandro Pallantieri che si dimostrò implacabile nei confronti degli arrestati, sia nell'attività inquisitoria, sia in quella di giudizio, che si concluse con una sentenza durissima: condanna a morte per i quattro principali imputati e pena pecuniaria per il cardinale Alfonso, che fu anche rimosso dalla Curia ed esiliato.

L'esecuzione di Carlo Carafa avvenne a Castel sant'Angelo, dove il condannato era detenuto poichè porporato, mediante la garrota, sistema strangolamento di recente importato dalla Spagna, consistente in un laccio che da dietro veniva serrato mediante due manopole al collo del condannato. Metodo che però stavolta non funzionò alla perfezione, in quanto il Carafa era un uomo possente ed il laccio col quale il boia gli stringeva la gola si ruppe. Fu necessario usare un'altra corda che, stavolta, fece fino in fondo il suo dovere. Sul busto di Pasquino il mattino successivo apparve il libello 'Extinxit laqueus vix te, Carafa, secundus; tanto enim sceleri non satis unus erit' (ti uccise il secondo laccio, o Carafa, a tanta sceleratezza uno non sarebbe bastato).

Giovanni, Ferrante e Leonardo furono, all'alba dello stesso giorno, decapitati nel cortile del carcere di Tordinona ed i loro cadaveri esposti al pubblico ludibrio, sotto la pioggia nella piazzetta di Ponte, ciascuno con la rispettiva testa collocata al fianco. Solo la notte successiva fu possibile provvedere alla sepoltura nella cappella di famiglia che è l'ultima della navata di destra della basilica di santa Maria sopra Minerva.
Inflitto questo duro colpo al grande nepotismo, Pio IV si limitò, per conto suo, a praticare il piccolo nepotismo. Elevò alla porpora numerosi congiunti, oltre a favorirne altri: il nipote Federico fu nominato Capitano Generale della Chiesa e Gian Antonio Serbelloni e Marco Sittico Altemps furono nominati cardinali; con loro favorì anche il nipote CARLO BORROMEO, cui affidò diversi incarichi prima ancora di essere consacrato sacerdote (Protonotario Apostolico e Referendario della Segnatura), fino all'elezione a cardinale avvenuta alla fine del gennaio 1560. Il 7 febbraio 1560, Carlo fu nominato arcivescovo della diocesi di Milano, ma, come era usanza all'epoca, rimase a Roma presso la corte dello zio, dove ottenne ricche commende abbaziali, diventò Legato pontificio per la Romagna, protettore del regno del Portogallo e dei Paesi Bassi, protettore di alcuni fra i maggiori ordini religiosi, arciprete di santa Maria Maggiore, gran penitenziere. Soprattutto occupò una posizione di primo piano all'interno della curia pontificia e, in qualità di cardinale-nipote si affermò come il più stretto collaboratore del papa. Moltissimi storici ritengono questo caso un classico esempio di nepotismo 'opportuno'.

Pio IV investì della propria autorità Teresa d'Avila, la quale lavorò con successo dal 1562 ai fini di una più rigorosa osservanza della regola nei monasteri carmelitani maschili e femminili; fu sostenuta da Giovanni della Croce che ne condivideva gli ideali.
Pio IV si rivelò, durante il suo papato, anche munifico mecenate. Presso la sua corte trovarono protezione e lavoro Michelangelo, Giovanni da Udine, Daniele da Volterra; agevolò anche l'arte della stampa chiamando Paolo Manuzio a Roma. Tra le sue opere più significative segnaliamo la Porta Pia, eretta dal 1561 al 1564 da Michelangelo, presso l'antica Porta Nomentana, a fondale della strada Pia. È l'ultima opera di Michelangelo e segna il momento di transizione fra il tardo Rinascimento e il Barocco.
Il lato che affaccia su via XX settembre presenta nel mezzo del corpo a mattoni coronato da una merlatura ornamentale, il grandioso portale di travertino con lesene scanalate e ricco timpano composito. Ai lati finestroni a timpano sormontati da minori finestre riccamente incorniciate.
Il lato che guarda la via Nomentana è a forma di arco trionfale, a un fornice, fiancheggiato da nicchie con le statue di sant'Alessandro e di sant'Agnese. Le due porte sono tra loro unite da bassi fabbricati, che fiancheggiano un cortiletto, ornato dei busti bronzei, dove oggi è situato l'ingresso al Museo Storico dei Bersaglieri.
La Porta Cavalleggeri sostituì la 'Porta Posterula alias Turrionis'. La porta prese il nome attuale nel 1550, quando, la Guardia dei Cavalleggeri fu accasermata nelle sue vicinanze. La porta, che è ora murata, fu aperta, dopo il ritorno del papa da Avignone.

Nel 1561 Pio IV operò la grande trasformazione delle Terme di Diocleziano con la costruzione del monastero e del relativo chiostro grande della certosa di santa Maria degli Angeli, più comunemente conosciuto come chiostro michelangiolesco, perché la tradizione lo attribuisce ad un disegno di Michelangelo. Iniziato nel 1565, come testimoniato dalla data incisa sulla colonna angolare in prossimità del portale settecentesco, che collega il grande chiostro con l'esterno, fu terminato alla fine del '600.
Con la realizzazione della Casina di Pio IV, di Pirro Ligorio, i giardini vaticani assunsero l'aspetto di una villa. La casina, iniziata da Paolo IV, e completata dal suo successiore, rende molto bene l'idea del riposo bucolico.

L'opera più proficua di Pio IV è senz'altro la ripresa del Concilio di Trento, su suggerimento del nipote Carlo, per il suo terzo ed ultimo periodo (sessioni XVII-XXV, 18 gennaio 1562 - 4 dicembre 1563). Per la sua apertura vi erano ancora gravi difficoltà da superare, poichè l'imperatore e la Francia desideravano una convocazione completamente nuova del Concilio, che prescindesse dai decreti emenati nei due primi periodi e si radunasse in una città diversa da Trento. Purtroppo la Germania in questo importantissimo periodo conclusivo fu molto mal rappresentata; per timore dei protestanti l'episcopato tedesco si astenne dal parteciparvi. I principi protestanti d'altronde avevano ancora una volta respinto, in forma offensiva, l'invito papale loro comunicato nel convegno di Naumburg (gennaio 1561).
Comunque sia, Pio IV lo riprese con la bolla del 29 novembre del 1560, ma la riapertura si ebbe solo nel 1562. Tra i cardinali sostituti del presidente delegato Ercole Gonzaga, venne nominato l'agostiniano Girolamo Seripando, allora arcivescovo di Salerno che aveva contribuito non poco alla discussa stesura dei decreti sul peccato originale e la giustificazione; tra gli altri teologi che parteciparono al concilio, si ricordano in particolare Reginaldo Pole, Diego Lainez, Melchior Cano e Domingo De Soto.

Il concilio doveva innanzitutto portare a termine la dottrina dei sacramenti. Le sessioni XVII-XX furono dedicate alla riorganizzazione dei lavori. Nelle sessioni XXI-XXIV (16 luglio 1562 - 11 novembre 1563) furono emanati decreti sulla dottrina della Comunione sotto le due specie, la Comunione dei bambini, il sacrificio della Messa, i sacramenti dell'Ordine e del Matrimonio. I dibattiti relativi furono talora molto difficili e richiesero parecchio tempo; più di una volta si affacciò il pericolo di uno scioglimento del concilio. A questo periodo sono da ascriversi anche un gran numero di sostanziosi decreti di riforma, concernenti i più importanti settori della vita ecclesiastica.

L'imperatore Ferdinando I, nel giugno 1562, presentò al concilio un libello di riforma in quindici articoli, concernenti la "Riforma della Chiesa nel suo capo e nei suoi membri", e insistette perchè venisse messo in discussione prima delle questioni dogmatiche. Accanto a proposte ben fondate ed utili, vi si trovavano però anche richieste pressochè inaccettabili per la Curia, come quella della concessione del calice per i laici e del matrimonio per i sacerdoti; esse erano sostenute anche dal duce Alberto IV di Baviera e in parte anche dalla Francia. La decisione circa il calice per i laici fu infine rimessa, nella XXII sessione, al giudizio del papa. In realtà Pio IV nel 1564 concesse ad un buon numero di diocesi germaniche, sotto determinate condizioni, la comunione sotto ambedue le specie; la richiesta di abolizione del celibato ecclesiastico, per altro frequentemente violato, fu invece fermamente respinta.

Siccome l'entusiasmo per il calice ai laici ben presto si raffreddò fra i cattolici tedeschi, e per di più non si ebbe il successo che se ne sperava di recuperare numerosi protestanti, nel 1571 esso fu abolito in Baviera, e nel 1584 anche in Austria (eccettuata la Boemia).

Lunghe e tempestose discussioni si sollevarono a partire dall'aprile del 1562, quando si cominciò a trattare dell'obbligo di residenza e del potere di governo dei vescovi. Per rendere impossibile la cumulazione di benefici ecclesiastici in una sola mano, gli spagnoli e i francesi volevano che il concilio dichiarasse che l'obbligo di residenza fosse di diritto divino, e in relazione a ciò favorivano la tesi secondo cui la giurisdizione vescovile non proveniva dal papa, ma direttamente da Dio. Gli italiani si opposero con energia.

Così la controversia riaccendeva l'antica (ma attuale ancora oggi) opposizione fra sistema episcopale e sistema papale. Nel sessione XXIII (15 luglio 1563), dopo che il nuovo presidente cardinale Morone ebbe raggiunto con contatti personali un accordo con l'imperatore a Innsbruck (aprile-maggio 1563), nella questione della riforma, in concilio si arrivò ad accantonare la questione del rapporto tra episcopato e papato, lasciandola impregiudicata.

Nella sessione XXII 1562 ordinò che nel canto e nel suono dell'organo si evitasse severamente tutto ciò che aveva un tono di lascivo e impuro. Alcuni zelanti volevano addirittua proscrivere completamente dalle chiese la musica figurata o polifonica per far ritorno al puro canto gregoriano; ma la commissione cardinalizia istituita dal papa per l'applicazione dei decreti tridentini non fece sua questa proposta estrema e si limitò ad esigere intellegibilità del testo, maggior semplicità delle composizioni ed esclusione di melodie mondane dalla chiesa.

Nel capitolo del matrimonio (sess. XXIV) non ci si limitò a definirne la sacramentalità e l'indissolubilità, ma fu emanato anche un apposito decreto, 'De reformatione matrimonii', in dieci capitoli. Il primo di questi, il cosiddetto decreto 'Tametsi', dichiarò nullo e invalido il matrimonio segreto e riconobbe validità soltanto al matrimonio celebrato dinanzi al parroco competente e a due o tre testimoni.

Degli altri decreti di riforma sono da ricordare: le prescrizioni relative al conferimento degli ordini sacri e alla sufficiente dotazione delle parrocchie, l'abolizione dell'ufficio dei questuari e il conferimento ai vescovi del compito di annunciare le indulgenze (sess. XXI, XXIII), l'accentuazione del dovere di residenza per i rettori delle chiese e l'obbligo per tutti i prelati di farsi consacrare entro tre mesi (sess. XXIII). Di vasta portata fu il decreto riguardante l'erezione di seminari diocesani per la formazione dei futuri sacerdoti, decreto, però, che nelle intenzioni dei padri conciliari, non doveva minimamente compromettere o meno ancora abolire lo studio della teologia nelle università. La sessione XXIV emanò una quantità di disposizioni circa la celebrazione di sinodi provinciali (ogni tre anni) e di sinodi diocesani (annuali), la visita delle diocesi, l'esercizio dell'ufficio della predicazione e l'istruzione religiosa del popolo, la penitenza ecclesiastica pubblica, l'istituzione di un esame di concorso per le nomine alle parrocchie vacanti, il divieto di cumulazione dei benefici (prevedendo una serie di dispense), delle expectantiae, delle provvisioni, delle riserve.

Nella sessione conclusiva (sess. XXV) del 3 e 4 dicembre 1563 furono emanati i decreti dogmatici circa il purgatorio, il culto dei santi e delle reliquie, le immagini sacre e le indulgenze. Interessante ciò che troviamo nel decreto delle indulgenze, dove leggiamo: "Il Santo Sinodo insegna e comanda di mantenere nella Chiesa l'uso delle indulgenze, molto salutare per il popolo cristiano... desidera tuttavia che nel concedere le indulgenze si usi moderazione... per evitare che la troppa facilità nel concederle indebolisca la disciplina ecclesiastica... col presente decreto (il sinodo) stabilisce la completa abolizione di tutti gli indegni traffici di soldi fatti per ottenerle".

Inoltre fu approvato un particolare decreto di riforma degli ordini religioso maschili e femminili e un decreto di riforma generale riguardante diversi oggetti (fra l'altro vi si proibisce il duello, con la pena di scomunica). Diverse riforme non ancora elaborate, come l'edizione di un nuovo indice dei libri proibiti, in sostituzione di quello troppo severo di Paolo IV, di un Catechismo generale, di un Breviario e un Messale riveduti, furono demandate al papa.

I decreti conciliari furono sottoscritti da 255 partecipanti, fra cui 6 cardinali, 3 patriarchi, 193 arcivescovi e vescovi, 7 abati e 7 generali di ordini e 39 procuratori di assenti. Il concilio fu ufficialmente chiuso con la Bolla Iniunctum nobis del novembre 1563. Nella Bolla Benedictus Deus del 26 gennaio 1564, Pio IV concesse una ratifica dei decreti richiesta dal concilio e sitituì una Congregatio s. Concilii, costituita da otto cardinali, col compito di interpretare autenticamente i decreti stessi e di controllarne l'esecuzione. Inoltre nel 1564, secondo l'incarico che gli era stato affidato, egli pubblicò un 'Index librorum proibitorum' e una 'Professio fidei' tridentina, contenente una professione di fede e una promessa d'ubbidienza verso la Santa Sede. Il resto del programma fu riservato ai suoi successori.

I decreti tridentini furono accettati senza riserve dal maggior numero dei sovrani e degli stati, come dall'imperatore Ferdinando, dalla Polonia, dal Portogallo, dalla Savoia e dagli stati italiani, ma da Filippo II di Spagna invece furono accolti soltanto con la clausola 'salvi i diritti regali'. La Francia accettò bensì i decreti dogmatici, ma rifiutò il riconoscimento ai decreti di riforma; questi tuttavia furono promulgati gradualmente dai vescovi nei sinodi provinciali. In Germania gli stati cattolici, con l'imperatore Massimiliano alla testa, si assoggettarono, nella Dieta di Augusta del 1566, ai decreti tridentini circa il dogma e il culto.

Il Concilio di Trento ebbe una durata più lunga e dovette superare difficoltà esterne ed interne maggiori di qualsiasi concilio precedente. Ma è anche vero che nessuna altro concilio ha esercitato un'azione così vasta, profonda e duratura per la fede cattolica e la disciplica ecclesiastica; tale azione è ancora viva ai nostro giorni. Certo esso non riuscì a ripristinare l'unità religiosa, giunse appena in tempo per salvare la Chiesa nei paesi latini; in quelli nordici era ormai troppo tardi.

L'occidente cristiano rimase così confessionalmente diviso. Ma la dottrina cattolica fu chiarita e nuovamente precisata nei suoi punti decisivi. Anche se l'attuazione dei decreti fu soltanto graduale e di diversa portata nei singoli paesi, dal concilio si irradiò una forza rigeneratrice e creativa andata sotto il nome di CONTRORIFORMA (o Riforma Cattolica).

Scampato miracolosamente ad una congiura ordita verso di lui per ucciderlo, Pio IV ne rimase così impressionato che si ammalò e non riacquistò più la salute. Quando si aggravò accorsero ad assisterlo sul letto di morte Carlo Borromeo e Filippo Neri, e nelle loro braccia spirò tranquillamente la notte del 9 dicembre 1565. I suoi resti mortali riposano nella tomba a lui dedicata in santa Maria degli Angeli a Roma, dove c'è anche un busto che ne ricorda la presenza. Spostando l'organo, nell'abside fu creato un passaggio per una bellissima sala a lui dedicata.
suo successore fu PIO V....


PIO V - Antonio Michele Ghislieri (1504-1572)
(Pontificato 1566-1572)
ANTONIO nacque a Bosco (oggi Bosco Marengo - AL) appartenente al Ducato di Milano, il 17 gennaio 1504, dalla nobile ma decaduta famiglia GHISLIERI. Oggi nella sua casa natale, oltre ovviamente al fabbricato, ottimamente conservato, si possono trovare suppellettili, mobili antichi, una cappelletta affrescata, quadri e l'effige di san Pio V.

Per vivere fu costretto a fare il pastore finchè a quattordici anni entrò tra i Domenicani di Voghera; da qui passò al convento di Vigevano dove emise la professione solenne nell'Ordine dei Frati Predicatori assumendo il nome di MICHELE. Negli anni di preparazione al sacerdozio, insieme a solida formazione teologica, facilitata da un'intelligenza vivida, maturò un'intensa vita di pietà e manifestò quella austerità di vita che gli avrebbe meritato tanta stima negli anni successivi.

Completò i suoi studi a Bologna e fu ordinato sacerdote a Genova nel 1528. Per sedici anni fu insegnante di filosofia e teologia a Pavia, Bologna, Bergamo, e successivamente priore nei conventi di Vigevano e Alba, dove si caratterizzò per una rigida disciplina nell'osservanza religiosa. Nominato Inquisitore a Como, spiegò un'indomita energia per arrestare le dottrine protestanti, che segretamente erano introdotte in Lombardia. Il suo intelligente vigore attirò l'attenzione del cardinale Giampietro Carafa, che lo fece nominare, nel 1551, Commissario Generale dell'Inquisizione Romana. Quando costui divenne papa con il nome di Paolo IV, lo elesse prima vescovo di Sutri e Nepi nel 1556 e, l'anno successivo, cardinale. Nel 1558 gli fu assegnata l'alta carica di Inquisitore Generale della Chiesa romana.

Dopo l'elezione di Pio IV monsignor Ghislieri fu nominato, nel 1560, vescovo di Mondovì, ma ben presto ritornò a Roma per occuparsi di otto vescovi francesi accusati di eresia. Con il papa non ebbe rapporti cordiali perché, con rude indipendenza, ne disapprovava l'indirizzo mondano e nepotista. Quando Pio IV morì, il cardinale Ghislieri fu eletto a succedergli, per suggerimento del cardinale Carlo Borromeo, nipote del defunto papa; era il 7 gennaio 1566. Esattamente dieci giorni dopo, nel suo sessantaduesimo compleanno, ricevette l'incoronazione; scelse di chiamarsi PIO V.

Da papa continuò a portare il saio domenicano di colore bianco, consuetudine conservata dai pontefici ancora oggi. Egli impersonò il rinnovamento cattolico nella sua forma più decisa e austera; anche sul trono di Pietro conservò il suo rigido tenore di vita di religioso mendicante. Il suo zelo per gli interessi della religione e della Chiesa fu grande quanto la sua energia nell'attuazione delle riforme tridentine a Roma e negli altri paesi cattolici.

In adempimento ad una decisione del Concilio di Trento, che aveva chiesto che fosse redatto un testo chiaro e completo della dottrina cristiana, nel 1566 comparve il CATECHISMO ROMANO 'ad Parochos', compilato dal cardinale Carlo Borromeo e redatto in buon latino da Aldo Manuzio; nel 1568 un'edizione rinnovata del BREVIARIO e nel 1570 del MESSALE ROMANO.

Nel 1571 nel rafforzare gli strumenti operativi della Riforma cattolica creò la CONGREGAZIONE DELL'INDICE, per l'esame dei libri contrari alla fede cattolica, e rinvigorì l'Inquisizione Romana; riorganizzò la Penitenzieria.
Interveniva personalmente alle sessioni del Tribunale dell'Inquisizione e, due volte la settimana, dava udienza al popolo per dieci ore consecutive. Le sue preferenze andavano ai poveri che ascoltava pazientemente, confortava e aiutava con soccorsi pecuniari.
Favorì enormemente la fondazione di seminari tra cui ricordiamo il Collegio Ghislieri di Pavia.

La sua opera di purificazione dei costumi investì soprattutto la Corte romana colpendo senza pietà gli abusi, riducendo da 1060 a 600 le inutili bocche da sfamare, e nominando una commissione di cardinali perché vigilasse sulla cultura e i costumi del clero, che lasciavano molto a desiderare.

Nell'attuazione delle disposizioni impartite dal Concilio fu coadiuvato assai da monsignor Nicolò Omaneto, braccio destro del Borromeo a Milano ed erede dello spirito di Gian Matteo Giberti, sagace riformatore del vescovado di Verona. Ai sacerdoti furono interdetti la simonia, gli spettacoli, i giochi, i banchetti pubblici, l'accesso alle taverne. Ai vescovi fu imposto un previo esame per l'accertamento sulla loro idoneità, la residenza, pena la privazione del loro titolo, la fondazione dei seminari diocesani e l'erezione delle Confraternite di catechismo; inviò visitatori apostolici nelle diocesi italiane per far rispettare con severità le norme emanate.

Fu rigido avversatore del nepotismo. Ai numerosi parenti accorsi a Roma con la speranza di qualche privilegio, Pio V disse che un parente del papa può considerarsi suffìcientemente ricco se non conosce l'indigenza. Siccome i cardinali ritenevano opportuna la presenza di un nipote del papa nel Collegio dei Principi della Chiesa, Pio V si lasciò indurre a dare la porpora a Michele Bonelli, figlio di sua sorella e domenicano pure lui, perché lo aiutasse nel disbrigo degli affari. A un figlio di suo fratello permise di entrare nella milizia pontificia, ma lo cacciò persino dallo Stato appena seppe che coltivava illeciti amori.

Per migliorare la moralità del popolo romano punì l'accattonaggio, la questua (con due bolle: 1567 e 1570) e la bestemmia, vietò il combattimento di tori e il carnevale, espulse da Roma un grande numero di cortigiane, impose un limite al lusso e alle spese che si facevano in occasione di feste.

Durante la carestia del 1566 (quando si distinse particolarmente l'Associazione dei Fatebenefratelli, poi da lui stessa elevata a Ordine religioso nel 1572) e le epidemie che ne seguirono, fece distribuire somme considerevoli ai bisognosi e organizzò i servizi sanitari. Per reperire le somme necessarie, soppresse qualsiasi spesa superflua e spinse l'oblio di sé fino a fare adattare alla sua statura gli abiti dei suoi predecessori.

Pur non avendo molta attitudine per l'amministrazione dello Stato, volle favorire il benessere dei cittadini tracciando strade, costruendo acquedotti, favorendo l'agricoltura, facendo bonifiche, migliorando le fortezze di difesa.

Nel 1577 proclamò san Tommaso d'Aquino Dottore della Chiesa e obbligò le Università allo studio della Somma Teologica; nel 1570 aveva fatto stampare un'edizione completa e accurata di tutte le opere del santo.
Favorì la musica con la nomina del Palestrina a Maestro della cappella pontificia e le missioni con l'invio di religiosi nelle 'Indie orientali e occidentali' con l'invito agli spagnoli di non scandalizzare gli indigeni delle loro colonie.
Favorì i Monti di Pietà per sottrarre i cattolici dalle usure degli ebrei, contro i quali nel febbraio 1569 emanò la Bolla "Hebraeorum gens", con cui ne ordinava l'espulsione da tutte le terre dello Stato Pontificio, ad eccezione di Ancona e Roma. Gli ebrei di Bologna, città facente parte dello Stato dal 1506, passarono nel vicino territorio estense; ma siccome la bolla ordinava anche la distruzione di tutto ciò che potesse ricordare l’esistenza di una comunità ebraica, compresi i cimiteri, gli ebrei di Bologna abbandonarono la città portando seco anche i loro morti. In seguito scomparirono per sempre alcune comunità ebraiche italiane: quelle di Ravenna, Fano, Camerino, Orvieto, Spoleto, Viterbo, Terracina, non risorsero mai più. Gli ebrei abitanti presso Roma si rifugiano nel già sovrappopolato ghetto romano.

Anche nel resto d'Italia si sentirono le conseguenze della politica antiebraica del papa. A Milano il cardinale Borromeo, propose l'obbligo del marchio giallo, e in un secondo tempo ottenne la loro espulsione. Anche Venezia, dopo la vittoria sui Turchi a Lepanto (vedi sotto), decise di cacciare gli ebrei, decisione poi revocata.

La sua opera puntò, naturalmente, anche all'estirpazione delle eresie. La Bolla cosiddetta "In coena Domini", una raccolta di censure riservate al papa, la cui origine risale al XIII secolo, ebbe da Pio V nel 1568 una formulazione ancora più rigorosa.

Il 1° ottobre 1567 si espresse ufficialmente con la Bolla "Ex omnibus afflictionibus" condannando 79 proposizioni di Michele Baio, professore a Lovanio, e dei suoi discepoli senza farne il nome, semplicemente in sensu ut jacent, dichiarandole in parte eretiche, in parte erronee o scandalose e sospette. Altre bolle furono emanate per la denuncia del dirum nefas, 'l'esecrabile vizio libidinoso' (1568), la conferma dei privilegi della Società dei Crociati per la protezione dell'Inquisizione (1570); il divieto di discussione sull'Immacolata Concezione (1570); l'approvazione del nuovo ufficio della Vergine Maria (1571).

Nel 1571 fu soppresso l'Ordine degli Umiliati, che a Milano avversavano le riforme del Borromeo, accusati di depravazione.
Sotto il suo pontificato Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario, già protonotari apostolici, subirono l'estremo supplizio per la loro adesione agli errori dei protestanti, rispettivamente nel 1564 e nel 1567.
Parimenti intransigente fu nella sua politica estera, fondata essenzialmente sulla difesa del cattolicesimo dall'eresia, mirante ad ampliare i diritti giurisdizionali della Chiesa. Per questo mandò in Germania il Legato Gian Francesco Commendone, per impedire che l'imperatore Massimiliano II si sottraesse alla giurisdizione della Santa Sede; inviò milizie proprie in Francia a combattere contro gli Ugonotti tollerati da Caterina de' Medici ai danni della religione cattolica; esortò Filippo II, re di Spagna, a reprimere il fanatismo degli anabattisti nei Paesi Bassi; incaricò san Pietro Canisio di confutare le Centurie di Magdeburgo, prima tendenziosa storia della Chiesa compilata dai protestanti.
Poggiandosi su una concezione canonistica medievale, nel tentativo di elevare al trono inglese Maria Stuart di Scozia, ritenuta la leggittima sovrana, Pio V non esitò a scomunicare e a decretare la destituzione della regina d'Inghilterra ELISABETTA I, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, una sovrana di grandi capacità, dal finissimo intuito politico, priva di ogni idealismo religioso, ma che seppe portare la potenza dell'Inghilterra a un altissimo livello, assicurandone la posizione di fronte a Francia e Spagna.
La Bolla di scomunica, "Regnans in excelsis", pubblicata il 25 febbraio 1570, oltre la scomunica e la deposizione della sovrana, scioglieva i sudditi inglesi dal giuramento di fedeltà. Le accuse nella bolla papale denunciavano più il risentimento di un nemico sconfitto che non lo sdegno di un pontefice per le questioni religiose; Elisabetta veniva accusata di aver abolito la messa, le preghiere, i digiuni e le pratiche cattoliche, spargendo per il regno l'eresia, scacciando il clero da chiese, conventi e scuole, ma soprattutto il papa la dichiarava decaduta da ogni privilegio in quanto usurpatrice della corona. A tali gratuite insolenze neppure i cattolici inglesi si sentirono di offrire consensi; fu un grave errore quello del papa invitare ogni cattolico inglese ad essere un buon cattolico, tradendo il proprio patriottismo. Questa fu l'ultima deposizione di un regnante; se la si considera dal punto di vista del risultato, fu un grosso errore.

La regina, che già nutriva avversione per i cattolici che mai l'avevano riconosciuta legittima erede al trono, emanò leggi severissime contro di essi, rimettendo in auge il patibolo. Fu un'epoca tremendamente dolorosa per i fedeli cattolici, che perseguitati come nemici dello stato e rei di alto tradimento, furono gravati di tutta la crudeltà di una giustizia sanguinaria. Non solo, ma la bolla inasprì maggiormente l'orgoglio protestante: il regno fu invaso da scritti inneggianti all'anglicanesimo.

Dopo che l'impero ottomano ebbe conquistato Farmagosta e Nicosia (Cipro), eroicamente difese dal veneziano Marcantonio Bragadin (1571) che, dopo la resa, fu scuoiato vivo, Pio V riuscì con la sua autorità ad imporre una tregua alle risse casalinghe degli stati europei e a costituire una LEGA SANTA per arginare la minacciosa avanzata dei turchi.

Questa Lega si costituì il 20 maggio 1571 ed era composta, oltre che dalla Chiesa, da Spagna e Venezia; inoltre vi si associarono Emanuele Filiberto di Savoia, Ottaviano Farnese, l'Ordine di Malta, la Toscana, Genova, Urbino. Tutti riuniti sotto il supremo comando di don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V, fratellastro di Filippo II. Lo scontro con i turchi, allora all'apogeo della loro potenza, avvenne il 7 ottobre 1571 nel golfo di LEPANTO, che diede il nome a tale battaglia, considerata sul piano tecnico-militare, la più grande battaglia navale dell'età medievale e moderna, nel campo della marina a remi.

Agli ordini di Mehmet Alì Pascià la flotta turca per parare la minaccia nemica si era avviata, la mattina del 7, verso l'imboccatura del golfo di Lepanto; comprendeva 222 galere, 60 galeotte con 150 cannoni e 88.000 uomini circa. La flotta cristiana era composta da 202 galere, 6 galeazze, 30 navi minori con 1815 cannoni e 74.000 uomini circa, comandate dai veneziani Sebastiano Veniero e Agostino Barbarigo (105 galere), dal genovese Gian Andrea Doria (79 galere), dal messo papale comandante Marcantonio Colonna (12 galere) e da altri minori.

L'avvicinamento delle due armate non fu veloce: le navi cristiane navigavano a lento moto, con i remi, controvento; quelle ottomane erano spinte dal vento. Caduto lo scirocco queste ultime spensero in breve l'abbrivo e si fermarono; verso mezzogiorno si levò una brezza da ponente favorevole ai cristiani, sicchè fu per i turchi la volta di vogare. Lo scontro avvenne nel pomeriggio. G.A. Doria che comandava l'ala destra al largo in fuori si accontentò di scompigliare col fuoco la sinistra nemica. Il veneziano A. Barbarigo, che comandava la sinistra cristiana attaccò risolutamente la destra nemica sgominando 30 galere. La lotta al centro, guidata da don Giovanni d'Austria in persona, durò a lungo nonostante l'impiego congiunto di fuoco e arrembaggi, ma terminò con la disfatta turca, che si completò contemporaneamente anche sulle ali. In conclusione 50 navi ottomane furono distrutte, 117 catturate, uccisi 8000 turchi e circa 10.000 fatti prigionieri; perdite alleate: 15 galere e 7500 uomini, fra cui il Barbarigo. La vittoria cristiana distruggeva la leggenda, formatasi attraverso le imprese turche del mediterraneo durante il XVI secolo, della imbattibilità dell'impero ottomano, di cui segnava insieme l'inizio della decandenza marittima.

Nella stessa ora in cui terminava la battaglia, Pio V stava ragionando di conti con il suo tesoriere quando improvvisamente si alzò, andò alla finestra, rimase alcuni istanti estatico con lo sguardo volto a oriente, e poi esclamò: "Non occupiamoci più di affari. Andiamo a ringraziare Dio perché la flotta cristiana ha riportato vittoria!". Furono immediatamente suonate la campane per comunicare la vittoria e invitare tutta la cristianità al ringraziamento.

A ricordo dell'avvenimento, che cambiò il corso della storia, fu introdotta la festa del Rosario (inizialmente detta 'santa Maria della Vittoria'), il giorno 7 ottobre, che in quell'anno cadeva di domenica; la festa venne estesa nel 1716 a tutta la Chiesa universale, e definitivamente fissata al 7 ottobre da Pio X nel 1913. Il senato veneto fece dipingere la scena della battaglia di Lepanto nella Sala delle adunanze con la scritta: "Non la forza, non le armi, non i comandanti, ma il Rosario di Maria ci ha resi vittoriosi!".

Alla magnifica vittoria di Lepanto seguirono, purtroppo, dissensi fra i governanti, che portarono allo scioglimento della Lega; il successo, dunque, non fu adeguatamente sfruttato e il papa non potè vedere concretizzata la sua aspirazione alla liberazione del Santo Sepolcro.

Pio V, spossato da ipertrofia prostatica di cui, per pudicizia, non volle esser operato, si spense la sera del 1° maggio 1572, a 68 anni d'età, dopo aver detto ai cardinali radunati attorno al suo letto: "Vi raccomando la santa Chiesa che ho tanto amato! Cercate di eleggermi un successore zelante, che cerchi soltanto la gloria del Signore, che non abbia altri interessi quaggiù che l'onore della Sede Apostolica e il bene della cristianità".

Di lui san Carlo Borromeo aveva detto che, da lungo tempo, la Chiesa non aveva avuto un capo migliore e più santo. Fu sepolto in san Pietro, in Vaticano. L'8 gennaio 1588 la salma venne traslata nella cappella del SS. Sacramento, voluta da Sisto V, a santa Maria Maggiore; il monumento funebre è opera di L. Sarzana.
Lo stesso Sisto V aprì il processo di canonizzazione. Pio V fu beatificato da Clemente X il 27 aprile 1672 e canonizzato da Clemente XI il 22 maggio 1712. La sua festa celebrata il 5 maggio, è stata fissata al 30 aprile dal nuovo calendario.


GREGORIO XIII - Ugo Boncompagni (1502-1585)
(Pontificato 1572-1585)
UGO BONCOMPAGNI nacque a Bologna nel gennaio 1502 da famiglia della borghesia bolognese, originaria della contrada di Norcia. Studiò giurisprudenza nella città natale conseguendo il dottorato nel 1530 e tenendovi lezione dal 1531 al 1539; fu ordinato sacerdote all'età di qurant'anni circa.
Dopo aver rinunciato alla cattedra, si recò a Roma, entrando al servizio del cardinale Parisio.
Paolo III lo creò senatore del Campidoglio, e poi Referendario di ambedue le Segnature; prese parte ai lavori del Concilio di Trento come Abbreviatore esperto di diritto canonicoo. Sotto Giulio III cadde in disgrazia per cause non note e fu cancellato dal gruppo dei Referendari. Rientrò in grazia sotto Paolo IV, come giurista e diplomatico, che lo affiancò al nipote Carlo Carafa alla Dataria e nel 1558 fu fatto membro del nuovo Consiglio di Stato.

Nello stesso anno fu nominato vescovo di Vieste. Ebbe a governare la diocesi per due anni, in momenti molto difficili: la città, infatti, ancora non si era ripresa dai terribili saccheggi del famigerato Draguth. Provvide con munificenza a dotare la Cattedrale di arredi molto pregiati, di vasi sacri, di paramenti preziosi, di quadri. Da pontefice non dimenticò la sua Vieste: la fece riportare nelle Carte Geografiche affrescate nelle Sale Vaticane e concesse all'altare della Cappella di san Michele della Cattedrale il grande privilegio dell'acquisto delle indulgenze plenarie per l'anima dei defunti durante la Messa di suffragio celebrata da un sacerdote locale.

Pio IV, con bolla del 12 marzo 1565, gli offrì il cappello cardinalizio con il titolo di san Sisto e, al termine del Concilio, lo volle a Roma, nominandolo Assistente di Cappella ed assegnandolo come compagno di san Carlo Borromeo. Pur ricoprendo tali prestigiosi incarichi sottoscrisse, fino al 1566, tutti gli atti con "Ego Ugo Boncompagnus, Episcopus Vestanus".

Nell'autunno dello stesso anno fu inviato in legazione presso il re di Spagna per il processo dell'Inquisizione contro l'arcivescovo di Toledo, Carranza, ma, appresa la notizia della morte di Pio IV, tornò a Roma. Era fra i Correctores romani incaricati della riforma del Corpus Iuris Canonici, quando, alla morte di Pio V, fu eletto papa in un rapido conclave, il 14 maggio 1572. Scelse di chiamarsi GREGORIO XIII.

Anche il suo papato fu di notevole importanza per l'avviata Riforma cattolica, sebbene inferiore ai precedenti. Egli governò con la viva coscienza che la politica è l'arte del possibile, con molta indipendenza e curando personalmente tutti gli affari importanti.
Ma la grandiosità dei suoi intenti portò a uno sbilancio delle finanze pontificie, che non fu equilibrato dalla rigorosissima revisione, fatta da lui stesso, dei diritti fiscali della Santa Sede, revisione che portò all'incameramento di parecchi feudi e possedimenti nobiliari. Tali misure suscitarono molto malcontento nelle classi colpite e contribuirono allo scatenamento delle associazioni, specialmente in Romagna, e alla piaga del brigantaggio, alimentato in parte anche dagli stati vicini, più d'uno dei quali riteneva di aver ragione di lagnarsi della politica autoritaria del pontefice.
Possedette sempre un alto concetto della sua sovranità che lo tenne lontano dal nepotismo. Unica eccezione fu nei confronti del figlio Giacomo, avuto da laico e legittimato, che aveva nominato Castellano di Castel sant'Angelo e nel 1573 Capitano delle truppe pontificie, e che aveva sposato con la sorella del conte di Santa Fiora, la nipote del cardinale Sforza.

Predisposto alla laboriosità e largo d'udienze, ma sintetico nei colloqui e rapido nelle decisioni, si circondò di Gesuiti, Cappuccini, Teatini; fu ben influenzato da san Carlo Borromeo e san Filippo Neri, che molto lo coadiuvarono specialmente nel Giubileo del 1575 (vedi sotto), anno in cui approvò la Congregazione dell'Oratorio
In particolare beneficò i Gesuiti, favorendo gli studi ecclesiastici, consapevole che la Riforma non poteva essere attuata se non attraverso un clero colto e ben preparato; fece costruire dall'Ammannati il COLLEGIO ROMANO....
... nell'omonima piazza tutt'ora esistente, divenuto poi con altre istituzioni culturali, l'Università in suo onore, denominata, per l'appunto, Gregoriana; egli stesso l'inaugurò il 25 ottobre 1584. Grazie alla sua azione di promozione degli studi romani si installarono in Roma i Collegi Germanico, Ungarico, Inglese, Irlandese, Maronita, Greco. Dagli studenti, formati nei vari collegi romani, il papa si aspettava la diffusione della riforma tridentina in tutta la cristianità.
Accanto al Collegio Romano venne istituito l'Osservatorio Astronomico ad esso adiacente, nel 1583.

Nella vasta opera di Riforma rientrò anche la revisione, effettuata in prima persona e pubblicata nel 1582, della raccolta di diritto canonico, che da allora prese il nome di Corpus Juris Canonici; editata anche la prima edizione del Martirologio Romano, nel 1583.

L'evento che rappresentò il culmine del suo pontificato fu l'XI Giubileo indetto il 10 maggio 1574 con la Bolla "Dominus ac Redemptor noster" (pubblicata per due volte: una per la solennità dell'Ascensione e una il 19 dicembre, in quanto quarta domenica d'avvento), primo anno santo dopo la chiusura del Concilio di Trento, anno di universale remissione e di speranza di un ritorno dei protestanti alla Chiesa Cattolica. Tutto il 1574 fu considerato dal papa come una grande vigilia. Infatti fece chiamare a Roma eccellenti predicatori e confessori di varie nazioni. Il 24 dicembre, quando Gregorio XIII aprì la Porta Santa, il martello si spezzò e ferì leggermente la sua mano. Carlo Borromeo se ne fece intreprete principale nel nord Italia; a Roma, invece, troviamo Filippo Neri con la cura dei pellegrini. Quest'ultimo pensava l'Anno Santo come un'occasione unica per aiutare i cristiani più lontani, ne promosse perciò ogni possibile forma di assistenza, da quella materiale a quella propriamente morale e religiosa. Il papa, per l'occasione, proibì il carnevale e ogni altro gioco (su suggerimento del Borromeo furono offerti i risparmi all'Ospedale dei Pellegrini, gestito dal Neri), diede lo sfratto alle donne di mala vita, fissò un listino del giusto prezzo dei viveri e degli alloggi, stabilì rigorose pene per chi avesse recato danno od oltraggio ai pellegrini, vietò ai padroni di casa ogni aumento di pigione o di dare la disdetta ai pigionanti. Durante questo Giubileo venne fissata una norma che aggiungeva al viaggio dei pellegrini la visita alle tombe dei Santissimi Apostoli. Il papa, da parte sua, nel corso dell'anno fece a più riprese la visita alle quattro basiliche a piedi scalzi.

Gli aspetti caratteristici di questo Anno Santo furono la preghiera, la predicazione, la penitenza e la carità; si intravede la fine della crisi del Giubileo medioevale, e quest'anno santo costituisce il punto di partenza di un nuovo ciclo nella storia del Giubileo cristiano.
Oltre all'intensa preparazione spirituale, si volle anche un rinnovamento edilizio, per far rinascere Roma anche esternamente: fu fatta spianare la montagna tra san Giovanni in Laterano e santa Maria Maggiore e fece lastricare le strade della città; a Gregorio si deve anche l'uso della muratura della Porta Santa e l'introduzionde delle medaglie celebrative.

Confluirono a Roma circa 350.000 persone da tutta l'Europa. La Confraternita della SS. Trinità fondata da Filippo Neri assisteva quotidianamente seicento persone, e si calcola che in quell'anno ne abbia accolti 170.000. Giunsero pellegrini anche dall'Arabia, dall'Etiopia, dall'Armenia; le principali nazionalità europee provvedettero ad erigere in Roma ospizi per i loro pellegrini, affidandoli ad una Confraternita. Nacquero così, ad esempio, santa Maria dell'Anima per i tedeschi, san Giuliano per quelli dei Paesi bassi, santa Maria di Monserrato e san Giacomo in piazza Navona per gli spagnoli, san Luigi per i francesi. Ai pellegrini si dava una tessera di riconoscimento: 'T Roma' per i pellegrini della Confraternità della Trinità. Data la grande affluenza di Confraternite, papa Gregorio dispose che il numero delle visite alle chiese venisse ridotto.

Le Confraternite furono la novità del Giubileo del 1575 dando un notevole incremento alla religiosità popolare. Esse incedevano processionalmente per Roma, cantando litanie, accompagnate da cantori muniti dei più svariati strumenti musicali e, spesso, seguite anche da cocchi per le persone più deboli. L'atmosfera religiosa che si creava per la città era certamente di grande suggestione. Il papa concesse a quanti non potevano recarsi a visitare le basiliche romane, nel caso pensava ai cattolici inglesi, la recita di quindici rosari invece delle quindici visite romane previste per i forestieri. Il Giubileo fu un'occasione per beneficare gli istituti d'educazione, ospedali, Monti di Pietà; per dare riscatto, con somme di denaro, ai cristiani fatti schiavi dai musulmani. Nel 1573 aveva definito la festa solenne della Vergine del Rosario, fissandone la data al 7 ottobre.

Con Gregorio XIII si concluse la vicenda di Michele Baio, che si sottomise nel 1580 dopo lunghe tergiversazioni e in seguito a un suo nuovo interevento; ma con ciò la dottrina a Lovanio non fu per nulla estinta, anzi essa assunse poi una nuova e maggiore efficacia nel Giansenismo.
Tentativi unionisti furono avviati con la Chiesa russa. Gregorio mandò, durante la guerra russo-polacca, allo zar Ivan IV, il gesuita Antonio Possevino, quale mediatore di pace, ma le promesse dell'autocrate russo circa una riunifocazione religiosa non erano sincere. Simile fallimento si ebbe con i tentativi con la Chiesa greca, gelosa della sua indipendenza e del suo distacco; perfino l'accettazione del calendario gregoriano riformato (vedi sotto) fu respinta in blocco dagli ortodossi. Giovanni III di Svezia, divenuto re di un paese protestante, ma sposato con la cattolica Caterina Jagellona di Polonia, si adoperò specialmente per ragioni politiche per la causa della riunificazione dell'antica fede e a questo scopo aprì trattative con papa Gregorio il quale inviò a Stoccolma parecchi gesuiti; fu introdotta una liturgia simile a quella cattolica (con il cosiddetto Libro rosso) e lo stesso re passò occultamente al cattolicesimo nel maggio 1578. Ma le sue richieste per ottenere il matrimonio dei sacerdoti, la comunione sotto le due specie, l'uso della lungua volgare in una parte della Messa non trovarono ascolto e il suo zelo religioso andò spegnendosi rapidamente.

Ripristinò la cosiddetta 'predica coattiva' che obbligava gli ebrei ad ascoltare prediche che avrebbero dovuto indurli alla conversione; emanò in proposito due Bolle, nel 1577 e nel 1584. Gli ebrei dovevano andare il sabato pomeriggio in una chiesa vicina al ghetto: quelli di Roma nella chiesa di san Paolo alla Regola, quelli di Lugo nella chiesa delle Stimmate, attigua al portone verso l'esterno della città; e così in tutti i centri dello Stato dove vivevano ebrei. Ma prima di andarci, molti di essi si turavano le orecchie e turavano quelle dei loro figli con della cera; oppure, simulando mal di denti, si fasciavano la testa. Facile è comprendere quale risultato potessero avere tali prediche.

Gregorio XIII si dedicò anche all'arte e all'edilizia artistica. Fondò a Roma l'Accademia Musicale di Santa Cecilia, e sempre nella capitale iniziò la costruzione del palazzo del Quirinale con l'intervento di vari architetti. L'avvio dei lavori spinse Gregorio anche a predisporre la condizione dell'Acqua Alessandrina.

In occasione del Giubileo del 1575 ordinò di decorare una sala dei suoi appartamenti privati con un breve ciclo gegrafico, dedicato alla propria città natale ed al suo territorio; la sala, pertanto, ebbe a chiamarsi Sala Bologna.

Sotto il suo pontificato sorsero a Roma le chiese del Gesù, della Vallicella, di sant'Andrea della Valle, mentre molte piazze di Roma si abbellirono di artistiche fontane, specie nei quartieri bassi della città, e sorsero in periferia molte ville con parchi; si costruiva la spaziosa via Merulana che collegava san Giovanni in Laterano con santa Maria Maggiore.
Chiamò nell'Urbe personaggi illustri, tra cui il Palestrina, nel 1571, impegnato a dirigere la Cappella musicale pontificia, e lo storico Cesare Baronio redattore degli 'Annales'.

In politica estera merita particolare importanza la completa riorganizzazione delle NUNZIATURE, facendone veri centri propulsori della Riforma cattolica. Alle rappresentanze diplomatiche della Curia, già stanziate contemporaneamente presso le corti di Vienna, di Parigi, di Madrid e di Lisbona, si aggiunsero le Nunziature stabili di Lucerna per la Svizzera (1579), di Gratz per l'Austria (1580) e di Colonia per la Germania meridionale (1584).

Si adoperò molto per la cessazione delle lotte civili; ottenne che le fazioni rimettessero le loro contese nelle mani sue e in quelle dell'Imperatore. Per mezzo di questo triplice arbitrato, il 17 marzo del 1576 fu pubblicato un compromesso, il quale stabiliva l'abolizione delle varie categorie di nobili, divisi in due fazioni. Li includeva tutti in un unico ordine e decretava che soltanto essi fossero ammessi al governo con facoltà di aggregare ogni anno nuove famiglie. Furono accontentati un po' tutti.
Intervenne come paciere tra russi e polacchi, che si accapigliavano per l'occupazione di alcune province baltiche, facendo loro firmare una pace di dieci anni; la Russia cedette ai polacchi la Livonia e l'Estonia. Fallirono invece tutti i suoi sforzi, ostinati e molteplici, per la disfatta del protestantesimo e della regina Elisabetta nelle isole Britanniche; a tale scopo finanziò rivolte in Irlanda e si adoperò per una Lega tra Filippo II di Spagna e i Guisa. Sotto il suo pontificato si ebbe la triste 'notte di san Bartolomeo', il 24 agosto 1572, vale a dire la strage dei capi anticattolici (gli Ugonotti) a motivo dello sposalizio tra Enrico di Navarra, già capo degli Ugonotti, e Margherita di Valois, sorella del re di Francia; ciò fu motivo in Francia di lotta di supremazia tra il cattolicesimo e il protestantesimo. La vittoria cattolica si concluse con il ringraziamento del papa nella chiesa nazionale di san Luigi dei Francesi.
IL CALENDARIO GREGORIANO
Ma papa Gregorio XIII è universalmente ricordato per la riforma apportata al CALENDARIO, riforma invocata dal Concilio di Trento e che ben si situa nella serie di interventi atti a ristabilire l'unità cristiana in Europa, ormai frantumata. È una riforma che per la sua importanza merita di essere trattata approfonditamente.

Nel 46 a.C. Giulio Cesare, su consiglio dell'astronomo alessandrino Sosigene, decise di promulgare una riforma e di adottare un calendario solare, noto come Calendario Giuliano, della durata di 365 giorni, fissando l'equinozio di primavera al 25 marzo; egli introdusse un anno bisestile di 366 giorni, ogni quattro anni. L'anno bisestile deve il suo nome al fatto che il giorno che veniva aggiunto era inserito dopo il 23 febbraio; questo giorno venne definito "bis sextus dies antes calendas martias"(sesto giorno prima delle calende di marzo), divenendo così il "bisesto". La necessità di questo aumento derivava dagli stessi studi di Sosigene secondo il quale il Sole percorreva un giro completo intorno alla Terra in 365,25 giorni. Per compensare lo scarto di 0,25 giorni per anno se ne sarebbero aspettati quattro per avere un giorno intero da aggiungere al calendario.
Ma l'anno dura 365,2422 giorni. Pertanto il calendario giuliano introduce un errore di 0,0078 giorni all'anno, cioè un po' più di 11 minuti. Questa cifra, apparentemente insignificante, col passare dei secoli si ingigantisce, perché ogni 128 anni il calendario rimaneva indietro di un giorno rispetto al sole, creando disagio per il computo pasquale fissato in base alla domenica dopo l'equinozio di primavera.
Quando nel 325 d.C. venne convocato il Concilio di Nicea, l'equinozio di primavera si verificava 3 giorni prima della data stabilita dal calendario di Giulio Cesare: quindi i padri conciliari stabilirono che l'equinozio dovesse essere fissato al 21 marzo, data che è rimasta in vigore fino ad oggi.

Nonostante l'aggiustamento della data equinoziale, la lunghezza dell'anno non venne migliorata dai padri conciliari che si attennero al valore di 365.25 giorni. Ben presto, si rilevònuovamente una discordanza tra le date del calendario e i principali fenomeni astronomici, che andava progressivamente aumentando col passare dei secoli. Vari tentativi di correzione dal Medioevo fino al 1582, ma senza alcun successo, furono avviati da astronomi e studiosi di fama come John of Hollywood (il Sacrobosco), Robert Grossetete, Roger Bacon e più tardi Pietro d'Ailly, Nicolò Cusano e Giovanni Muller detto il Regiomontano.
Poiché l'antico calendario giuliano era ormai in ritardo di 10 giorni sul corso solare, Gregorio istituì, nel 1577, una commissione speciale atta a studiare una soluzione al problema, dove vi lavorò alacremente il gesuita tedesco l'astronomo Christopher CLAVIUS, il quale utilizzò il metodo indicato dal medico astronomo calabrese (di Cirò) Luigi LILIO. Quest'ultimo presentò un progetto in un libretto di dieci pagine, pubblicato nel 1577. Purtroppo morì prima della composizione della commissione e il suo progetto fu portato a Roma e presentato al papa dal fratello Antonio. Nello stesso anno, accolto il progetto del Lilio, il pontefice inviò copia della riforma a tutti i principi, alle repubbliche e alle accademie, per avere un comune consenso: risposero in molti. Per l'ideatore della riforma era prevista una ricompensa: fu accordato al Lilio (quindi al fretello Antonio) il diritto di pubblicare in esclusiva il nuovo calendario per dieci anni. Venne però revocato quando si comprese che Antonio era del tutto incapace di far fronte alle richieste: il ritardo nelle consegne per poco non fece fallire la riforma. Gli storici hanno premiato lo sforzo del Clavius, dedicandogli un grande cratere sulla Luna, mentre il Lilio fu dimenticato.

La riforma venne attuata nel seguente modo: per far tornare i conti, con la Bolla 'Inter gravissimas' del 24 febbraio 1582, papa Gregorio XIII decretò che il giorno successivo al giovedì 4 ottobre 1582 fosse il venerdì 15 ottobre; inoltre, per mantenere la concordanza tra anno tropico e civile, fu stabilito di sopprimere tre anni bisestili ogni quattro secoli, mantenendo bisestili solo gli anni secolari che risultano divisibili per 400. Quindi furono non bisestili il 1700, il 1800, il 1900, mentre il 1600 fu bisestile. E dato che nemmeno questo computo è del tutto esatto, ogni 4000 anni si omette un anno bisestile. I principi e le spiegazioni della riforma furono indicati nell'opera del Clavius pubblicata a Roma nel 1603 dal titolo 'Romani Calendari a Gregorio XIII Restituti Explicatio' (Spiegazione del calendario romano rinnovato da Gregorio XIII).

Ma perchè proprio dal 4 al 15 ottobre? Fu scelto questo mese (è lo stesso Clavius che lo spiega) perchè in esso ci sono meno feste religiose e meno problemi per il mondo degli affari. E venne attuata dopo il 4 ottobre in modo che i frati francescani potessero celebrare in quell'anno la festa di san Francesco, ma anche perchè papa Gregorio, essendo bolognese, non volle privare la sua città della festa di san Petronio, sempre ricorrente al 4 ottobre.
Il computo gregoriano del tempo fu immedietamente accolto dalle nazioni cattoliche (oltre ovviamente lo Stato della Chiesa), quali l'Italia, la Spagna, il Portogallo, i Paesi Bassi spagnoli, la Danimarca, la Norvegia; successivamente, molto gradatamente, dal resto dell'Europa, almeno per usi civili e politici. Per la sua accoglienza universale di dovette aspettare la fine della prima Guerra mondiale; tale diffidenza era soltanto accademica, ma anche religiosa. Gregorio XIII era un vigoroso sostenitore della Riforma cattolica e i popoli di diverso credo religioso, rifiutarono il nuovo calendario ritenendolo come un piano del pontefice per riportare i cristiani ribelli sotto la giurisdizione di Roma.

La riforma scatenò una serie di vivaci polemiche tra gli scienziati dell'epoca; infatti molti non erano convinti della bontà del nuovo sistema. Alcuni dei principali scienziati del '500, tra cui il matematico francese Francois Viete, il professore di Keplero a Tubinga Michael Maestlin e Giuseppe Giusto Scaligero divennero acerrimi nemici di Clavius. Brahe e Keplero erano favorevoli (la consideravano corretta e la migliore in circolazione). Secondo loro, per il calendario, non occorreva una precisione eccessiva: la Pasqua era una festa e non un pianeta! Lo stesso Galileo considerava Clavius 'degno di fama immortale'.

Naturalmente ci furono numerose lamentele perché i calendari di quell'anno erano già stati stampati e dovevano quindi essere corretti o rifatti; oltre a problemi di importanza decisamente inferiore quali: le servitù e le opere dei lavoratori agricoli volevano essere pagate anche per i dieci giorni tolti dal calendario e molti debitori non volevano soddisfare gli impegni scadenti nei giorni soppressi.
Poiché il calendario gregoriano prevede mesi di durata variabile, da un anno all'altro varia il giorno della settimana corrispondente a una data fissata, nonché il giorno corrispondente alla Pasqua o all'inizio dell'anno. Per eliminare questo inconveniente sono stati proposti calendari più pratici, ad esempio un calendario composto da 13 mesi uguali o un calendario universale diviso in quattro trimestri identici. Tuttavia, nessuno di essi è stato tuttora adottato.

Oltre al calendario cristiano, ci sono circa altri 40 calendari in uso in tutto il mondo. Nel calendario bizantino l'anno 2000, ad esempio, corrisponde al 7508, nel cinese al 4636, nell'indiano (Saka) al 1921, nell'islamico al 1420 dall'anno dell'Hegira, mentre in quello ebraico al 5760.
Già ammalato da qualche tempo, il 10 aprile 1585, ricevendo un'ambasceria di principi giapponesi accompagnati dai gesuiti, la morte raggiunse papa Gregorio; aveva 84 anni.
suo successore SISTO V....


SISTO V - Felice Peretti (1520-1590)
(Pontificato 1585-1590)
FELICE PERETTI nacque a Grottammare (AP) il 13 dicembre 1520; 1521 secondo alcune fonti. Il padre Francesco era originario della vicina Montalto Marche, la mamma, Mariana, proveniva da Frontillo di Sopra di Pieve Bovigliana (circoscrizione di Camerino) e si trovava a Grottammare, serva nella casa del possidente Ludovico De Vecchis; i due si erano rifugiati presso il minuscolo centro adriatico per scampare alle angherie del Duca d'Urbino.

La sua è una famiglia contadina poverissima ma, grazie all'interessamento di uno zio, entra a dodici anni nel convento francescano dei frati Conventuali di Montalto. La sua formazione avvenne nei collegi dell'Ordine, a Fermo, a Ferrara e a Bologna. Nel settembre del 1544 conseguì, a Rimini, il Baccelierato in Teologia e quattro anni dopo, a Fermo, il Dottorato. Nel 1547 fu ordinato sacerdote a Siena. Nel 1552 ottenne la protezione del grande inquisitore Antonio Michele Ghislieri, futuro Pio V, che lo guadagnò al 'partito rigorista' e potè così frequentare con assiduità Paolo IV e lo stesso Pio V. Le sue capacità, specialmente come predicatore, gli consentirono di mettersi in luce, nonostante una certa durezza di carattere che gli procurò non poche inimicizie; gli invidiosi suoi confratelli presero a chiamarlo 'il porcaro', per ricordare le sue umili origini. A lui venne affidata anche la riforma di numerosi conventi dell'Ordine. Lettore di teologia a Roma, nel settembre del 1561 fu nominato Procuratore generale dell'Ordine e, dal 1566, per due anni, fu Vicario Generale dell'Ordine.

Come teologo partecipò alle discussioni della Congregazione per il Concilio di Trento. Nel 1557 fu nominato Inquisitore Apostolico a Venezia, nel 1560 ebbe l'incarico di teologo e consultore del Sant'Uffizio a Roma; nel 1565 lo troviamo in Spagna, inviato come teologo dell'Inquisizione per un processo contro l'arcivescovo di Toledo. Fu lo stesso Pio V che lo creò vescovo di sant'Agata de' Goti nel 1566 e di Fermo nel 1571. Nel maggio 1570 era stato nominato cardinale con il titolo di san Gerolamo degli Schiavoni.

Alla morte di Gregorio XIII avvenuta il 12 aprile 1585, durante il cui pontificato si era tenuto in disparte, il conclave era diviso in molteplici partiti, e il cardinal Peretti, pur non facendo parte delle fazioni dominanti, il 24 aprile 1585, ascese al soglio pontificio, raccogliendo, i voti di molte controparti. Scelse di chiamarsi SISTO V in omaggio al francescano Sisto IV, pontefice dal 1471 al 1484.

Con Sisto V la Sede Apostolica raggiunse un vertice di autorità all'interno e di prestigio nella politica estera, quale da lungo tempo non s'era più visto; fin dall'inizio del suo pontificato egli mostrò una non comune capacità di governo e un'incredibile resistenza al lavoro, compiendo in cinque anni un lavoro che ne avrebbe richiesto cinquanta; anche per questo uno degli azzeccati suoi soprannomi, ampiamente meritato, fu 'il Turbine Consacrato'.

Il compito principale per il nuovo pontefice fu la riforma della Chiesa, riorganizzarne il governo, applicare con rigore i decreti tridentini, apportando un rinnovato clima di moralità. Con la costituzione 'Postquam vetus ille' del dicembre 1586 il numero dei cardinali, prima oscillante, venne portato a settanta: sei vescovi suburbicari, cinquanta preti, quattordici diaconi; la maggiore internazionalizzazione del Collegio Cardinalizio venne parzialmente avviata. Con la bolla 'Immensa aeterni Dei' del 1588, fondò quindici nuove Congregazioni cardinalizie permanenti, in parte di nuova erezione e in parte solo confermate o riassettate, per la conduzione e l'amministrazione degli affari secolari e spirituali, dando alla struttura gerarchica della Chiesa quell'assetto che in parte conserva ancora oggi; avviò l'Ufficio di Segreteria (la Camera secreta), con competenze in politica interna ed esterna (ne era titolare il giovane cardinale-nepote di Montalto, ma alle dirette dipendenze del papa), e la Dataria. Con la 'Romanum Pontifex' del 1585, ripristinò con vigore la Visitatio liminum dei vescovi, organizzata metodicamente e congiunta ad un periodico rendiconto a Roma sul governo della diocesi.

Si dedicò anche alle riforme economiche e finanziarie, instaurando una politica accorta nelle spese e oculata negli investimenti, ristabilendo le cassa statali, non disdegnando di adottare rigide misure, incrudendo gabelle con la vendita degli Uffici e con vantaggiosi e sicuri prestiti pubblici, grazie al sistema dei Monti di Pietà (capitalizzati per 8.000.000 di scudi); non mancò di imporre svariate tasse. Si interessò anche del commercio, con la promulgazione di alcune leggi: ad esempio, venne stabilito un nuovo sistema di misure per la vendita al dettaglio del vino, uno dei settori economici più importanti di Roma; si impegnò per la crescita di settori come quelli della lana e della seta. Alla sua morte aveva tesaurizzato Castel sant'Angelo per circa 4.000.000 di scudi, grazie anche all'afflusso di danaro genovese, che determinò un rilevante aumento dei prezzi, sollecitato pure dall'incremento demografico. Si accentrarono così nelle mani del papa tutte le forze finanziarie dello Stato, che diventavano per la prima volta organo esclusivo del potere religioso; il risultato complessivo fu una floridezza economica che la Chiesa mai aveva conosciuto fino a quel momento.
In poco meno di due anni riuscì, con pugno di ferro, ricorrendo spesso alla pena capitale, a riportare la sicurezza a Roma, in preda al banditismo più selvaggio; appositamente fece coniare una moneta con il motto 'Perfecta securitas'. Abbassò la minorità delinquenziale al quattordicesimo anno e dichiarò responsabili le Comunità degli atti di brigantaggio prodotti dai propri membri. Era spietato anche con chi favoriva i briganti, come il conte Giovanni Pepoli a Bologna; si oppose persino a Francesco I de' Medici, che dovette consegnargli il capobandito Lamberto Malatesta. Fece eseguire sentenze penali sospese da anni. Addirittura nacquero variopinte leggende, tra le quali, forse non prima di fondamento di verità, quella che narrava che il papa stesso, travestito da eremita si infiltrasse nel Colosseo, da sempre luogo di rifugio dei briganti, per scoprirne gli accampamentni.

Tra i briganti più famosi che imperversarono nelle campagne ricordiamo: Sacripante, Bastinella, Marco Sciarra, che nel 1590, alla testa di 1500 uomini, dei quali 600 a cavallo, invase l'Abruzzo e il Lazio. Per sconfiggerlo occorse un'alleanza tra napoletani, toscani e le forze pontificie. Emise severi provvedimenti anche per i mendici. Fu ugualmente inesorabile con Paolo Giordano Orsini, che aveva ucciso suo nipote Francesco Peretti, sposandone la vedova Vittoria Accoramboni; lo costrinse a fuggire da Roma e probabilmente non fu estraneo alla tragica dei morte dei due. Anche per questo, i romani ebbero a chiamarlo 'er papa tosto'.

Sisto V fu anche il papa che 'riscrisse' la Bibbia. La versione latina della Scrittura, la Vulgata, era opera di san Gerolamo nel IV secolo ed aveva avuto un posto significativo nel corso del Medioevo. Il Concilio di Trento aveva stabilito che la Vulgata era la versione autentica della Bibbia ed essa sola doveva essere usata nei sermoni, discussioni o letture. Purtroppo il lavoro di riporto dei copisti aveva prodotto molti errori e la stampa moltiplicò il numero degli sbagli. Con la Riforma i protestanti produssero la loro personale versione e diventava imperativo che anche i cattolici potessero fruire di un testo affidabile in tutte le discussioni.

Nel 1588 venne presentato a Sisto il testo finale predisposto dalla commissione di studiosi a cui aveva dato l'incarico. Secondo il pontefice c'era troppo lavoro di ricerca, troppe variabili interpretative. Il papa cacciò via dalla stanza il presidente della commissione, il cardinal Carafa, urlando che avrebbe provveduto lui personalmente. In una Bolla di 300 parole dichiarò che lui, il papa, era l'unico soggetto in grado di produrre una 'autentica Bibbia' per la Chiesa. E lo fece. Lavorando giorno e notte (soffriva d'insonnia), operando su di un testo popolare e provvedendo ad aggiunte personali dove gli sembrava fosse opportuno, completò l'opera in circa diciotto mesi. Cambiò radicalmente il sistema di riferimenti. Cambiò i capitoli, che erano stati strutturati abilmente da Roberto Stefano nel 1555 ed erano universalmente adottati. Dimenticò addirittura interi versi e cambiò i titoli dei Salmi. Tutte le vecchie Bibbie e tutti i testi scolastici divennero di colpo obsoleti.

Nel 1590 gli furono presentate le prime copie 'in folio'. «Splendido!» disse il papa, finché non si accorse delle centinaia di errori di stampa. Per non perdere tempo provvide personalmente alla correzione delle bozze (ci mise sei mesi) passandole poi alla stampa, mentre la sua Bolla "Aeternus ille", pubblicata il 1° marzo 1590, era già pronta da tempo e recitava autoritativamente: "Nella pienezza del potere Apostolico, Noi dichiariamo e decretiamo che questa edizione [...] approvata per l'autorità conferitaCi da Dio, deve essere ricevuta e tenuta come vera, legittima, autentica, ed inquestionabile in tutte le discussioni, letture, preghiere, spiegazioni pubbliche e private".

A nessuno era permesso, editore o libraio, di deviare di una virgola da questa finale ed autentica versione della Bibbia latina. Chiunque contravvenisse alla Bolla papale doveva ritenersi automaticamente scomunicato e solo il papa poteva assolverlo. Erano previste anche punizioni materiali e temporali. Verso la metà di aprile furono distribuite copie a cardinali e ambasciatori. Alla morte del papa, soggiunta poco dopo, l'edizione fu immediatamente ritirata: conoscerà la versione definitiva solo con Clemente VIII.

L'assolutismo di Sisto lo portò a scontrarsi anche con i suoi collaboratori più stretti, tra cui Roberto Bellarmino che si vide censurato il primo volume delle "Disputationes de controversiis", ove aveva affermato che il pontefice possiede solo una giurisdizione indiretta sui reggenti del mondo temporale. Il papa rispose che egli poteva, per qualsiasi motivo e comunque gli piacesse, nominare o licenziare chiunque, compresi gli imperatori. Censurò anche il teologo Vittorio per aver osato dire che era giusto disobbedire ad ingiusti ordini di un papa. Lui, Sisto V, mise all'Indice entrambi i libri di questi due 'rinnegati'. I cardinali della Congregazione dell'Indice erano terrificati dal dover dire a sua Santità che entrambi gli autori citati (Bellarmino e Vittorio) basavano i loro scritti su innumerevoli documenti dottrinali di santi e studiosi cattolici. Il Conte Olivares, ambasciatore spagnolo a Roma, scrisse al re Filippo II che i cardinali tenevano la bocca chiusa "per paura che Sisto potesse fargli sentire il duro sapore del suo temperamento e, forse, costringerli a mettere all'Indice persino i santi stessi". Sisto si comportò molto male soprattutto con il gesuita Bellarmino, che aveva cooperato con lui nell'edizione dell'opera completa di Sant'Ambrogio, nel corso della quale il papa aveva ogni volta stravolto il giudizio del suo collaboratore.

Nella sua vasta opera di riordino, combattè anche l'accumulazione dei benefici e delle cariche ecclesiastiche, e le ingerenze delle famiglie aristocratiche. Ma non fece a meno di favorire numerosi parenti, tra cui il (già citato) cardinale-nepote di Montalto Alessandro Peretti, e discendenti. Questi ultimi vennero dotati di ricchi feudi nelle Marche, luogo di origine, nel ferrarese ed anche in polesine: Bagnolo, Castelguglielmo, Canda, Ceneselli, Villafora, Salvaterra, Crocetta, Spizine, Cavalon e Campagnon.

Durante il suo pontificato Sisto si occupò anche di un argomento attualissimo: l'aborto. Se i suoi predecessori avevano mitigato le pene per le donne che interrompevano la gravidanza entro i quaranta giorni dal concepimento, egli stabilì, con la Bolla "Effrenatum" del 1588, che l'aborto era da considerarsi, sempre ed in ogni caso, omicidio e poteva anche essere punito con l'eventuale scomunica papale. I suoi successori adottarono misure meno drastiche. Solo Pio IX, prendendo a modello papa Sisto, inasprì le posizioni.
Sisto V promosse l'attività missionaria in Giappone, in Cina, nelle Filippine e in America latina; si adoperò per la difesa dei missionari, con particolare riferimento ai Gesuiti in Oriente e ai Domenicani e Francescani del Sud America; egli stesso varò riforme aumentando gli aiuti. Sotto il suo regno, inoltre, iniziarono trattative unioniste con i Copti.
Tra i suoi interventi a favore del culto, da ricordare, troviamo l'istituzione della festa della Presentazione della Beata Vergine Maria.
Si interessò personalmente alla controversia baiana sulla grazia e l'ispirazione. Infatti nel 1588si astenne dal giudizio definitivo e vietò ai discepoli di Baio e a coloro che vi si opponevano (specialmente il professore gesuita Lessio di Lovanio che aveva mandato personalmente al pontefice un'apologia delle sue tesi) di censurarsi vicendevolmente.

Nel 1589 autorizzò la presenza di eunuchi nei cori, ma si pronunciò duramente contro coloro che perpetravano questa pratica, ormai divenuta dilagante ed incontenibile.
Con la "Christiana pietas" del 1586 sollevò gli ebrei da molte oppressive restrizioni economiche e sociali imposte loro da Paolo IV e Pio V. Gli Ebrei godranno di ciò per pochi anni, perché nel 1593 Clemente VIII ripristinerà molte leggi precedenti che resteranno in vigore fino al XIX secolo.
Come nella politica interna, allo stesso modo in quella estera, sostenne l'autorità della Chiesa promuovendo un'intelligente politica di equilibrio tra le potenze cattoliche, che allo stesso tempo arrestasse anche la marcia della Riforma protestante, attenendosi in linea di principio, come i suoi predecessori, al sistema medioevale della ierocrazia papale.

Dal 1585 assistette alla cosiddetta Guerra dei tre Enrico (VIII Guerra ugonotta). Il re di Francia Enrico III non aveva figli e, nel 1584, aveva perso suo fratello più giovane: l'intera Europa si chiedeva chi sarebbe stato il futuro re, visto che l'erede più prossimo al trono era il cugino, l'ugonotto Enrico di Navarra. Il cattolico duca Enrico di Guisa aveva dato vita ad una Lega Cattolica, a cui aveva aderito anche il re spagnolo Filippo II, che aveva lo scopo di difendere gli interessi dei cattolici ed escludere i Navarra dalla successione. La Lega nel 1585 aveva costretto il sovrano a firmare il Trattato di Nemours, a favore del Guisa, con il quale si revocavano molte concessioni nei confronti degli ugonotti e a proibire il culto protestante addirittura sotto pena di morte. Inoltre la Lega e la Spagna chiesero al papa di scomunicare l'erede ugonotto, cosa che il papa fece con una bolla del 9 settembre 1585, dichiarandolo eretico recidivo e quindi privato del diritto di successione.

A misure ulteriori contro Enrico e i suoi seguaci, Sisto non si lasciò trascinare successivamente, neppure a seguito di violente pressioni spagnole sui di lui, in questo senso; Filippo infatti, come già una volta gli imperatori svevi, dominava sull'Italia del nord (Milano) e del sud (Napoli e Sicilia) e cercava di asservirsi il papato. In questo Sisto mostrò particolare intuito: Filippo si rivoltò contro i suoi stessi alleati: fece assassinare il duca di Guisa e, tramite un fanatico della Lega, il domenicano Jacques Clément, lo stesso Enrico III. Sisto lo citò, sotto pena di scomunica, davanti al suo tribunale. Ora la corona francese, secondo il diritto ereditario, spettava legittimamente ad Enrico di Navarra.
Ma, su suggerimento spagnolo, in favore dell'opposizione cattolica ad Elisabetta I, promise il finanziamento della spedizione dell''Invencible Armada', proprio nel momento in cui l'Inghilterra conquistava con le nuove flotte navali mezzo mondo e ridimensionava la potenza marinara della Spagna.

Conservò buoni rapporti con Venezia, rinunciando ad ogni rivendicazione giurisdizionale e mitigando le clausole più urtanti della Bolla "In coena Domini"; sulla Serenissima Sisto contava soprattuto per eliminare dal mediterraneo la potenza ottomana.
Ed inoltre non è possibile dimenticare il Sisto V sistematore urbanistico di Roma e grande commisionatore di opere di pubblica utilità e monumenti artistici, per i quali investì enormi somme di denaro. La sua opera di promotore di benessere dell'Urbe portò ad innovazioni veramente magnifiche, aprendo strade lunghe e diritte, pensate per mettere in comunicazione anche visiva luoghi significativi della città, attraverso i fatiscenti quartieri medievali, che ricoprivano gran parte della superficie urbana, radendo al suolo tutto ciò che era d'intralcio ai suoi progetti.
Tra questi senz'altro emerge la sistemazione e il completamento, in soli diciotto mesi, della magnifica cupola della basilica di san Pietro, ultimata nel 1590, per la quale Sisto costrinse squadre di uomini a lavorare giorno e notte.

Sempre a Roma, meno appariscenti ma ugualmente molto significativi furono il restauro di un ponte sul Tevere, che oggi porta il suo nome, e la fondazione di un ospedale; presso san Giovanni fece piazza pulita per erigere i Palazzi Lateranensi, che riprendono lo schema sangallesco di Palazzo Farnese.
L'architetto che meglio attuò il pensiero di Sisto e che realizzò la maggior parte dei suoi intenti artistico-urbanistici fu DOMENICO FONTANA (1543-1607), abile tecnico e grande propagandista del proprio lavoro, capace di realizzare i singoli edifici concependoli per una veduta da lontano che non permette di apprezzare il dettaglio architettonico; ne è esempio il (già citato) Palazzo Laterano.

Nel 1587 Sisto V incaricò il Fontana della costruzione delle fondamenta di una nuova e più ampia sede per la Biblioteca Vaticana. L'edificio, che ospita tuttora la Biblioteca, sorse sulle scale divisorie tra il Cortile del Belvedere e quello attualmente chiamato 'della Pigna'; nel piano più alto si trova la grande aula a due navate, lunga 70 metri e larga 15 che fu destinata a contenere le raccolte; il papa emanò specifiche norme per l'uso e la conservazione delle raccolte. Il salone Sistino, il più vasto e nobile della Biblioteca Vaticana, prende addirittura il suo nome, poichè egli lo edificò ed ornò, cent'anni dopo la fondazione della Biblioteca ad opera di Sisto IV. Le pitture di scuola tardo-cinquecentesca sono un documento prezioso per la cronaca del suo pontificato.

Nel 1587 Sisto acquistò dai Carafa la villa di Monte Cavallo per farne la sede estiva papale. La piccola villa costruita dal Mascarino non era però sufficiente ad accogliere la corte pontificia e a soddisfarne le esigenze di rappresentanza, per questo Sisto affidò al Fontana l'incarico di ampliare l'edificio costruendo una lunga ala verso la piazza e un secondo palazzo su via del Quirinale, così da formare un ampio cortile interno. Sisto si preoccupò inoltre di far sistemare la piazza, provvedendo anche al restauro del gruppo scultoreo dei "Dioscuri" che fu completato con l'aggiunta di una fontana: nasce il Palazzo del Quirinale, poi portato a termine dai pontefici successivi.

Sisto V fu anche artefice dell'Acquedotto che porta il suo nome, dell'Acqua Felice, che giungeva oltre tredici secoli dopo quello dell'imperatore Alessandro Severo realizzato nel 222-226 d.C. e le cui sorgenti si trovavano in località Pantano Borghese, presso Colonna, sulla via Prenestina. L'acquedotto Felice aveva lo scopo di rifornire d'acqua i rioni alti della città, ma anche la magnifica e vastissima Villa Montalto, sul colle Esquilino, da lui acquistata ancora cardinale; un possedimento così vasto che comprendeva il sito dell'odierna stazione ferroviaria di Termini. Il percorso del nuovo acquedotto sarebbe passato proprio accanto alla villa del papa, facendone considerevolmente aumentare il valore, anche perché avrebbe consentito la costruzione di nuove fontane nei suoi giardini. Ciò spiega per quale ragione Sisto ebbe tanta fretta di portare l'acqua a Roma, nel più breve tempo possibile: i lavori presero il via solo pochi giorni dopo la sua elezione. Ma nonostante il nome così beneaugurante, l'opera non nacque sotto i migliori auspici. Come prima cosa, forse a causa di una progettazione troppo precipitosa, l'architetto incaricato, Matteo Bartolani, (anche noto come Matteo di Castello, perchè nativo della cittadina umbra), pur aiutato da una commissione di esperti, non riuscì ad evitare un errore nel calcolo dell'altezza dei nuovi viadotti che avrebbero dovuto integrare le antiche rovine: così l'acqua, che inizialmente scorreva dalle sorgenti originali verso Roma, a un certo punto cominciò a refluire all'indietro. Il papa, furioso per aver perso tempo e denaro, nominò un diverso architetto, Giovanni Fontana, il quale riuscì a trovare altre sorgenti vicine alle precedenti, ma ad un'altezza leggermente superiore, quanto bastava per permettere all'acqua di raggiungere la città. La traiettoria dell'Acqua Felice era praticamente la stessa dell'Aqua Marcia e dell'Aqua Claudia, dalle cui rovine fu prelevata una gran quantità di materiali da costruzione. Dopo i lavori di Sisto V non rimase nulla dell'Aqua Marcia, mentre le parti ancora stabili dell'Aqua Claudia vennero anche usate come supporto per il nuovo dotto: in alcuni punti l'Acqua Felice venne edificata a ridosso della struttura romana antica, chiaramente distinguibile perché più alta di quella tardo-rinascimentale. L'impresa si concluse in due anni e il nuovo acquedotto potè essere inaugurato il 15 giugno 1587.

Nello stesso anno Sisto fece realizzare un'importante fontana, tutta in travertino, ad opera di Domenico e Giovanni Fontana, presso le rovine dellle Terme di Diocleziano. Sotto una grande iscrizione che ricorda la costruzione dell'acquedotto da parte del papa, tre alte nicchie sono divise da colonne; quella centrale è occupata dalla possente figura di Mosè, opera di Leonardo Sormani e Prospero Antichi. Una volta posta in sito, però, la statua si rivelò alquanto tozza e sproporzionata; il popolo romano, abituato ad opere d'arte assai migliori di questa, fu fortemente critico nei suoi confronti, deridendola col nome di 'Mosè ridicolo'.

Alle pesanti critiche, si aggiunse anche Pasquino con una delle sue pasquinate: "Guarda con occhio torvo l'acqua che sgorga ai pie' pensando inorridito al danno che a lui fe' uno scultor stordito". Il rilievo della nicchia sinistra raffigura Aronne che guida il popolo ebreo a dissetarsi, opera di Giovan Battista Della Porta; nella nicchia di destra vi è il rilievo di Giosuè che fa attraversare agli ebrei il Giordano asciutto, opera di Flaminio Vacca e Pietro Paolo Olivieri, autori anche del fregio con lo stemma di Sisto V fra due angeli.
Dei molti obelischi che sono presenti nella capitale alcuni furono innalzati durante il pontificato di papa Peretti. Tolti dall'oblio dei secoli, dopo che erano stati abbattuti dalla furia e dall'ignoranza dei barbari prima e dei cristiani poi, questo pontefice, sfruttò quel misto di devozione e superstizione di cui è intessuta la religione cattolica di questo periodo.

L'obelisco in piazza san Pietro proviene da Eliopoli e fu portato a Roma da Caligola; è posato sul dorso di quattro leoni di bronzo tra due grandiose fontane. L'obelisco in Laterano (il più alto, 31 m., e il più antico), fu portato da Tebe a Roma, con una nave appositamente costruita da Costante II che lo volle come decorazione del Circo Massimo nel 357 d.C. Anche l'obelisco Flaminio decorava il Circo Massimo, ma proviene da Eliopoli dove sorgeva davanti al tempio del Sole: è il secondo più antico di Roma. L'obelisco di piazza dell'Esquilino invece fu costruito a Roma ed originariamente posto fuori al Mausoleo di Augusto, in seguito restaurato e sito di fronte la basilica di santa Maria Maggiore.

Eppure questo papa 'tosto', così duro con gli uomini fu molto tenero con il suo paese d'adozione, Montalto Marche: vi fondò un Ginnasio, assegnò una dote alle zitelle povere, donò a questo paese un reliquiario che era appartenuto a Paolo II. Nel 1586 la onorò rivestendola del titolo di 'città', la rese diocesi e capoluogo dell'omonimo residiato. Ma non fu altrettanto generoso con il borgo che lo aveva visto nascere: alle Grotte si limitò ad offrire mille scudi e due posti nel collegio Montalto di Bologna. Iniziò la costruzione della chiesa di santa Lucia che fu completata dopo la sua morte per volere della sorella Camilla, con l'aiuto economico di mille scudi offerti da Clemente VIII.
Messo alla prova duramente dagli impegni del suo pontificato, Sisto V venne piegato però soltanto dalla malaria: incurante delle prescrizioni dei medici, vuole curarsi con il vino, secondo l'uso popolare, ma morì stremato dalla febbre il 27 agosto 1590, nel palazzo del Quirinale. I romani, alla notizia della sua morte, accolta quasi come una liberazione, tentarono di distruggere la sua statua eretta in Campidoglio: per tale ragione fu poi emanata una legge che proibiva di dedicare statue ai papi viventi.

Il suo cuore fu portato nella chiesa dei santi Vincenzo ed Anastasio, sotto il Quirinale; la salma in san Pietro, da cui fu traslata, l'anno seguente, per volontà del cardinale Peretti, in santa Maria Maggiore, presso la cappella del Santissimo Sacramento, dove si trova ancora oggi.

Ci piace concludere con una delle leggende, narrate sulla figura di questo insolito pontefice, che hanno ispirato i Sonetti del poeta Gioacchino Belli. Questo è forse uno dei racconti più celebri, a proposito del suo scetticismo verso i miracoli.
Un giorno a Roma si sparse la notizia che in un fondo, appena fuori città un'immagine lignea di Cristo aveva preso a trasudare sangue. Il luogo divenne presto meta di folle di persone, e di ciò il proprietario del terreno ne ricavava un ottimo introito. La notizia giunse alle orecchie del papa, così anch'egli si recò a prenderne visione. Dopo che l'immagine prodigiosa gli fu mostrata, Sisto V si fece portare un'ascia, e profferendo le parole "come Cristo ti adoro; come legno ti spacco", mollò un violento fendente sulla statua, mandandola in pezzi. All'interno vi si trovò una spugna imbevuta di sangue animale, e una corda che, tirata, strizzava la spugna, e quindi faceva sanguinare la statua. Il proprietario del fondo fu portato a Roma, e giustiziato. Da questa storiella nacque il detto più famoso: 'papa Sisto non la perdonò neppure a Cristo!'.
suo successore fu URBANO VII......


URBANO VII - Gian Battista Castagna (1521-1590)
(Pontificato 1590)

GIAN BATTISTA CASTAGNA nacque a Roma il 4 agosto 1521, da famiglia genovese. Dottore in giurisprudenza, fu Referendario della Signatura di Giustizia. Nel 1533 fu nominato arcivescovo di Rossano; Governatore di Perugia nel 1559, Legato di Pio IV al Concilio di Trento (1561-63), Nunzio Apostolico in Spagna nel 1564, a Venezia nel 1573, Legato al Congresso di Colonia nel 1578, Consultore dell'Inquisizione e della Congregazione per gli Affari dello Stato Pontificio nel 1580.

Gregorio XIII lo creò cardinale nel 1583. Fu tra i più competenti ed ascoltati collaboratori di Sisto V; perciò alla sua morte, il nome per il successore non fu di difficile scelta; il cardinale Castagna fu eletto il 15 settembre 1590 assumendo il nome di URBANO VII.

Appena eletto, il nuovo pontefice si presentò come fedele esecutore dei decreti tridentini, proponendosi di continuare la politica restauratrice del suo predecessore.
Ma la morte troncò i suoi propositi il 27 settembre 1590, solamente dopo 12 giorni di pontificato. Le sue spoglie riposano nella chiesa di santa Maria sopra Minerva.
Se non consideriamo il pontificato di Stefano II (che morì 3 giorni dopo l'elezione, senza ricevere l'incoronazione), il papato di Urbano VII è, al momento, il più breve della storia.
gli successo sul soglio GREGORIO XIV ......



GREGORIO XIV - Niccolò Sfrondati (1535-1591)
(Pontificato 1590-1591)
NICCOLÒ SFRONDATI nacque da Francesco, senatore di Francesco Sforza, e Anna Visconti, dalla nobile casata viscontea l'11 febbraio 1535 a Somma Lombardo (oggi provincia di Varese). Il castello atavico resta ancora oggi un sito storico particolarmente affascinante. Dopo gli studi giuridici a Perugia e Padova e la laurea a Pavia abbracciò la vita ecclesiastica; entrò in amicizia con san Carlo Borromeo che ebbe su di lui una grande influenza. Nel 1560 fu nominato vescovo di Cremona, incarico che mantenne fino al 1590. Partecipò al Concilio di Trento dove sostenne l'obbligo di residenza in diocesi per i vescovi, norma che fu accettata solo dopo molti contrasti.

Nel 1583 fu nominato cardinale da Gregorio XIII. Alla morte di Urbano VII, Filippo II di Spagna indicò sette cardinali, tra quelli presenti in conclave, come eleggibili; per opera dei cardinali Montalto e Sforza le varie fazioni si accordarono facendo confluire i voti sul cardinal Sfrondati che il 5 dicembre 1590 fu eletto pontefice assumendo il nome di GREGORIO XIV.

Fedele ma non succube della politica di Filippo II, prese posizione in favore della Lega Cattolica per combattere gli ugonotti, che soccorse con denaro, sperperando i tesori raccolti da Sisto V, e milizie. Scomunicò Enrico IV di Francia e i suoi fautori, ma questa decisione non fu l'ultima causa che favorì il passaggio al cattolicesimo del sovrano.
Confermò, in una famosa Bolla, il diritto d'asilo, estendendolo oltre i limiti del tollerabile dall'autorità politica e suscitando così opposizioni e discussioni: le decisioni giudiziarie dovevano competere al solo foro ecclesiastico; sottratti, così, i terreni consacrati da ogni potestà delle leggi civili, divennero ricettacolo sicuro di chiunque ne temeva la vendetta o ne odiava il freno.

Fu probabilmente durante il conclave che precedette l'elezione di Gregorio XIV che sorsero le tanto citate PROFEZIE sui Papi attribuite a san Malachia, vescovo di Armagh, in Irlanda, morto nel 1143.
Centoundici brevi sentenze latine che apostrofano i pontefici eletti da Celestino II (1143) sino alla fine del mondo, che si chiuderà con Pietro II. Esse furono stampate per la prima volta nella raccolta delle leggende 'Lignum vitae' del benedettino Arnaldo Wion. Moltissimi di questi motti sono azzeccati, ma molti non hanno trovato ancora spiegazione soddisfacente; oggi nessuno storico serio mette più in dubbio che questa compilazione sia un falso.

Avviò la revisione della Vulgata della Scrittura di Sisto V, piena di errori. Il mondo accademico, infatti, era in subbuglio e i protestanti si divertivano tantissimo per l'intera faccenda. Il cardinal Bellarmino, rientrato dall'estero e personalmente sollevato per la morte di Sisto V, che l'aveva allontantato da Roma, suggerì a Gregorio XIV, di non proibire la Bibbia, ma di farla correggere, ove fosse possibile, cercando di recuperare tutte le copie messe in circolazione e sostenendo che tutti gli errori derivavano da sbagli degli stampatori e di altre persone (il riferimento a Sisto è inequivocabile). Un intero gruppo di studiosi si sistemò in un apposito edificio sulle colline Sabine e lavorò indefessamente alla correzione del testo sacro.

Nella terribile carestia che scoppiò a Roma, nel 1590, rimase ammirato dallo zelo e la dedizione con i quali si prodigarono Camillo de Lellis e i suoi discepoli; decise di elevare la Congregazione a Ordine dei ministri degli Infermi, divenendone personale protettore.
Tentò di arginare la pratica della castrazione, in largo uso per ottenere delle voci particolarmente dotate, con una serie di decreti, ma tutto fu inutile e, spesso, vietando loro di cantare in luoghi prestigiosi come quelli pontifici, si finiva per colpire ingiustamente solo loro.
Lottò anche contro la piaga del banditismo. Accordò il suo personale favore al Palestrina; spesso si faceva consigliare da Filippo Neri, di cui era particolrmente ammiratore.
Nel 1591, sentendosi morire, si fece trasportare al Palazzetto Venezia, sperando di riprendersi, grazie anche ad un alto steccato attorno alla residenza che attutiva i rumori circostanti. Ma la ripresa non avvenne: Gregorio XIV si spense il 16 ottobre 1591, dopo neanche un anno di pontificato.
gli successe sul soglio INNOCENZO IX....


INNOCENZO IX - Antonio Facchinetti (1519-1591)
(Pontificato 1591)

Giovanni ANTONIO FACCHINETTI de Nuce, di famiglia veronese, nacque a Bologna il 20 luglio 1519. Si laureò in Giurisprudenza a Bologna nel 1544 e, nello stesso anno, fu ordinato prete. Fu Abate Commendatario e Canonico presso diverse diocesi; dal 1556 al 1558 lo troviamo a Parma in qualità di Governatore della città. Già segretario del cardinale Alessandro Farnese, diventò, dal 1558, Abbreviatore delle Lettere Apostoliche e, dal 1559, Referendario delle Segnature Apostoliche.

Nel 1560 fu nominato vescovo di Nicastro; rinunziò al governo della diocesi per motivi di salute nel 1575. Partecipò ai lavori del Concilio di Trento e alla costituzione della Lega Santa contro i turchi (1571); dal 1566 al 1572 lo troviamo Nunzio Apostolico a Venezia.

Consultore del Santo Uffizio nel 1575, nello stesso anno è nominato Patriarca Titolare di Gerusalemme. Nel 1583 è elevato al cardinalato; nel 1586 è Inquisitore Generale del Santo Uffizio.
Fu il più attivo collaboratore di Gregorio XIV; alla morte di quest'ultimo, avvenuta il 16 ottobre 1591, il cardinale Facchinetti ascese al soglio pontificio, dopo nemmeno due settimane di conclave, il 29 ottobre, grazie al sostegno dei cardinali Legati della Spagna, scegliendo il nome di INNOCENZO IX.
Appena eletto papa, ricambiò il favore alla Spagna mostrandosi favorevole alla sua politica antifrancese, contro Enrico di Navarra. Ma non potè fare moltissimo, perchè gravemente ammalato, trascorse il suo pontificato a letto; per questo fu detto 'pontifex clinicus'.
Suddivise la Segreteria di Stato vaticana in tre sezioni: Francia e Polonia, Italia e Spagna, Germania. Riuscì a curare l'edilizia e la sicurezza di Roma. Scrisse 'De recta gubernandi ratione' sulla Politica di Aristotele e 'Adversus Macchiavellum', una sorta di Antimachiavelli; entrambi opere rimaste inedite.
Si spense il 30 dicembre 1591, dopo soli due mesi di pontificato.
gli successe sul soglio CLEMENTE VIII ....


CLEMENTE VIII - Ippolito Aldobrandini (1536-1605)
(Pontificato 1592-1605)
( due personaggi del suo tempo : BEATRICE CENCI e GIORDANO BRUNO )

IPPOLITO ALDOBRANDINI nasce a Fano (PS) il 24 febbraio 1535 (ma diverse fonti riportano 1536). Studiò a Padova, Perugia e, particolarmente, a Bologna dove si laureò in giurisprudenza. Essendo ottimo giurista ricoprì le cariche di Avvocato concistoriale e Uditore di Rota; venne nominato cardinale nel 1585, l'anno successivo fu inviato come Legato papale in Polonia. L'agitato conclave apertosi alla morte di Innocenzo IX durò circa un mese; il 30 gennaio 1592 ne uscì eletto papa, tra i 52 candidati presenti, grazie ai voti della fazione antispagnola, il cardinal Aldobrandini, che scelse di chiamarsi CLEMENTE VIII.

La riforma cattolica, con il nuovo pontefice, fu energicamente promossa in diversi paesi. Dopo lunga esitazione, nei riguardi della Francia intraprese un'altra politica, diversa da quella dei suoi predecessori immediati e riconobbe, il 25 luglio 1595, come legittimo re di Francia Enrico IV, che due anni prima aveva abbracciato il cattolicesimo, annullando di conseguenza la bolla di Sisto V che lo aveva dichiarato eretico recidivo. Si scongiurò in tal modo il pericolo di un trionfo del protestantesimo in Francia. Con l'editto di Nantes del 30 aprile 1598 veniva infatti riorganizzata in Francia la politica religiosa ponendo al centro il cattolicesimo.

Il pontefice ebbe ancora un notevole successo diplomatico come intermediario tra Spagna e Francia, i cui rispettivi sovrani il 2 maggio del 1598 firmarono a Vervins un trattato di pace, con il quale i confini dei due stati ritornavano ad esser quelli che erano stati stabiliti nel 1559 a Cateau-Cambrésis.

A Clemente VIII fu offerta anche la mediazione di pace tra Enrico IV di Francia e il duca di Savoia Carlo Emanuele. Egli fu lieto dell'incarico ricevuto, ma ben presto comprese tutta la difficoltà del compito assunto e capì anche che non sarebbe riuscito ad accontentare nessuno dei due contendenti perché il francese voleva ad ogni costo riavere il marchesato di Saluzzo e il duca non intendeva cederglielo. Allora, approfittando delle nozze di Enrico IV con Maria de' Medici, mandò in Francia, il cardinale Pietro Aldobrandini, suo nipote, per benedire gli sposi ed iniziare i negoziati di pace. L'opera del legato pontificio non fu facile; questo dovette lottare contro le difficoltà opposte da tutti coloro che avevano interesse a non far concludere l'accordo e specialmente contro l'ostinazione di Carlo Emanuele, che non voleva a nessun costo cedere il marchesato di Saluzzo e voleva uscire con nessuna o poca perdita di territorio e contro quella di Enrico IV, al quale premeva di togliere alla Spagna le comunicazioni tra la Lombardia da una parte e i suoi possessi transalpini dall'altra.

Finalmente però l'opera del cardinale Aldobrandini fu coronata dal successo e il 17 gennaio 1601 fu firmato il Trattato di Lione. Il duca di Savoia cedeva al re di Francia la Bressa, il Bugey, il Valromay, Chàteau-Dauphin ed altri luoghi minori sulla riva del Rodano; Enrico IV cedeva al principe sabaudo il marchesato di Saluzzo, le piazze di Cental, De Monts, Roque-Esparvière e il ponte di Gresin; infine il re e il duca si restituivano le fortezze e i territori occupati durante la precedente guerra e si obbligavano di mantenere rapporti di amicizia e di buon vicinato. Il trattato di Lione fu molto vantaggioso a Carlo Emanuele I; aveva sì, dovuto cedere alcuni territori, ma questi, perché situati oltre le Alpi, molto difficilmente avrebbe in seguito potuto conservare; in cambio conservava Saluzzo, allontanava definitivamente i francesi dall'Italia e manteneva le comunicazioni tra l'Italia e i possessi transalpini della Spagna.

Nel 1597, con l'appoggio del riconosciuto Enrico IV, Clemente ottenne la città di Ferrara. Questa data segnò la fine del potere estense, durato tre secoli. Gli interessi del papato erano arrivati al territorio ferrarese, tanto che il duca Alfonso II (signore di Ferrara, Modena e Reggio) fu costretto a stipulare un patto con la Chiesa nel quale si sanciva che, se lo stesso duca fosse morto senza eredi legittimi, il Ducato Estense sarebbe passato sotto il controllo del papato. Nonostante i tre matrimoni Alfonso non ebbe eredi e decise di lasciare per via testamentaria i suoi possedimenti al cugino Cesare; il papa rifacendosi all'accordo stipulato sancì il passaggio del territorio ferrarese alla Chiesa. Ciò gli valse l'ostilità degli storici estensi. Cesare conserverà Modena e Reggio, ma ormai la illustre casata d'Este si avviava a un triste tramonto.

Deluse invece furono le sue speranze di ristabilire il cattolicesimo in Inghilterra con Giacomo I Stuart; non gli riuscì neanche il progetto di occupare Costantinopoli facendo leva sul capo dell'esercito turco, Sinan Bassà Cicala, un genovese che all'età di quattordici anni, rapito dai turchi, aveva dovuto rinnegare la fede cristiana.
Avvenimento su cui ancora oggi gli studiosi e gli storici molto vivacemente dibattono è la condanna definitiva, firmata dal papa, del 'libero pensatore' nolano, il frate domenicano GIORDANO BRUNO. La sua vita fu un peregrinare continuo, alla ricerca spasmodica della verità con l'incoscienza di abbeverarsi alle fonti più disparate pur di saziare la propria sete.

(vedi qui la biografia, la condanna all'indice, e altro )
( VEDI "Il processo a Giordano Bruno" )

Comunque sia, verso la fine del marzo 1592 l'inquieto pellegrino, dopo aver visitato svariate cittadine europee e aver avuto già modo di far parlare di sè non solo le gerarchie cattoliche, ma diversi umanisti e centri di cultura europei, giunse in casa Mocenigo a Venezia. Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse insoddisfatto nelle sue aspettative e indispettito per il carattere indipendente del filosofo, contravvenendo alle più elementari regole dell'ospitalità, rinchiuse Bruno nelle sue stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo di averlo sentito "profferire bestemmie e frasi eretiche". Dopo un paio di mesi peraltro il processo, subito iniziato, si presentava in modo abbastanza favorevole all'accusato, che si era difeso sostenendo di aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede si rimetteva pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse aver pronunciato. Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando tutto faceva sperare in una prossima assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al Tribunale centrale del Santo Uffizio.

La prima risposta del Senato, da sempre geloso custode dell'autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, nella considerazione che l'inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare (ci si riferiva ai primi contrasti avuti nel 1575, quando era stato processato perchè erano stati trovati in suo possesso scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti), giunse alla fine il nulla-osta e il 19 febbraio 1593 il gran peregrinare del nolano terminò in una cella del nuovo palazzo del Santo Uffizio, a Roma.

A peggiorare la situazione si mosse, nello stesso anno, un suo vecchio compagno di cella, Celestino da Verona, che, accusato di eresia, pensò di ottenere la grazia per sè scrivendo ai giudici una lettera diffamatoria nei suoi confronti. Accusò Giordano Bruno di aver detto che "Cristo non fu crocefisso ma impiccato sulla forca; che l'Inferno non esisteva; che ci sono diversi mondi nell'universo e che le stelle sono mondi; che morti i corpi le anime trasmigrano in un altro corpo, che Mosè era un mago; che se fosse stato fatto rientrare nell'Ordine dei Domenicani avrebbe dato fuoco al monastero e sarebbe ritornato nei suoi paesi eretici. Sempre nello stesso anno iniziò, a Roma, una nuova fase processuale durante la quale Giordano Bruno accettò le accuse e decise di difendersi da solo subendo una grave disfatta a cui seguì una memoria difensiva che consegnò agli inquisitori il 20 dicembre 1594. Intanto, papa Clemente VIII ordinò che fosse realizzata una completa censura dei contenuti delle opere a stampa del filosofo.

Due anni dopo, nel dicembre del 1596, vennero consegnate a Giordano Bruno le proposizioni e le tesi censurate dalle sue opere, per preparare le sue controdeduzioni. Nel marzo del 1597, Bruno, innanzi agli inquisitori, difese la sua tesi filosofica centrale: l'infinità dei mondi, operando secondo la tattica della doppia verità, già adottata a Venezia. Il collegio giudicante non accettò questo procedere e, dopo averlo torturato, lo invitò a confessare, ma Bruno rifiutò di sconfessare tutto ciò per cui aveva strenuamente lottato. Nel 1598, furono definitivamente presentate le accuse imputate al filosofo che riguardavano gli atti irriverenti che si riteneva fossero stati compiuti nei confronti del clero relativi alle tesi su Cristo, lo Spirito Santo, la Trinità e le tesi eretiche riguardanti l'universo e la sua infinitezza.

Bruno Giordano, ormai distrutto, si dichiarò disposto a pentirsi e ad abiurare, ma compì un gravissimo errore fidandosi di Clemente VIII, che riteneva essere uomo di grande benevolenza ed onestà intellettuale. A lui,infatti, inviò un memoriale di difesa sulle sue tesi. L'errore di giudizio fu fatale, l'Inquisizione decise di attaccare un'altra sua opera, 'Spaccio della bestia trionfante', ritenendola antipapale e richiese al filosofo abiura e pentimento. Questa volta Bruno non rispose e, rifiutando l'abiura il 21 dicembre 1599, firmò la sua condanna a morte.

Clemente VIII, il 20 gennaio 1600, anno giubilare, ordinò la sentenza di morte e la consegna del detenuto alla giustizia secolare. Il filosofo fu riconosciuto "eretico, impenitente e recidivo". Il 17 febbraio Giordano Bruno venne portato al rogo a Campo de' Fiori con la bocca in giova, cioè con una mordacchia che gli impediva di parlare, e fu dato in pasto alle fiamme, spogliato nudo e legato a un palo. La formula recitava "vivi in igne mittantur!". Prima di morire, dopo esser stata pronunciata la sentenza, Bruno proclamò: "Forse avete più timore voi nel pronunziare la mia sentenza che io nel riceverla". Il monumento erettogli nel 1889 sul luogo del supplizio, per onorare in lui l'eroe "vindice della libertà ed umano incivilimento", fu un'iniziativa dei liberi pensatori contro il papato e la Chiesa cattolica. Dei documenti del suo processo finora non si è trovata traccia.


Oltre il caso Bruno, nella serie dei rigidi interventi atti ad estirpare rigorosamente l'eresia, il malcostume e il banditismo, molto spesso attuati con esecuzioni capitali, annoveriamo il caso della giovane BEATRICE CENCI, che molto animò la sensibilità dei romani, da farne un caso ancora oggi rammentato a favore dell'ingiusta giustizia. La giovane Beatrice apparteneva al casato di Francesco Cenci, di nobile stirpe ma di indole violenta, più volte incriminato per i suoi vizi e rilasciato solo grazie alla sua ricchezza; la madre, Ersilia Santacroce, era morta in seguito a un parto gemellare, dopo aver messo al mondo già dodici figli. I fratelli di Beatrice avevano chiesto piùvolte un'udienza papale per denunciare i soprusi paterni: Clemente VIII fu invece costretto a farli esiliare. Presso palazzo Cenci rimasero le due figlie, che in assenza dei fratelli dovettero sopportare i festini organizzati dal padre e subire ancora più forti le violenze del genitore. La più grande, per interessamento dello stesso pontefice, fu inviata come sposa al nobile Carlo Gabrielli della famiglia di Gubbio, riuscendo in questo mondo a salvarsi. Sentendosi isolato, il conte Cenci decise di perseverare nelle sue violenze e nelle sue attenzioni sessuali lontano dagli sguardi di Roma, portando Beatrice e la seconda moglie Lucrezia Petroni nel possedimento della fortezza di Petrella, in Abruzzo, presso L'Aquila. Beatrice, sostanzialmente seviziata, tentò di far pervenire a Roma, tramite persone di corte, una lettera dettagliata al papa che tuttavia non arrivò mai. I continui soprusi la portarono così all'estrema decisione che venne appoggiata dal fratello Giacomo. Ad aiutarli furono due vassalli che odiavano Francesco Cenci: Marzio Catalano e Olimpio Calvetti.

L'idea iniziale era di simulare un sequestro, in occasione di un viaggio a Roma del Cenci, e di farlo uccidere a causa del ritardato pagamento del riscatto. I banditi arruolati dai due commessi però sbagliarono i tempi, quando il conte aveva ormai superato il tratto di strada scelto per il rapimento. Si pensò così di agire durante il sonno. La sera del 9 settembre 1598 le due donne riuscirono con qualche stratagemma a far mangiare un po' di oppio a Francesco, che andando a dormire cadde in un sonno profondo. Vennero poi fatti entrare Marzio e Olimpio, a cui si promise un ottimo compenso, che con freddezza o meno conficcarono, usando il martello, un chiodo nella testa e uno nella gola dell'uomo, che morì poco dopo. Tolti i chiodi il corpo fu avvolto in un lenzuolo e gettato da un balconcino nel giardino sottostante, in modo da poter far pensare che era scivolato. Ma Beatrice, troppo sconvolta e ingenua per ragionare sui dettagli e su come agire, prima di tornare a Roma dette a far lavare il lenzuolo sporco di sangue, giustificandosi con la lavandaia asserendo che, la notte prima, aveva avuto il ciclo.

All'inizio nessuno indagò ma poi il giudice principale di Napoli, non convinto, mandò un commissario a Rocca Petrella per svolgere le indagini. L'uomo non trovò alcun indizio ma alla fine parlò con la lavandaia. Alla donna fu chiesto un parere sull'origine delle macchie e questa fu la prima aggravante che rese Beatrice e gli altri formalmente indagati. Monsignor Guerra, un prelato che si era invaghito della giovane e della sua vicenda, nel tentativo di aiutarla, o forse puntando all'eredità, si preoccupò subito di far eliminare i testimoni. Olimpio fu ucciso a Terni, Marzio fu solo arrestato e nel tentativo di salvarsi raccontò tutto per poi ritrarre quando ebbe il confronto con Beatrice. Ma, quando sembrava che ci si era dimenticati del conte Francesco Cenci, venne arrestato il sicario di Olimpio che confessò tutti i particolari. Monsignor Guerra, ricercato, fuggì da Roma travestito da venditore di carbone.
Lucrezia, Giacomo e Bernardo Cenci vennero portati al carcere di Corte Savella e non resistendo alla tortura della corda (che consiste nel tenere appese le vittime dalle braccia) confessarono. Poi toccò a Beatrice, che resistette, nonostante le braccia slogate. Ma Clemente VIII dubbioso che il giudice Moscati, al quale era stato affidato il caso, fosse stato intenerito dalla figura della giovane trasferì la questione nelle mani di un giudice più severo. Appesa per i capelli alla fine confessò. In difesa dei giovani Cenci si attivarono diversi principi e cardinali che riuscirono a ottenere dal Papa una proroga di venticinque giorni per presentare una difesa. Gli ottimi avvocati romani consegnarono alla scadenza una serie di motivazioni, puntando sul principio della legittima difesa e considerata la cattiva reputazione di Francesco Cenci tutto lasciava ben sperare.

Ma la notizia del matricidio del nobile Paolo Santacroce che si aggiungeva al fratricidio dei nobili Massimi indusse il pontefice a non fare eccezioni. Venerdì 10 settembre 1599 Clemente VIII ordinò l'esecuzione. Mentre si allestiva il patibolo a piazza Ponte sant'Angelo i principali cardinali tentarono ancora di salvare la vita dei ragazzi, o almeno di non farli uccidere e di fargli scontare la pena in prigione. L'avvocato Prospero Farinacci riuscì a parlare con il papa e insistendo ottenne la grazia per il quindicenne Bernardo, che comunque fu costretto a pagare 400.000 franchi entro un anno alla Santissima Trinità di Ponte Sisto. La notizia dell'esucuzione giunse a Beatrice alle sei del mattino, giusto il tempo di fare testamento e lasciare tutto in beneficienza.

La processione verso il patibolo partì dal carcere di Tor di Nona, dove erano rinchiusi Giacomo e Bernardo, che ricevette la notizia della grazia ma a cui fu imposto di assistere all'esecuzione. Accompagnati da numerosi cittadini, il carro del boia passò al carcere di Corte Savella, per prendere Lucrezia e Beatrice. Si doveva raggiungere la piazzetta di Castel sant'Angelo, scelta per il patibolo in quanto luogo di passaggio delle migliaia di pellegrini diretti a San Pietro ai quali si voleva mostrare l'esemplare punizione. La prima a essere uccisa fu Lucrezia, che salì sul patibolo con le mani legate dietro alla schiena e impiegò alcuni minuti prima di mettersi seduta come le aveva indicato il boia. Le venne tolto il mantello e rimase a petto nudo. Pochi istanti e scese la mannaia. Ma in attesa dell'uccisione di Beatrice, fatalmente, un palco dove qualcuno assisteva alla condanna, crollò, e ci furono parecchi morti. Quando salì la giovane Beatrice si attese il colpo di cannone da Castel sant'Angelo, che avrebbe segnalato al pontefice il momento esatto per poterle impartire l'assoluzione papale maggiore in articulo mortis.

La ragazza con fierezza prese posizione, si sistemò i capelli, in modo da non farsi toccare dal boia. Dopo la sua decapitazione fu il turno di Giacomo, che subì un trattamento ancora più atroce. Alle 21.15 il corpo di Beatrice fu condotto e sepolto, come aveva chiesto, nella chiesa di san Pietro in Montorio al Gianicolo. Ma la ragazza non trovò pace neanche dopo la morte. Nel 1798 durante l'occupazione francese un soldato aprì la tomba, rubò il vassoio d'argento su cui era stata posata la testa e si portò via il teschio, episodio di cui fu testimone il pittore Vincenzo Camuccini. Per evitare altre profanazioni e soprattutto polemiche ed imbarazzi per la sepoltura in un luogo sacro di una ragazza eletta a martire dal popolo ma comunque complice di un omicidio, per giunta giudicato proprio da un pontefice, la tomba fu coperta dagli strati superiori delle nuove pavimentazioni e non fu riportata nessun indicazione.

A Castel sant'Angelo, nel luogo in cui è stata decapitata, la notte dell'undici settembre, come hanno riferito a distanza di anni centinaia di persone, si è vista la sua figura aleggiare sopra il ponte, anche se lo scetticismo in questi casi è d'obbligo. Rimane il fatto che la storia e la vita di Beatrice sono emblema di una perpetua ingiustizia, di un'infanzia rubata, di muri di silenzio che costrinsero la ragazza a difendere la sua vita, ma allo stesso tempo a condannarla, in base a delle leggi che non conoscono il sapore del dolore, del senso della violazione di un diritto.

"Annus Domini placabilis" (ma a chi è riferito il 'placabilis'? a Dio o all'anno?) è l'incipit della Bolla con la quale papa Clemente VIII il 19 maggio 1599 annunciava il XII Giubileo, il primo del nuovo secolo; i preparativi erano indirettamente iniziati fin dal dicembre dell'anno prima, quando bisognò porre rimedio ad un eccessivo straripamento del Tevere. Due giorni dopo sospese le altre indulgenze con la Bolla "Cum sancti jubilaei" e, il 30 ottobre, inviò a tutti i vescovi una lettera, il breve "Tempus acceptabile", per esortarli a prepararsi al Giubileo facendosi promotori di pellegrinaggi a Roma. La Porta Santa fu aperta qualche giorno di ritardo sulla tradizionale data di Natale, propriamente il 31 dicembre, per un forte attacco di gotta (disturbo dovuto all'aumento dell'acido urico corporeo) avuto dal papa; tuttavia grande fu la suggestione al momento dell'apertura contemporanea delle Porte Sante nelle quattro Basiliche, quando le campane di tutte le chiese di Roma si misero a suonare, accompagnate dal rombo dei cannoni di Castel sant'Angelo.

La mobilitazione fu grande. Osti, albergatori, bottegai, negozianti vennero diffidati, pena severi provvedimenti, dal rincarare i prezzi; ugualmente prese rigidi provvedimenti per la repressione del brigantaggio e del malcostume; furono vietati i festeggiamenti del Carnevale; venne costruita una casa per ospitare vescovi e sacerdoti poveri d'oltralpe; la comunità ebraica di Roma offrì 500 pagliericci e coperte. Il 1600 è ricordato, perciò, come uno dei Giubilei più intensi: a Roma, che contava circa 100.000 abitanti, vennero circa tre milioni di pellegrini, 200.000 solo il giorno di Pasqua, ai quali veniva concessa l'indulgenza plenaria a patto che visitassero quindici volte le chiese, se stranieri; trenta volte, se romani. Clemente VIII diede, durante l'Anno Santo, un continuo pubblico buon esempio servendo a tavola i pellegrini, ascoltando le confessioni durante la Settimana Santa, salendo in ginocchio la Scala Santa, mangiando ogni giorno con dodici poveri,
visitando ben sessanta volte le Basiliche e recandosi di persona nei luoghi di penitenza per verificarne le condizioni e il funzionamento, mentre i cardinali, in segno di penitenza, rinunciarono ad indossare la porpora. Si mossero in tanti ad aiutare l'azione giubilare del Papa del 1600. La Confraternita di san Filinpo Neri fu, come sempre, in prima linea coaduviata allora dall'opera infaticabile di san Camillo De Lellis. Il papa coinvolse addirittura Filippo, re di Spagna, per rifornire di grano la Sicilia; il viceré di Napoli si recò a Roma facendo al papa l'omaggio di una splendida cavalcata di ottocento cavalli tutti coperti a festa. Sempre in ragione della malattia, Clemente VIII, che aveva programmato la chiusura della Porta Santa per il 31 dicembre 1600, spostò il rito al 13 gennaio 1601.

Qualche anno più tardi anche i Riformati, sull'esempio del Giubileo del 1600, celebrarono un loro Giubileo in occasione della ricorrenza del centenario della ribellione di Lutero (1517-1617). Si conservano monete con la scritta "saeculum Lutheranorum" e il libro "Du jubilé des églises réformées avec l'examen du Jubilée de l'église romaine".

Papa Clemente VIII è anche ricordato per essere il papa del caffè. Questa bevanda, a contatto con la cultura cattolica, incontrò diverse opposizioni. Siccome era una preparazione musulmana, il clero chiese formalmente al papa di proibirla. Ma, narra la leggenda, che Clemente, nel sentire che il caffè era un'invenzione del diavolo, ne chiese un assaggio. Sorseggiandone una tazzina così dichiarò: "È così squisito che sarebbe un peccato lasciarlo bere esclusivamente agli infedeli!". Sempre secondo la leggenda, egli battezzò il caffè per farne una bevanda in grazia cristiana. Da allora il nero liquido iniziò a diffondersi in Europa, diventando un vero e proprio culto, con la nascita delle 'botteghe del caffè', a Vienna, Londra, Parigi e Venezia.

Durante il suo pontificato, Clemente ordinò la pubblicazione di una nuova edizione della Vulgata, detta da lui 'Clementina', dopo che quella di Sisto V era stata ritirata poichè piena di strafalcioni; altresì pubblicò la revisione del Breviario e del Messale, e una rinnovata edizione dell''Index Librorum prohibitorum' (1596).
Nel 1592 fu introdotta nelle chiese di Roma, diffusa dal papa, e nelle altre diocesi la pratica delle Quarantore, istituita a Milano nel 1527.
Nel 1594 avocò la diatriba tra Gesuiti e Domenicani, a causa della faccenda del 'De concordia' del Molina, giunta quasi all'esasperazione, al foro della Sede Apostolica e istituì per lo studio della questione un'apposita commissione, la 'Congragatio de auxiliis gratia', che se ne occupò con deliberazioni e discussioni durate per nove anni. Per cinque volte essa propose di condannare la dottrina di Molina, ma ne fu sempre trattenuta dall'intervento del generale dei Gesuiti Acquaviva e dal cardinale Bellarmino.
Tentativi unionisti furono avviati con le Chiese orientali: i legati del patriarca Gabriele di Alessandria fecero la loro professione di fede cattolica in Roma e dichiararono la loro obbedienza, ma il patriarca che gli successe si allontanò di nuovo. Più a buon fine andò l'unione con i Ruteni o Piccoli Russi, favorita dall'azione propagandistica gesuituca in Polonia. I vescovi ruteni, presieduti dal metropolita di Kiew, nel sinodo di Brest-Litowsk del 1595 decisero di riunirsi con la Chiesa latina sulla base del decreto fiorentino del 1439. Quando Clemente VIII espresse la sua approvazione, l'unione fu proclamata e attuata nel Sinodo di Brest dell'ottobre 1596; i ruteni poterono conservare i loro riti e il matrimionio per i sacerdoti. Non mancarono però violente ostilità: l'arcivescovo di Polozk, Giosafat Kuncewicz, uno dei principali propugnatori della riunificazione, cadde vittima di un crudele assassioni da parte degli scismatici a Witebsk nel 1623; fu canonizzato nel 1867.

Nel 1593 ripristinò molte leggi, abolite da Sisto V, che gravavano gli ebrei con molte oppressive restrizioni economiche e sociali; resteranno in vigore fino al XIX secolo.
Clemente VIII si circondò di personaggi illustri per portare avanti la sua vasta opera di riforma. favorì l'amicizia e la protezione di san Filippo Neri, dei cardinali Bellarmino e Baronio, di personaggi come l'Antoniano, Guido Bentivoglio, Andrea Cesalpino, ma non fu immune dal fenomeno del nepotismo: creò cardinale due suoi nipoti, Cinzio e Pietro Aldobrandini. Ma tra i letterati e gli artisti pare che abbia preferito Torquato Tasso, che gli aveva dedicato una canzone augurale per l'elezione a papa; egli fu il poeta della sua corte papale e per lui in pontefice aveva preparato l'incoronazione in Campidoglio, non avvenuta per la morte del poeta. Nella "Gerusalemme conquistata" il Tasso aveva espresso l'auspicata integrale rinascenza cattolica promossa dal pontefice.

Fu anche papa che promosse lo sviluppo dell'edilizia artistica. In Vaticano, la sala del Concistoro e la sala Clementina (che serve da anticamera all'appartamento pontificio), furono opera sua, come pure la Villa Aldobrandini di Frascati, residenza estiva del pontefice, costruita su disegno di Giacomo della Porta e portata a compimento da Carlo Maderno con gli abbellimenti dei giochi di acqua ideati da Giovanni Fontana.
In particolar modo il Maderno fu il realizzatore delle sue commissioni; questi si lanciò in un intenso piano edilizio, realizzando, tra l'altro, la Manica Lunga, dove erano alloggiate le Guardie Svizzere, la Cappella Paolina, l'Appartamento dei Principi, la bellissima Sala Regia, il Salone degli Svizzeri e la Cappella dell'Annunciazione, affrescata da Guido Reni.
La cupola della basilica di san Pietro fu finalmente completata.
Si ebbe con lui anche la completa cristianizzazione degli obelischi orientali (in genere venuti dall'Egitto, dove erano nati come culto al dio sole) installati in tante piazze romane. A molti di essi Clemente VIII annesse una peculiare indulgenza. Il primo a beneficiarne fu naturalmente l'obelisco vaticano. La Roma paganeggiante del Rinascimento era ormai lontana, la città eterna riacquistava il ruolo di punto referenziale di conversione per ogni cristiano.
Clemente VIII si spense il 3 marzo 1605, a 69 anni.
A lui è toccato l'onore di aprire il nuovo secolo.
a succedergli fu LEONE XI ....

LEONE XI - Alessandro de' Medici (1535-1605)
(Pontificato 1605 - di soli 26 giorni)

ALESSANDRO nasce a Firenze il 2 giugno 1535 da Ottaviano, che apparteneva a un ramo collaterale della famiglia MEDICI e da Francesca Salviati; nipote di papa Leone X. Fu ambasciatore mediceo a Roma dal 1569 al 1583, incarico che svolse con soddisfazione sia dei granduchi che dei papi. Nel marzo 1573 è nominato vescovo di Pistoia e dieci mesi dopo arcivescovo di Firenze; nel 1583 è elevato al cardinalato. Nel 1596 (fino al 1598) fu inviato da Clemente VIII come Legato pontificio presso il re di Francia Enrico IV, il quale, però, non riuscì a mantenere le promesse fatte, soprattutto quella di ripristinare l'unità religiosa in Francia.
Partecipò attivamente all'emanazione dell'Editto di Nantes e alla Pace di Vervins (1598), durante le quali svolse abile opera di mediazione. Nel 1600 fu nominato arcivescovo di Albano e, nel 1602, di Palestrina.

Il 3 marzo 1605 moriva Clemente VIII. Il conclave che si aprì fu abbastanza contrastato poichè dominato da due opposti partiti, quello spagnolo e quello francese. Molti cardinali - alcuni affermano sotto influsso 'gesuitico' - si orientarono verso l'oratoriano cardinale Baronio, succeduto nel 1593 a san Filippo Neri e autore dei monumentali volumi degli Annali Ecclesiastici, che sembrava il più adatto perchè aveva difeso più volte i diritti della Santa Sede; altre preferenze furono espresse per il gesuita cardinale Bellarmino e per il cardinale Borromeo, cugino di san Carlo Borromeo morto nel 1584. Ma la vinse il partito francese che fece eleggere il 1° aprile 1605 il settantenne cardinale Alessandro de' Medici che assunse il nome di LEONE XI, in memoria del suo parente; il 10 aprile fu insediato e, purtroppo, nello stesso giorno si ammalò gravemente.

Fervido sostenitore della Controriforma cercò di attuare i decreti tridentini, avviò il restauro di numerose chiese romane e della Villa Medici sul Pincio, da lui acquistata. Discepolo, amico e ammiratore di san Filippo Neri, fin dalla giovinezza si mantenne in stretti rapporti con i Domenicani di san Marco; appena venti giorni dopo la sua elezione risolse una disputa tra il clero di Castiglia e i Gesuiti, obbligando questi ultimi a dare una quota delle loro rendite. Richiamò a Roma il cardinale Bellarmino. Si mostrò deciso avversario del nepotismo, a tal punto da esonerare il suo confessore per avergli proposto di creare cardinale il meritevole nipote Ottaviano de' Medici e per questo il popolo si aspettava da lui un periodo di vita felice ma dovette piangerlo ben presto. Leone infatti morì il 27 aprile 1605, dopo soli 26 giorni di pontificato, uno dei più brevi della storia.
a succedergli PAOLO V .......


PAOLO V - Camillo Borghese (1552-1621)
(Pontificato 1605-1621)
CAMILLO BORGHESE nasce a Roma il 17 settembre 1552 da nobile famiglia oriunda di Siena, che si era trasferita nell'Urbe qualche anno prima. Ha studiato giurisprudenza a Perugia e Padova, divenendo un canonista di profonda abilità, svolgendo, come avvocato concistoriale, importanti incarichi per la Curia. Nel 1588 è Vicelegato a Bologna; inviato straordinario presso Filippo II nel 1593.
Ricevette la porpora nel 1596 da Clemente VIII e fu nominato Vicario di Roma nel 1603. Alla morte di Leone XI (nemmeno un mese di pontificato) si aprì il conclave, dove la Spagna si servì del 'diritto di esclusiva', cioè fu espresso formalmente, per mezzo di un cardinale incaricato, il veto contro l'elezione di un candidato non gradito. Un accordo delle fazioni portò all'elezione, il 16 maggio 1605, del cardinal Borghese, che scelse di chiamarsi PAOLO V.

Il nuovo pontefice aveva un altissimo concetto della sua missione, era rigido sostenitore dei diritti del papato e pretendeva di imporre l'autorità pontificia non solo sugli stati cattolici.
Sul piano internazionale, numerosi sono i problemi che minacciavano la pace. Spagna e Olanda erano ancora in conflitto tra loro, nonostante la sconfitta subita dagli spagnoli a Nieuport ad opera della coalizione formata da olandesi e inglesi. Rispetto alla Francia cercò di rafforzare la posizione della monarchia borbonica contro gli ugonotti, tentando insieme di opporsi al gallicanesimo regalista. Per l'attuazione della riforma cattolica di fronte al diffondersi del protestantesimo, seppur riuscì a promuovere una lega difensiva tra Spagna e Francia, riuscendo a far concludere il matrimonio tra Luigi XIII e l'Infante Anna Maria, identificò troppo gli interessi della religione con quelli degli Asburgo, costringendo a subire le concessioni politiche di quest'ultimi ai protestanti.

Scoppiata la guerra dei Trent'Anni, mentre si preoccupò di trattenere Luigi XIII dall'intervento contro l'Impero, non si rese conto della gravità della situazione, impegnandosi solo nel 1620 in aiuti finanziari e illudendosi che il crollo della ribelione boema avrebbe concluso presto la guerra.

Nel 1604-1605 guardava con fiducia al Demetrio, diventato cattolico in polonia, figlio di Ivan IV di Russia, che aveva fatto ben sperare per una riunificazione della Russia ortodossa con Roma, ma non fu che un momento effimero, perchè il clero locale e il popolo erano radicalmente avversi a una riunificazione; Demetrio e altri polacchi furono assasinati e l'ortodossia nuovamente consolidata, dal 1613, con la dinastia dei Romanov.

In Inghilterra, alla morte di Elisabetta I, aveva preso la corona Giacomo, figlio di Maria Stuarda, che aveva unito la corona di Scozia a quella d'Inghilterra. Paolo V aveva scritto, nel luglio 1606, un'amichevole lettera al novello monarca, per complimentarsi dell'ascesa al trono, chiedendogli di non pressare i cattolici; allo stesso tempo chiedeva ai cattolici di sottomettersi lealmente al sovrano in tutte le leggi non opposte all'onore di Dio. Purtroppo il re emanò il Giuramento di fedeltà, imposto anche ai cattolici, nel quale si dichiarava, fra l'altro che la dottrina che attribuisce al papa il diritto di deporre i principi e ai sudditi il diritto di deporre e uccidere i sovrani scomunicati, era empia ed eretica. Il pontefice condannò aspramente tale giuramento e i cattolici inglesi si trovarono divisi sulla liceità dell'imposizione reale. Fu lo stesso re Giacomo, per altro uomo colto di studi umanistici e teologici, che nel 1608 difese personalmente il Giuramento con uno scritto polemico.

Nell'ambito della politica italiana, gli stati della penisola stavano perdendo il primato economico, spotestate dalle cittadine mitteleuropee, che dominavano i traffici a livello mondiale. Molti, direttamente o indirettamente, erano sotto il dominio della Spagna. Sono sotto il controllo diretto il ducato di Milano, i regni di Napoli, di Sicilia e di Sardegna. La Toscana invece era controllata dalle piazzeforti degli stati dei presìdi, che comprendono Piombino, l'isola d'Elba e il promontorio dell'Argentario. Gli altri stati cercavano l'alleanza della Spagna per ricevere privilegi o appalti fiscali, come nel caso di Genova, o per proteggersi dalla minaccia turca, come nel caso di Venezia. Anche lo stato pontificio dovette, comunque, appoggiarsi a quello che era l'alleato cattolico più potente per portare avanti la sua politica religiosa.

Lo stato italiano con il quale Paolo V ebbe maggiori scontri fu la Serenissima che non tollerava alcuna ingerenza estranea negli affari della sua politica interna; infatti questa aveva preso al suo servizio per la guerra contro gli Uscocchi alcuni banditi che infestavano lo Stato della Chiesa; questi dissidi si esasperarono quando Venezia abolì il diritto di prelazione del clero sui beni ecclesiastici enfiteutici e proibì la fondazione di chiese e luoghi pii, le donazioni e i legati senza l'autorizzazione dello Stato. Queste lamentele condussero ad un'aperta rottura tra Roma e Venezia quando questa citò davanti al tribunale dei Dieci, due preti, accusati di reati comuni. Erano questi il canonico Saraceni di Vicenza e l'abate Brandolin di Nervesa. Il primo era accusato di avere osato "di levare e sfregare violentemente fino a 16 bolli di S. Marco, di avere ingiuriata in tempo di notte e deturpato la porta di Lucietta Fachina; di avere insidiata l'onestà di donna Nivenzia Trissina, nobile vicentina e sua parente, di costumi onestissimi, avendo più volte nelle pubbliche strade e chiese tentato di contaminarla, e fattole diverse romanzine et insulti alla propria casa sua, in tempo di notte, con sassi e parole ignominiose, et deturpandole la porta con scandalo universale".
Il secondo era imputato di truffe, di violenze, di ferimenti, di stupri e di omicidi.

Paolo V chiese che gli venissero consegnati i due preti per sottoporli al giudizio dei tribunali ecclesiastici; Venezia però si rifiutò e spedì a Roma un ambasciatore per esporre i motivi del rifiuto, ma il pontefice, istigato dalla Spagna, non volle ascoltare le giustificazioni della Repubblica e il 16 agosto del 1606 la minacciò di scomunica se entro ventiquattr'ore non avesse revocato i decreti promulgati contro le prerogative del clero. A Roma si sperava che le popolazioni venete, appena venute a conoscenza del monito, col quale il pontefice lanciava l'interdetto, si sarebbero sollevate; ma il governo della Repubblica prese le misure necessarie per prevenire e reprimere possibili sedizioni: costituì una milizia cittadina e vietò che il monito fosse diffuso entro i confini dello Stato veneto; inoltre ordinò ai religiosi di non parlare dell'interdetto e nominò consultore il dotto servita PAOLO SARPI...
... un uomo di meravigliosa abilità letteraria e strenuo assertore del principio che sosteneva la netta divisione della potestà politica da quella religiosa e l'assoluta esclusione della Chiesa da ogni ingerenza negli affari interni dello Stato.

Il Sarpi, che fu accusato di eresia (gli studi hanno invece dimostrato che era un sincero cattolico) sostenne con grande fermezza nell'aspra lotta contro la Curia romana i diritti della Repubblica, la quale proibì severamente che nel suo territorio venissero sospese le pratiche del culto ed espulse i Gesuiti e i Cappuccini che, ligi a Roma, non volevano sottostare ai decreti del senato. A tali principi il Sarpi s'ispirò per la "Istoria del concilio tridentino (1545–1563)", pubblicata a Londra nel 1619. Le pretese del papa, invece, vennero sostenute dal cardinale Bellarmino. Il conflitto durò aspro per parecchio tempo e diede luogo ad aspre polemiche; si pubblicarono versi e prose per difendere e affermare i diritti di Venezia contro le pretese pontificie; si rispose col mettere all'indice tutti gli scritti contrari alle affermazioni della Curia; furono dichiarati nulli i matrimoni contratti durante il periodo della scomunica; si controbatté confutando la validità dell'interdetto; all'accusa di eresia e di scisma lanciata contro i difensori dei diritti della Repubblica risposero questi protestando il loro attaccamento alla fede cattolica.

Poiché il dissidio tra la Chiesa e Venezia minacciava di mutarsi in guerra, la Francia, l'Olanda, il duca di Savoia ed altri offrirono le loro mediazioni per ristabilire la pace ed Enrico IV ottenne di indurre i contendenti ad un accordo: il pontefice ritirò l'interdetto e Venezia riammise i religiosi espulsi, eccettuati i Gesuiti, e consegnato i due preti al cardinale di Joyeuse, inviato del re di Francia; ma il Senato si rifiutò di revocare i decreti contro le prerogative della potestà ecclesiastica, non volle riconoscere la validità dell'interdetto e ricusò l'assoluzione.

Maggiori successi ottenne la sua politica extraeuropea, raccogliendo successi in America (fu fondata allora la colonia gesuitica del Paraguay), in India, in Cina, in Africa (con la conversione del Negus di Abissinia).
Non fu però immune dal cosiddetto 'piccolo nepotismo': al prediletto nipote Scipione Caffarelli, soprannominato 'delizia di Roma', diede la porpora e la carica di Segretario di Stato, e larghi onori e ricchezze anche agli altri congiunti. Per opera del cardinale nepote sorsero il palazzo ora Rospigliosi e la villa Borghese.

Oltre la già attiva 'censura ecclesiastica', istituita da Paolo III, dal 1611 si andò consolidando un altro mezzo atto a non far diffondere libri ritenuti proibiti: l'INDICE. Con questa forma di censura, la Chiesa provvide a pubblicare un indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorium), un catalogo di testi di varia natura i cui contenuti erano contrari all'ortodossia, all'autorità del Papa e dei Vescovi oppure sconsigliabili moralmente. Si trattava anche questo di un particolare provvedimento per contenere la diffusione dell'eresia luterana attraverso testi stampati con il nuovo metodo dei caratteri mobili di Gutenberg.

Il fervore intellettuale degli ambienti scientifici e teologici romani (Clavio, Bellarmino, Suarez, fondazione dei Lincei) favorito dalle aperture intellettuali e dal mecenatismo del papa, venne comunque offuscato da episodi di repressione, quali la condanna del Cremonini, la condanna del sistema di Copernico, le cui opere vennero iscritte all'Indice e soprattutto la severa ammonizione, nel 1616, a Galileo, per aver sostenuto pubblicamente, non più come ipotesi ma come teoria, le tesi copernicane.
Sotto Paolo V ebbe fine l'interminabile disputa teologica sul cooperare della grazia con la libertà, detta "De auxiliis (divinae gratiae)", dal nome della Congregazione dei teologi creata da Clemente VIII. La polemica, sul modo di capire gli aiuti della grazia al libero arbitrio, si accese particolarmente tra i teologi Gesuiti, detti molinisti (da Luigi Molina che a Lisbona aveva stampato nel 1588 un'opera in quattro volumi "La grazia e il libero arbitrio") e i Domenicani, detti tomisti dal loro riferimento a san Tommaso.

Le sedute durarono circa dieci anni, dal 1598 al 1607, quando Paolo V, dopo aver chiesto per iscritto i pareri della commissione, la sciolse dichiarando ognuna delle due parti libera di proporre la propria opinione. Nel 1611, tuttavia, per evitare che una nuova discussione accendesse troppo gli animi, un decreto dell'Inquisizione subordinò l'ulteriore pubblicazione di scritti sul problema della grazia, alla concessione di uno speciale permesso.
Nel campo della riforma interna della Chiesa, notevoli furono i suoi sforzi, con significativi risultati, di riforma giudiziaria e di risanamento del bilancio statale. Importante fu l'imposizione dell'obbligo della residenza degli ecclesiastici; fu pubblicato il nuovo 'Rituale Romanum', furono protetti i nuovi ordini religiosi, furono fondate scuole per i poveri.

Con Paolo V i tempi si resero ormai maturi per risolvere il 'problema' dell'Archivio Pontificio. Nell'ambito della ricerca storica cresceva il bisogno di accedere alle fonti documentarie, per il sostegno e l'impulso che da esse poteva trarre la storiografia, specie quella di parte cattolica che si era affacciato al mondo della cultura con gli 'Annales ecclesiastici' del cardinale Cesare Baronio e dei suoi continuatori. Altri motivi infine di carattere amministrativo, giuridico e curiale, dovettero farsi pressanti in questo tempo se Paolo V, ad un anno appena dalla sua elezione, si dimostrava vivamente interessato al recupero delle carte degli archivi pontifici ancora disperse, ordinando con il breve "Apostolicae Sedis" del 25 gennaio 1606, che le molte e varie scritture della Santa Sede e della Camera Apostolica in possesso di diverse persone fossero perentoriamente consegnate nel giro di sei giorni al Commissario della Camera Apostolica o ai Custodi della Biblioteca Vaticana o dell'Archivio di Castel Sant'Angelo, pena la scomunica. Inoltre, con il breve, "Cum nuper" del 31 gennaio 1612 il pontefice ordinava di trasferire libri e documenti dal vecchio al 'nuovo archivio' (così venne indicato), eretto nel Palazzo Apostolico nominandone Custode Bartolomeo Ansidei. Sembra che il papa avesse anticipato di qualche tempo la sua decisione dopo una visita, che lo aveva turbato, all'Archivio di Castel Sant'Angelo, dove molti documenti erano in preda ai topi e sommersi dalla polvere. Nonostante le opposizioni di diversi curiali, desiderosi di conservare la documentazione nei propri archivi, il pontefice, coadiuvato soprattutto da Bartolomeo Cesi, riuscì ad attuare il suo progetto. La sede del nuovo Archivio, adiacente al Salone Sistino della Biblioteca Vaticana, fu appositamente attrezzate con armadi di pioppo, recanti le armi gentilizie di casa Borghese, ed affrescata nella parte superiore con un ciclo di scene a carattere storico, ancora oggi visibili, raffiguranti donazioni, privilegi e tributi alla Chiesa da parte di sovrani, da Costantino a Carlo IV di Lussemburgo.

Sempre a Paolo V si deve il Salone detto dei Corazzieri al Quirinale. L'ambiente fu edificato da Carlo Maderno nell'ambito dei lavori di ristrutturazione dell'ala sud del palazzo promossi dal papa. Questo vasto salone, detto in origine Sala Regia, era destinato agli incontri ufficiali del pontefice con le delegazioni diplomatiche straniere in visita alla Santa Sede. Il soffitto ligneo a cassettoni dorato su fondo azzurro reca alle due estremità lo stemma di Paolo V. Al centro del soffitto una immagine dello Spirito Santo fu sostituita alla fine dell'Ottocento dallo stemma sabaudo. I soggetti degli affreschi sono volti ad esaltare la figura e l'attività pontificia, il cui stemma e i cui animali araldici (aquila e drago) ricorrono più volte in tutto il fregio. L'attuale denominazione della sala si deve alla cerimonia della rivista del reparto Corazzieri che qui si tiene in occasione di alcune importanti cerimonie. Date le vaste dimensioni dell'ambiente, nel Salone hanno luogo molte delle attività di alta rappresentanza, quali la consegna delle insegne ai cavalieri del lavoro e gli auguri di Natale al corpo diplomatico da parte del Capo dello Stato.

A partire dal 1607 Paolo V commissionò a Carlo Maderno il completamento definitivo della basilica di san Pietro, trasformando l'impianto a croce greca in croce latina con l'aggiunta di tre campate e del portico d'ingresso; porta la firma del Maderno anche l'imponente facciata della basilica, finalmente completata.
Ugualmente Paolo V si adoperò per abbellire la basilica di santa Maria Maggiore, dove fece costruire due cappelle paoline. Davanti alla basilica mariana, nel 1614, fece porre la maestosa colonna corinzia, unica superstite di quelle della basilica di Massenzio; la colonna venne dedicata alla Vergine ed è la più vistosa testimonianza di una devota consuetudine, diffusa ovunque fino a questo secolo, che ha posto colonne crocifere davanti alle chiese.
Infine, porta la sua firma, il ripristino dell'acquedotto di Traiano, battezzato dell''Acqua Paola".
Il 28 gennaio 1621 Paolo V si spense, dopo quasi 16 anni di pontificato. I suoi resti riposano nella magnifica Cappella Borghese nella basilica romana di santa Maria Maggiore.
a succedergli GREGORIO XV.....



GREGORIO XV - Alessandro Ludovisi (1554-1623)
(Pontificato 1621-1623)
ALESSANDRO nasce a Bologna, dal conte Pompeo LUDOVISI, il 9 gennaio 1554. Studiò a Roma presso il Collegio Romano e nel 1575 si laurea in giurisprudenza. Sacerdote nel 1578, fu primo Giudice capitolino; nel 1612 fu nominato arcivescovo di Bologna, incarico che conservò fino al 1621 quando salì sul soglio. Nel settembre 1616 fu nominato cardinale di santa Maria in Traspontina. Alla morte di Paolo V, suo nipote, il cardinale Borghese, riuscì a far convergere i voti dei propri aderenti sul cardinale Ludovisi, che fu eletto dopo solo una decina di giorni di conclave, il 9 febbraio 1621; questi assunse il nome di GREGORIO XV.

Ormai già molto anziano (67enne) e non più sano, egli affidò il governo politico e pastorale al cardinale nepote, il venticinquenne LUDOVICO LUDOVISI, che, in breve, mostrò un abile talento diplomatico. Ma approfittò anche dei lucrosi e pingui benefici ecclesiastici subito concessi dallo zio (quasi che presentisse la brevità del suo pontificato). Ricevette infatti l'ufficio di Camerlengo con la rendita di 10.00 scudi, l'arcivescovado di Bologna, la legazione di Avignone e molte abbazie ben dotate. Con le grandi ricchezze accumulate in soli 26 mesi di pontificato dello zio - tali da essere soprannominato "il Cardinal padrone") , Ludovico le impiegò nell'acquisto del ducato di Zagarolo (coi castelli dei Colonna, Gallicano e Passerano) e con 39.000 scudi acquistò il loro stesso palazzo dagli squattrinati Colonna; costruì lo splendido palazzo Ludovisi (rimaneggiato divenne poi l'attuale Montecitorio), ed essendo allora di moda, creò anche una preziosa galleria di numerose opere artistiche.
Assurse insomma ai fasti delle grandi famiglie, seguendo l'esempio dei Borghese. Tuttavia forse per rimorso di coscienza di tante ricchezze accumulate sulle spalle dei poveri contribuenti e con indebite appropriazioni di territori della Chiesa, alla morte dello zio, Ludovico iniziò a distribuire annualmente agli istituti di carità, 32.000 scudi, mise a disposizione presso il Laterano 150 letti ospedalieri, la distribuzione di pasti ai poveri, e edificò anche la chiesa di Sant'Ignazio.

Insieme zio e nipote, nel breve periodo di pontificato, seppero trarre i massimi vantaggi dalla piega favorevole che presentava la Guerra dei Trent'Anni. Gregorio XV inviò presso l'imperatore Ferdinando II il nunzio Carlo Carafa, che in Boemia e nei domini austriaci aiutò con ogni mezzo e senza scrupoli i cattolici facendo allontanare luterani e calvinisti; uguale restaurazione fu realizzata in Moravia e Ungheria.
Nel 1622, riuscì, inoltre, a far passare la dignità di principe elettore da Federico V del Palatinato al cattolico duca Massimiliano di Baviera; in cambio Massimiliano, nel 1623, donò al papa la famosa Biblioteca Palatina di Heidelberg. Migliorò i rapporti con l'Inghilterra e fu anche mediatore tra Francia e casa d'Austria nella questione dei Grigioni e della Valtellina.

Di Gregorio XV è rimasta la riforma da lui introdotta, nel 1621, sul modo di eleggere il papa, delineata nel documento "Aeterni Patris Filius". Essa intese chiudere definitivamente le porte del conclave alle potenze politiche. Le novità principali di tale riforma furono l'introduzione del voto segreto dei cardinali, favorendo in tal modo la libertà di scelta del candidato, l'introduzione delle schede elettorali, lo scrutinio fino al raggiungimento dei 2/3 della maggioranza, e l'abolizione della nomina per adorazione (elezioni fatte sotto le pressioni del momento). Rimasero tuttavia le possibilità di elezione per acclamazione (accordo unanime) e per compromesso (nomina affidata ad un ristretto manipolo di eminenze). Le principali nazioni europee conservarono purtroppo lo 'jus exclusivae', vale a dire il diritto di veto su un candidato a loro non gradito.

Quest'ultimo privilegio venne abolito solo con Pio X nel 1904. La bruciatura delle schede usate, effettuata per conservare il segreto, dà la caratteristica fumata nera in caso di elezione mancata, mentre viene manipolata perché dia una fumata bianca in caso di elezione avvenuta.
Con la bolla "Inscrutabili Divinae" del 22 giugno 1622, e con altri documenti successivi, costituì la Congregazione "De Propaganda Fide", il cui germe era stato posto da Gregorio XIII. Il compito specifico della Congregazione era (ed è ancora oggi) la propagazione della fede nel mondo intero, con la specifica competenza di coordinare tutte le forze missionarie, di dare direttive per le missioni, di promuovere la formazione del clero e delle gerarchie locali, di incoraggiare la fondazione di nuovi Istituti missionari ed infine di provvedere agli aiuti materiali per le attività missionarie, promuovendo l'avvio di opere di pubblica utilità. La nuova Congregazione divenne in tal modo lo strumento ordinario ed esclusivo del papa per l'esercizio di giurisdizione su tutte le missioni e la cooperazione missionaria.

Merita ricordare, inoltre, l'approvazione di Gregorio XV, ai metodi anticonformisti del gesuita padre Roberto de' Nobili, missionario a Madura, in India, che convertì un gran numero di bramini locali adattando il cattolicesimo a usi e idee indù.
Nel 1622 proibì la difesa in privato della dottrina contraria all'Immacolata Concezione. Nello stesso anno revocò tutte le licenze dei suoi predecessori, vietando ogni possibilità della lettura della Bibbia in volgare. Contribuì, inoltre, alla diffusione del Catechismo Romano.
Tra le principali figure di santi che beatificò e canonizzò ricordiamo Alberto Magno, Isidoro contadino, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Teresa d'Avila, Filippo Neri. Nel 1621 fissò la data per festeggiare san Giuseppe: 19 marzo.

Nello stesso anno fece chiamare a Roma il Guercino, celebre pittore, che già aveva lavorato per lui ai tempi del suo mandato bolognese. Nei due anni del suo regno, Gregorio gli affidò una serie di importanti commissioni che culminarono nel 1623 con il prestigioso incarico di eseguire la pala con il Seppellimento di santa Petronilla da collocare nella basilica di San Pietro, proprio sopra l'altare che conteneva le spoglie della santa, ritenuta la figlia di Pietro.
Suggerì al cardinale nipote di erigere un tempio al fondatore della Compagnia di Gesù, che egli stesso aveva canonizzato qualche tempo prima, poichè la chiesa dell'Annunziata non riusciva più ad ospitare gli studenti che, in numero sempre crescente, frequentavano il Collegio Romano, dove egli stesso si era formato. Il giovane cardinale accettò la proposta, chiese progetti a diversi architetti e scelse, infine, quello del padre Orazio Grassi (1582- 1654), gesuita e professore di matematica presso il Collegio stesso. Per la costruzione di questa chiesa, Gregorio fronteggiò la spesa di 200.000 scudi.


Nella splendida villa Ludovisi, costruita negli orti sallustiani, egli mise insieme una delle più grandi collezioni di arte antica (circa 216 statue, 94 busti, numerosi bronzi, ecc. ecc.) che, andata dispersa, è stata recentemente ricostruita. Nei giardini del Quirinale, nei pressi del fabbricato principale, fece realizzare la Fontana rocciosa, dinanzi alla quale un grande mosaico con le armi papali e lo stemma pontificio sorprendono l'ignaro visitatore con getti d'acqua concentrici sgorganti da invisibili ugelli dissimulati lungo l'intero perimetro dello stemma.
Per impedire ai 'fruttaroli' di Campo de' Fiori di depositarvi frutta e verdura, per tenerla al fresco, nel 1622, fece porre un coperchio di travertino sull'originale vaso marmoreo della bella vasca della fontana della piazza omonima e da allora i romani cominciarono ad indicare la fontana col nome di 'Terrina' per la sua forma che ricorda, appunto, quella di una zuppiera. In occasione della copertura furono tolti dalla fontana i quattro delfini ornamentali, poi misteriosamente scomparsi. Rimossa nel 1889 per far luogo al monumento a Giordano Bruno, la Terrina venne custodita nei depositi comunali fino al 1924, quando venne ricostruita in piazza della Chiesa Nuova e inaugurata l'anno successivo.
Infine, apportò notevoli trasformazioni all'intera struttura della romana Villa Torlonia.
Gregorio, già ammalato, all'età di 70 anni, si spense l'8 luglio 1623, dopo poco più di due anni di pontificato. I suoi resti mortali, in seguito uniti anche nella morte con quelli del cardinale nipote, riposano nella chiesa di sant'Ignazio, verso la quale egli, quand'era in vita, aveva tanto beneficato.
Si può ben dire che nessun altro pontificato di così breve durata ha lasciato nella storia tracce antrettanto profonde.
a succedergli URBANO VIII .....


URBANO VIII, Maffeo Barberini, di Firenze
(1568-1644)
(Pontificato 1623-1644)
MAFFEO nacque a Firenze dalla nobile famiglia BARBERINI nell'aprile 1568. Si formò a Roma, presso il Collegio Romano, dove completò i suoi studi umanistici e di diritto. Attraverso l'influenza di uno zio, che era diventato Protonotaio Apostolico, ricevette, ancora molto giovane, diverse promozioni da Sisto V, che lo nominò Referendario, e da Gregorio XIV. Clemente VIII lo nominò Governatore di Fano e, nel 1604, Protonotaio Apostolico e arcivescovo di Nazareth; sempre nello stesso anno lo troviamo Nunzio Apostolico a Parigi. Nel 1606 fu elevato al cardinalato da Paolo V, protettore della Scozia nel 1607, arcivescovo di Spoleto nel 1608, Prefetto della Segnatura Apostolica di giustizia nel 1610, Legato Pontificio presso la città di Bologna dal 1611 al 1614. La sua brillante carriera venne coronata dall'ascesa al soglio pontificio il 6 agosto 1623, dopo neanche un mese di conclave apertosi alla morte di Gregorio XV. Il cardinale Barberini scelse di chiamarsi URBANO VIII.

Nel quadro della politica internazionale la sua opera incontrò ostacoli insormontabili non solo da parte degli Stati protestanti, ormai definitivamente sottratti alle direttive romane, ma anche da parte di alcuni grandi Stati cattolici: Francia, domini absburgici iberici e imperiali e, in Italia, Venezia, Stati sabaudi, Toscana. Gelosissimo della propria autorità, si mostrò sostenitore convinto del potere temporale del papato e si adoperò per la sua restaurazione, non con un'abile politica ma con la forza delle armi. Il suo pontificato coprì ben ventuno degli anni durante la Guerra dei Trent'anni. In un primo momento appoggiò la politica imperiale perché questa favoriva la restaurazione del cattolicesimo in Germania, ma quando comprese che Spagna ed Impero, diventando troppo potenti, minacciavano di turbare l'equilibrio europeo e potevano nuocere all'autorità del papato, Urbano VIII cercò di rialzare il prestigio della Francia. Fu ingannato dall'abilissimo cardinale Richelieu, primo ministro preoccupato più ai trionfi della monarchia alla quale si era asservito che al prestigio della Santa Sede, che portò la Francia in guerra (ultima parte della Guerra dei Trent'Anni) e che, con l'aggiunta di epidemie e saccheggi, trasformarono la cattolica Germania in un deserto.

Contemporaneamente cercò d'allargare più che poteva i confini dello Stato della Chiesa. Ci riuscì annettendo ai territori pontifici il ducato di Urbino. Quando Federigo Ubaldo, unico erede di Francesco Maria II Della Rovere, morì, Urbano VIII con abilità costrinse il vecchio duca a riconoscere i diritti della Santa Sede sul ducato di Urbino ed il 1° gennaio 1625 incaricò Berlinghiero Gessi di assumere il governo del ducato. Nel 1631, alla morte dell'ultimo roveresco, l'annessione fu completa.

Urbano VIII fu l'ultimo papa che praticò il nepotismo su vasta scala e diversi membri della sua famiglia vennero enormemente arricchiti dai suoi favori: infatti nominò il fratello Carlo Generale della Chiesa e duca di Monterotondo comperandogli da don Filippo Colonna il principato di Palestrina, nominò Francesco Barberini suo primo ministro, cercò di dare al nipote Taddeo, cui assegnò una rendita annua di 60.000 scudi, il ducato d'Urbino e, fallitogli il disegno di sposarlo con Vittoria della Rovere, gli diede in sposa Anna Colonna. In compenso essi lo implicarono in una guerra di parecchi anni con il ducato di Parma e Piacenza. Era qui feudatario il duca Odoardo Farnese che per la rovinosa guerra contro la Spagna e per le spese pazze si era ingolfato nei debiti, ipotecando nei Monti di Roma le rendite del suo ducato di Castro. I Barberini avevano proposto al duca di sollevarlo dalle strettezze finanziarie in cui si trovava purché avesse ceduto loro il ducato di Castro e avesse dato in sposa a suo figlio Ranuccio, una figlia di Taddeo; ma il Farnese rifiutò le proposte e questo fatto costituì il primo germe di odio tra le due famiglie che portò ad una completa rottura quando Odoardo, recatosi a Roma, fu sicuro di non essere stato ricevuto con i dovuti onori dal pontefice e richiamò dallo Stato Pontificio il suo rappresentante diplomatico. Le rappresaglie pontificie non tardarono a venire; infatti il 20 marzo del 1641, violando i privilegi accordati ai Farnese da Paolo III, si vietò con un editto la raccolta del grano dal ducato di Castro, che era formato dai paesi di Nepi, Capodimonte, Vesenzo, Teseo, Signeno, Morano, Ronzano, Arlena, Civitella, Valerano, Corchiano, Fabbrica, Borghetto e Acquasparta. All'editto papale Odoardo Farnese rispose fortificando Castro. Urbano VIII allora gli intimò con un primo monitorio di sospendere i lavori di fortificazione e poichè il duca non accennava ad obbedire, gli inviò una seconda intimazione fissandogli un termine di trenta giorni e minacciandolo di scomunica.

Il pontefice se da un lato cercava di incutere paura al duca, dall'altro, sapendo che vane sarebbero state le minacce, allestiva un esercito di 15.000 uomini ponendolo sotto il comando di Taddeo Barberini, di Luigi Mattei e di Cornelio Melvagia, con il quale fece invadere Castro che cadde in potere dello Stato Pontificio l'11 agosto 1642. Poco dopo Odoardo veniva scomunicato e dichiarato decaduto da tutti i feudi e sul suo ducato veniva lanciato l'interdetto. Questi nel frattempo aveva iniziato delle trattative con il Richelieu, non andate a buon fine e, sostenuto dalla Lega formatasi il 31 Agosto 1642 tra i Veneziani, il granduca di Toscana e il duca di Modena, aveva invaso con un esercito la Romagna sgomentando con i suoi successi la Curia Romana. Il Pontefice cercò di stornare dai suoi Stati il nemico e nel medesimo tempo di ingrandire il patrimonio a spese della Spagna. Per mezzo del Cardinale Spada propose alla Francia un'alleanza in cui dovevano essere inclusi il Farnese, il Granduca, Modena e Venezia. Scopo della lega doveva essere la cacciata degli Spagnoli dal Napoletano; a impresa compiuta, Odoardo Farnese avrebbe avuta la corona di Napoli, la Chiesa si sarebbe estesa fino a Gaeta, sul trono di Parma e Piacenza si sarebbe posto Taddeo Barberini, alla Toscana si sarebbero date le città marittime vicine, e parte del ducato di Milano sarebbe stato del duca di Modena e della Repubblica di Venezia, il resto sarebbe andato alla Francia. Ma i negoziati per risolvere la questione del ducato di Castro non approdarono a nulla; si rinnovò la Lega contro il pontefice e dopo alcuni fatti d'arme, nella primavera del 1644 si pose fine alla guerra con il Trattato di Ferrara, nel quale si stabilì che Odoardo si sarebbe dovuto ritirare dai luoghi occupati nello Stato Pontificio e Urbano VIII doveva restituire ai Farnese il ducato di Castro e togliere l'interdetto.

Attivissima la sua opera diplomatica nella guerra di successione dei Gonzaga a Mantova, coronata con la conclusione della Pace di Ratisbona nel 1627, con la successione del Duca di Nevers, contro le pretese degli Asburgo, dei quali temeva la preponderanza.
Altre spinose situazioni dovette affrontare in Valtellina e, all'estero, in Inghilterra, dove il matrimonio di Carlo I con Enrichetta di Francia non dette i frutti sperati nei riguardi dei cattolici inglesi.
Fu l'ultimo Papa ad estendere il territorio dello Stato Pontificio.
Sotto il pontificato di papa Urbano ebbe luogo il famoso processo che portò alla condanna definitiva di GALILEO GALILEI (1564-1642); questo processo va inquadrato nella serie degli interventi che il papa fece per ridare il giusto potere al Tribunale dell'Inquisizione che, oltre Galileo, aprì processi contro M.A. de Dominis, C. Cremonini e T. Campanella; quest'ultimo, stimato dal papa, fu però da lui personalmente liberato dalla sua prigionia in Castel S. Angelo.
Dopo lo scritto di Niccolò Copernico "De revolutionibus orbium" del 1543, che aveva formulato la teoria eliocentrica contro quella tolemaica basata sulla terra come punto centrale del sistema dell'universo, il cattolico Galileo Galilei e il protestante Giovanni Keplero fecero di quella intuizione la base delle loro ricerche scientifiche. In campo teologico nacque lo scontro con il nascente mondo scientifico moderno a motivo delle affermazioni della Bibbia circa la fissità della terra e il girarle attorno del sole. Sta infatti scritto nella Bibbia: "Giosuè disse al Signore sotto gli occhi degli israeliti: «Sole, fermati in Gàbaon e tu, luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto: «Stette fermo il sole in mezzo al cielo...»" (Libro di Giosuè 10,12-13).
Galilei stesso precisò il senso delle affermazioni bibliche riguardo al sole e alla terra: "Sebbene la Scrittura non può errare, potrebbe non di meno errare qualcuno dei suoi interpreti [...] quando volessimo fermarci sempre sul puro significato delle parole" (dalla Lettera al benedettino Castelli).

E nel Memoriale, indirizzato alla granduchessa Maria Cristina, faceva propria una sentenza del card. Federico Borromeo: "L'intenzione dello Spirito Santo è d'insegnarci come si vada in cielo e non come il cielo vada". Nonostante le più che ragionevoli spiegazioni bibliche da parte di Galilei, il domenicano Lorini del convento di san Marco in Firenze presentò nei suoi riguardi formale denuncia presso il Tribunale dell'Inquisizione. Il Santo Uffizio iniziò il processo esaminando due asserzioni di Galilei contenute nella sua opera "Sulle macchie solari": 1.'che il sole sia centro del mondo e quindi immobile di moto locale'; 2.'che la terra si muove secondo sé tutta anche di moto diurno'. La condanna non si fece attendere: nel 1616 Paolo V gli ingiunse il silenzio.

Galileo accolse con tranquillità la disposizione papale. Nel 1623, all'elezione papale di Urbano VIII, un Barberini che egli aveva già precedentemente conosciuto e che si era reso disponibile nei suoi confronti, Galileo sperò di nuovo di potere liberamente trattare questioni astronomiche. Proprio al nuovo pontefice Galileo dedicò, nel 1623, "il Saggiatore" trattato fondamentale sul metodo sperimentale. Recatosi a Roma per omaggiare l'amico papa, Galileo ne trasse solo la convinzione dell'assurdità scientifica delle tesi clericali; i commenti papali, ricevuti di persona ed amichevolmente nel corso di colloqui privati, pur con tutto il rispetto, gli sembrarono folli.
La ricostruzione del 'caso Galileo' fatta da William SHEA (cattedra galileiana di Storia della scienza all'Università di Padova) nel saggio, firmato insieme con Mariano Artigas, dal titolo "Galileo a Roma: ascesa e caduta di un genio scomodo" riporta alcuni di questi colloqui:
- Galileo: «Ho la prova fisica della fondatezza della mia tesi!».
- Urbano: «Guarda che la tua è soltanto una teoria, una speculazione matematico- astronomica. E io sono convinto di due cose: 1. Dio può fare il mondo come vuole e perciò noi non possiamo vantare certezze; 2.Voi scienziati non potete andare lassù a fare esperimenti. E poi spiegami: come fa la Terra a girare attorno al Sole senza perdersi la Luna che le gira sempre attorno?».
Galileo non trovava una risposta convincente. Ma quale era la sua prova «fisica» della rotazione della Terra? Rispose al papa:
- «Sono le maree, il flusso e il riflusso del mare, a dimostrare che la Terra gira su se stessa e attorno al Sole».

Ma noi sappiamo che le maree dipendono direttamente dall'attrazione della Luna e non (o solo in parte) dal movimento di rotazione della Terra. Keplero aveva già prospettato questa verità, ma Galileo non aveva mai voluto accettarla.
Urbano VIII, per sua buona sorte, già preso dai suoi progetti di rinnovamento architettonico trascurò temporaneamente Galileo. Dopo varie altre opere lo scienziato scrisse "Il Sistema del Mondo" nel 1630, che inviò subito a Roma per ricevere l'imprimatur papale. Si recò poi anch'egli a Roma, dove il papa lo ricevette con calore, enfatizzando però la necessità di esporre le sue opinioni in maniera ipotetica e proponendogli di intitolare il libro "Dialoghi dei due massimi sistemi". Il papa gli promise anche di scrivere un prefazio personalmente. I censori al ricevimento della copia a loro destinata, rimasero disturbati dal contenuto, ma, vista l'approvazione papale, lasciarono perdere la faccenda.

Nel 1632 Galileo provò a far stampare a Roma i "Dialoghi sopra i due massimi sistemi mondiali Tolemaico e Copernicano", un testo fondamentale per la scienza moderna in cui, sotto un'apparente neutralità, dava risalto all'astronomia copernicana a discapito di quella tolemaica. Non riuscendovi a Roma, lo fece stampare a Firenze, ma senza le autorizzazioni di rito; il libro creò sensazione. Nel testo, mettendo in scena la discussione sul sistema copernicano, Galileo presentava tre personaggi: il Salviati, portavoce dell'autore, che spiega la teoria di Copernico, il Sagredo, ex-allievo di Galileo, e un professore aristotelico, persona alquanto stupida, di nome Simplicio. E proprio a quest'ultimo Galileo affidò il compito di illustrare le argomentazioni di Urbano VIII. Come se non bastasse, nella discussione, fa dire a Sagredo, in tono di scherno, rivolto a Simplicio: "Oh che bella dottrina è la vostra! Davanti ad essa dobbiamo tacere; ma io l'ho già sentita da una somma autorità...". L'arroganza di Galileo mandò il papa su tutte le furie; inoltre, benché le autorità ecclesiastiche avessero autorizzato la pubblicazione dell'opera e, nella prefazione e nelle conclusioni, Galileo affermasse di accettare la verità religiosa secondo la Bibbia, la difesa del sistema copernicano era manifesta.

Urbano ebbe allora una involuzione verso la più intransigente difesa delle tradizioni: convocò immediatamente a Roma il vecchio e ammalato astronomo e, anche a causa dell'influenza di alcuni padri gesuiti, il 15 gennaio 1633 fece riprendere il processo. Dopo varie sedute Galileo, trovando anche un accordo in ordine ad alcune accuse e per evitare il carcere a vita, abiurò le sue teorie. Il processo si concluse il 22 giugno dello stesso anno con la sentenza: "Noi affermiamo, giudichiamo e dichiariamo che tu, Galileo [...] avendo creduto e ritenuto una dottrina falsa e contraria alle Sacre Scritture [...] ti condanniamo al carcere formale di questo Santo Ufficio da limitarsi a tempo ed arbitrio nostro; e per titolo di salutare penitenza ti comandiamo che nei tre seguenti anni reciti una volta per settimana i sette salmi penitenziali". Lo scienziato scontò il suo confino prima a Siena, nel palazzo del suo amico Arcivescovo, e poi nella sua villa di Arcetri presso Firenze. Roma rifiutò di pubblicare i documenti dell'affare Galileo. Una parte di essi sparirono quando gli Archivi Vaticani vennero trasportati a Parigi da Napoleone. All'ipotesi di qualcuno che lo scienziato fosse anche stato torturato, parte delle carte riapparirono immediatamente e furono rese pubbliche, fornendo prova che tortura fisica non vi era sicuramente stata. Galileo morì nel 1642, dopo otto anni di arresti domiciliari.

Il 31 ottobre 1992, in occasione del 350° anniversario della morte dello scienziato, Giovanni Paolo II così commentava: "Il caso Galileo era il simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico, e dell'oscurantismo dogmatico, opposto alla libera ricerca della verità. Una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato".
Il caso è chiuso.

Ma torniamo ad Urbano VIII.
Il XIII Giubileo fu da lui indetto con la bolla 'Omnes Gentes plaudite manibus', datata 29 aprile 1624, ma pubblicata solo il 6 agosto (anche se Urbano aveva già indetto un Anno Santo straordinario partendo dal 23 ottobre 1623). I preparativi iniziarono fin dal settembre 1624 organizzando anche il servizio d'ordine e l'approvvigionamento dei viveri, sia nei paesi vicini che in quelli più lontani. I cardinali furono esortati a riordinare le loro chiese e a seguire la buona condotta del clero. Anche all'interno del Vaticano furono allestiti vari e lussuosi appartamenti per ospiti illustri. Solenne fu l'apertura della Porta Santa il pomeriggio della vigilia di Natale annunciata con il suono delle campane per tre volte al giorno nei tre giorni precedenti.
Durante questo Giubileo il Papa vietò ai sacerdoti di fiutare tabacco in chiesa e, il 28 gennaio 1625, con la bolla 'Pontificia sollicitudo' concesse di lucrare l'indulgenza giubilare anche a quanti erano impediti di recarsi a Roma, nonché ai carcerati e agli ammalati. Stabilì anche che i pellegrini che giungevano a Roma potevano vedere le opere di sistemazione della nuova basilica di san Pietro mentre il Bernini stava lavorando al Baldacchino sull'altare della confessione.

Il 30 gennaio con il breve 'Paterna dominici gregis cura', dato il pericolo del colera che veniva dalla Sicilia e da Napoli, sostituì la visita della basilica di San Paolo con quella di Santa Maria in Trastevere alla quale concesse l'apertura di una Porta Santa sul fianco sinistro, tuttora conservata; e concesse la visita alle chiese di santa Maria del Popolo e san Lorenzo in Lucina in sostituzione di quelle di san Sebastiano e di san Lorenzo, situate fuori le mura. Venne introdotta la novità, divenuta poi usanza comune, di lucrare l'indulgenza ogni volta che si ripetessero a Roma le opere prescritte.

Fu proprio sotto il pontificato di Urbano VIII che 85 vescovi di Francia chiesero la condanna, perché ritenute eretiche, dell'Augustinus di Giansenio; il libro fu inserito nell'Indice dei testi proibiti con un decreto del 1641. L'anno successivo lo stesso pontefice si espresse con la bolla di condanna "In eminenti"; questo fu il primo atto ufficiale contro il Giansenismo e ciò, tuttavia, non me impedì lo sviluppo.

Nel governo della Chiesa si attenne scrupolosamente al Concilio di Trento. A lui si deve la riforma del breviario e del clero romano. In proposito concesse a tutti i cardinali di fregiarsi, al posto di 'Illustrissimo', del titolo di 'Eminenza', prima riservato solo ai nobili. Obbligò i vescovi alla residenza nelle rispettive diocesi.
Favorì l'attività missionaria, specie in Asia (Persia, Birmania, Siam, Molucche, Filippine, Giappone) e in Africa (Etiopia). A tale scopo eresse, con la bolla "Immortalis Dei Filius" del 1° agosto 1627, un Collegio de Propaganda Fide, sotto la protezione dei santi Pietro e Paolo, dandogli il proprio nome 'Urbanum'. Questa istituzione doveva provvedere al "reclutamento e alla formazione di zelanti missionari per la diffusione della fede presso tutti i popoli del mondo, per la raccolta di notizie e di studi riguardanti i nuovi popoli che venivano in contatto con la fede cristiana, specialmente in Oriente, e per la riconduzione all'unità della Chiesa a tanti cristiani divisi da Essa".

Procedette alla regolamentazione del culto dei beati e dei santi determinando che solo le persone beatificate o canonizzate dalla Sede Apostolica potevano essere oggetto di venerazione: per le persone da accettare come sante prima del suo decreto del 1634 si richiedeva un culto di almeno cento anni; per quelle venute dopo il 1634 si richiedeva un duplice processo, prima locale, fatto dall'Ordinario del luogo, poi quello Apostolico. Il processo sulle virtù doveva essere corredato, inoltre, anche da due miracoli rigorosamente provati.
Beatificò e canonizzò molti santi, tra questi i più noti sono: Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Luigi Gonzaga, Filippo Neri, Andrea Avellino, Gaetano da Thiene, Felice di Cantalice, Francesco Borgia (gesuita, nipote di Alessandro VI), Giacomo della Marca (il francescano che con i Monti di Pietà aveva combattuto l'usura), Elisabetta regina di Portogallo.

Inoltre, in seguito a numerose richieste dei vescovi francesi e germanici, con la bolla "Universa per orbem" del 24 settembre 1642 provvide a regolare un nuovo calendario di giornate festive: furono fissete 31 feste di precetto; a queste 31 si aggiungevano le domeniche, le feste dei patroni, le feste delle diocesi e quelle delle varie nazioni. Ai vescovi fu vietata l'introduzione di nuove giornate festive.
Nel 1631 soppresse le Dame Inglesi, un'associazione di Gesuite fondate nel 1609 dalla nobile inglese Maria Ward, in stretta aderenza alla Compagnia di Gesù, per l'educazione della gioventù femminile, abolita in seguito a intrighi avversari e ad una sua pretesa di ribellione.
Sostenne molto la stampa, non ancora molto diffusa, ampliando la Stamperia Poliglotta Vaticana.

Ma Urbano VIII fu soprattutto, e forse per questo è oggi maggiormente ricordato e apprezzato, il massimo mecenate della squisita stagione del Barocco romano. Sotto il suo pontificato moltissime opere, che ancora oggi abbelliscono Roma, videro la luce: palazzi, mura, monumenti, statue, ma anche quadri, arazzi e mosaici. E per far fronte alla realizzazione dei tantissimi lavori commissionati, spese ingenti somme di danaro che assottigliarono non poco le casse pontificie ed impose tasse salatissime; "Urbano VIII dalla barba bella, finito il giubileo, impone la gabella", commentava Pasquino.

Fu anche egli personalmente un uomo colto nonchè un un abile scrittore di versi in latino: una sua collezione di parafrasi delle Scritture e diversi inni di sua composizione sono stati frequentemente ristampati. Per le sue doti di poeta e per le tre api che ornavano il suo stemma gentilizio, venne denominato dai contemporanei l''Ape attica'.
Nel 1625 iniziò la costruzione del Palazzo Barberini ad opera di Carlo MADERNO e Gian Lorenzo BERNINI. Al Maderno il papa affidò anche l'incarico di dirigere i lavori della ricostruzione del palazzo sforzesco delle Quattro Fontane, le cui sale vennero ornate di pregevoli pitture tra le quali quella di Pietro Berretini che rappresentò l'apoteosi di Maffeo Barberini. Al Bernini, entrato particolarmente nelle sue grazie, il papa commissionò lavori molto diversificati, tra i quali il Collegio Urbano e la Fontana del Tritone. Inoltre Urbano riuscì a patrocinare anche altri artisti come Nicolas Poussin e Claude Lorrain, pittori, e l'erudito professore gesuita Athanasius Kircher. Sotto il suo pontificato Giovanni Bollando iniziò la monumentale opera dei Bollandisti, l''Acta Sanctorum', e l'archeologo Antonio Bosio gli dedicò la sua celebre opera di 'Roma sotterranea'. Grazie al suo interessamento, nacque anche la Biblioteca Barberiniana, diretta da Luca Holste, di Amburgo; nel 1902 fu incorporata alla Biblioteca Vaticana. Intraprese opere di bonifica delle paludi pontine e di quelle romagnole; innalzò Casteldurante a città e diocesi, che ribattezzò, nel 1636, dandole il suo nome: Urbania.

Nel 1623, appena eletto papa, diede subito inizio ai lavori di trasformazione dell'antica residenza Savelli nel Palazzo Pontificio e nell'annessa villa Barberini a Castel Gandolfo, scegliendo il sito dell'antichissima acropoli di Alba Longa, su cui i Gandulphi avevano costruito la loro rocca; era una zona che conosceva bene, perchè qui aveva già trascorso le sue vacanze da cardinale. L'incarico fu affidato al Maderno, coadiuvato da Bartolomeo Breccioli e Domenico Castelli.
Nel 1626 il papa partì per la sua prima villeggiatura nel rinnovato edificio. Nel 1659 il Bernini ebbe l'incarico di sistemare la piazza con la fontana e di erigere la chiesa di S. Tommaso. Castel Gandolfo continuò ad essere meta preferita di cardinali e prelati della Curia romana e luogo di villeggiatura dei papi fino al 1870. Da quell'anno il palazzo rimase inutilizzato fino al 1929, quando ne venne riconosciuta la proprietà al Vaticano.

Durante il suo pontificato pensò che Roma dovesse aver bisogno di una nuova cinta muraria lungo il fianco del Gianicolo; già il colle di per sé agiva da roccaforte naturale, poiché da occidente sovrastava l'intera città, ma il vecchio confine edificato da Aureliano quasi quattordici secoli prima non era in buone condizioni, e non avrebbe più rappresentato una valida difesa. Il nuovo muro, terminato nel 1643, fu disegnato dall'architetto Marcantonio de Rossi lungo una linea diretta che percorreva il lato occidentale del colle e, per la sua realizzazione, furono demolite numerose abitazioni che si affacciavano sulla calata. La cinta muraria è rimasta intatta dopo quattro secoli.
Rafforzò Castel Sant'Angelo dotandolo di una batteria di cannoni in bronzo, che fu ricavato dalle massicce travi tubolari in bronzo del Pantheon, utilizzate anche per il baldacchino in san Pietro. Questa violazione di un edificio sopravvissuto fin dai tempi dell'Impero Romano, portò al celeberrimo detto: "QUOD NON FECERUNT BARBARI, FECERUNT BARBERINI" - Ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini. Fortunatamente, però, durante l'anno santo, quei cannoni non spararono altro che proiettili a salve, in occasione delle cerimonie più solenni e festose. Inoltre fece erigere a Roma alcune fabbriche di armi e chiamò a lavorarvi dall'estero operai e rinomati maestri, facendo sì che in breve l'armeria pontificia poteva fornire armi per 40.000 soldati a piedi e a cavallo.

Sempre Urbano VIII fu il commissionatore dell'originale 'Barcaccia', la fontana a forma di barca in piazza di Spagna. La tradizione vuole che egli rimanesse talmente impressionato da una barca che era venuta ad arenarsi sulla piazza a seguito di una piena del Tevere, da volerne far restare perpetua memoria. Il lavoro, affidato prima al Bernini padre e poi al Bernini figlio, si presentò arduo: bisognava fare i conti con la scarsa pressione dell'acqua, non sufficiente per innalzare gli zampilli e le cascatelle. Fu grazie alla genialità di Gian Lorenzo che si trovò una soluzione: questi costruì la fontana (da notare il disegno simmetrico: la prua e la poppa sono identiche) sfruttando la raffigurazione di una barca in apparente pericolo di affondare e, quindi, leggermente sotto il livello del terreno e semisommersa dalle acque. L'opera fu inaugurata nel 1629; il committente ci lasciò il segno apponendovi i suoi simboli araldici: le api.

Ultimo capolavoro che segnaliamo, segno del mecenatismo di papa Urbano, è il maestoso e imponente Baldacchino, un colosso bronzeo di quasi trenta metri, che si innalza in mezzo alla crociera e riveste l'altare principale della basilica di san Pietro. Commissionato dal papa nel 1624 al Bernini (tanto per cambiare!!!) e portato a termine nel 1633, l'opera non doveva impedire la vista del fondo della tempio, nè sfiguare nei confronti di quel miracolo d'architettura che è la cupola michelangiolesca. Parte del bronzo fu fatta venire da Venezia, l'altra parte fu asportata dal Pantheon. Per colmare lo spazio sotto la cupola, problema di non facile soluzione, l'artista scelse le quattro altissime colonne che s'attorcigliano sul loro fusto, come giganteschi rampicanti, e che sono raccordate in alto da una incastellatura di volute a 'dorso di delfino'. Tali colonne tortili, con il peso del loro bronzo e il fulgore dell'oro, con i pilastri marmorei su cui poggiano, con il sontuoso cornicione coronato dal globo e dalla croce, ebbero il pregio di avviluppare di particolare bellezza l'altare pontificio e di rendere più suggestivo il sito della tomba dell'Apostolo, intorno alla quale, giorno e notte, ardono cento lampade. Le otto grandi fasce esterne delle basi di marmo sono stemmi papali, fregiati con il motivo araldico di casa Barberini. Ogni stemma porta alla sommità una minuscola figura delicatamente scolpita. Sette di queste propongono un viso di donna dall'intensa espressione di dolore, espressione che muta di stemma in stemma. Nonostante parecchi si siano arrovellati nel cercare una spiegazione plausibile, il marmo ha conservato il suo mistero. L'interpretazione più attendibile è quella che vede, in questi volti femminili, la donna al momento del travaglio del parto; e il fatto che l'ottavo stemma rappresenti un florido e sorridente puttino, la avvalora.

Ad Urbano toccò l'onore di inaugurare solennemente la basilica di san Pietro, finalmente completata fin dal 1612, nel 1626.

La morte, avvenuta dopo quasi ventuno anni di pontificato, colse papa Urbamo il 29 luglio 1644, accellerata, si disse, dal dispiacere per i risultati della guerra intrapresa contro il Duca di Parma. Le sue spoglie riposano in san Pietro, sotto il solenne mausoleo funebre, commissionato da lui personalmente al Bernini

Nel monumento le due figure allegoriche (Carità e Giustizia) sono in piedi: una nell'atto di volgersi verso un bambino che piange mentre ne tiene fra le braccia uno che dorme; l'altra pensosa. Entrambe inclinate verso il centro, determinano una spinta verso l'alto, dove il moto ascensionale culmina nella maestosa figura del pontefice con il braccio benedicente, con la veste e il mantello arabescato d'oro ampiamente panneggiati. Il monumento è dinamico, grazie alla varietà cromatica dei marmi e del bronzo, in una parola: fastoso; non poteva essere altrimenti: Urbano VIII è ricordato come il simbolo del fasto barocchesco che contraddistinse la sua epoca.
a succedergli fu INNOCENZO X .....


INNOCENZO X - Giovanni Battisti Pamphilj (1574-1655)
(Pontificato 1644-1655)
GIOVANNI BATTISTA PAMPHILJ nasce a Roma il 7 maggio 1574. Riceve una solida preparazione giuridica presso il Collegio Romano, dove consegue il dottorato in Utroque iure, e facendo lunga esperienza di affari politici in Curia, dove ricopre, tra il 1604 e il 1621, le cariche di avvocato concistoriale e uditore di Rota. E non solo a Roma: nel 1621 è nominato Nunzio Apostolico a Napoli e nel 1626 in Spagna; nel 1629 è elevato al cardinalato, ma era già stato nominato in pectore due anni prima, e nel 1639 riceve la carica di Prefetto di Concilio della Curia.

Il 29 luglio 1644 muore Urbano VIII; dopo un conclave di trentasette giorni, nonostante l'opposizione del cardinale MAZZARINO (1602-1661; italiano, poi naturalizzato francese, che l'anno prima era divenuto, quasi continuatore della linea politica del Richelieu, governatore indisturbato della Francia, poichè tutore del nuovo re, Luigi XIV, salito al trono a soli 5 anni) il 15 settembre 1644, all'età di settant'anni, il cardinale Pamphilj saliva al soglio pontificio con il nome di INNOCENZO X, in ossequio a Innocenzo VIII.

Alla sua incoronazione venne illuminata, per la prima volta, la cupola della basilica di san Pietro, mentre le varie delegazioni nazionali organizzarono a piazza Navona (presso il palazzo Pamphilj) spettacolari luminarie.
Appena eletto Innocenzo X chiamò al rendiconto i nipoti del suo predecessore, i cardinali Francesco e Taddeo Barberini, per malversazione di denaro pubblico. Quest'ultimo aveva ricevuto per assegno dalla Camera Apostolica 5.000.000 di scudi, 8.000.000 per titolo di somme prelevate sotto i benefici vacanti, 5.000.000 se n'era procurati sui titoli delle conquiste, condanne e multe e, infine, 2.000.000 dalla rendita degli uffici; senza contare i palazzi, le ville, le opere d'arte, gli oggetti d'oro e d'argento e i gioielli.
I Barberini fuggirono in Francia e trovarono colà un protettore nel potente cardinale Mazzarino, il quale, minacciando di far guerra a Roma, riuscì a far accantonare il processo e raggiungere, nel 1646, un compromesso con il governo francese che garantiva la restituzione ai fuggitivi.

Nel 1647 condannò il malgoverno di Napoli, dopo la rivoluzione locale, pur essendosi precedentemente mostrato favorevole alla Spagna.

Ma il pontificato di Innocenzo X è politicamente ricordato perchè si colloca sul finire della guerra detta dei Trent'anni, la quale si concluse con il trattato di Münster tra la Francia e l'Impero e quello di Osnabrück tra la Svezia e i protestanti da una parte e i cattolici e l'imperatore dall'altra (24 ottobre 1648). Tali trattati sono conosciuti con il nome di PACE DI WESTFALIA che riorganizzò l'Europa in materia di legislazione religiosa: la libertà di culto concessa alla confessione luterana (Augusta, 1555) venne estesa a tutte le confessioni; ogni principe era libero di abbracciare qualsiasi confessione mentre i sudditi erano tenuti a seguire la religione del principe ("cuius regio eius et religio"); i cattolici e i protestanti furono parificati di fronte alla legge, salvaguardando i principi della tolleranza e della libertà religiosa; venne approvata la possibilità di trasformare le istituzioni e i domini ecclesiastici in giurisdizioni civili (inizia così il lento processo di secolarizzazione degli stati moderni).

Il Cattolicesimo ne risentì fortemente, anche perchè le clausole di Westfalia avevano come immediata conseguenza per la Chiesa cattolica la perdita definitiva di tutti i vescovadi della Germania settentrionale e centrale, nonché di numerosi conventi e monasteri. Innocenzo non sedette al tavolo della trattative, il nunzio Fabio Chigi (futuro Alessandro VII) presente al Congresso protestò, ma inutilmente; il papa allora scrisse contro le convenzioni della pace di Westfalia la Bolla "Zelus domus Dei" (26 novembre 1648). La protesta della Santa Sede, seppur fondata, venne completamente ignorata dalle potenze e non ebbe alcun effetto, anche per via della decadenza politica e amministrativa a cui il papato 'barocco' non poteva più sottrarsi.

Nel 1649 si rinnovò la guerra di Castro a causa dell'assassinio di monsignor Cristoforo GIARDA per mandato di un ministro del duca Ranuccio FARNESE. Fu messo in marcia un esercito che, invaso il piccolo ducato, costrinse alla resa Castro, di cui nulla le truppe pontificie risparmiarono: la città fu rasa al suolo e il papa ordinò che fra le rovine venisse innalzata una colonna con l'epigrafe: "Qui fu Castro".
Con la pace di Ferrara si pose fine al conflitto e il ducato venne legittimamente restituito ai Farnese di Parma.

Innocenzo X dovette anche intervenire nella grave questione del Giansenismo: esortato da 88 vescovi francesi, dalla facoltà teologica di Parigi e da san Vincenzo de Paoli, istituì una commissione con il compito di esaminare cinque proposizioni tratte dal libro di Giansenio, l'Augustinus; egli stesso partecipò ad alcune sessioni. Il 31 maggio 1653, con la bolla "Cum occasione", le cinque proposizioni, ricavate dal dottore della Sorbona Niccolò Cornet, furono condannate come eretiche. Queste cinque proposizioni affermano:

1. Alcuni precetti di Dio sono impossibili da osservare, neppure dai giusti, per la mancanza della grazia necessaria;
2. Alla grazia interiore, nello stato di natura decaduta, l'uomo non può resistere;
3. Per acquistare merito o demerito non si richiede la libertà dalla necessità interna, ma soltanto la libertà dalla costrizione esterna;
4. I semipelagiani errarono insegnando che la volontà umana può resistere alla grazia o assecondarla;
5. È un errore semipelagiano affermare che Cristo è morto per tutti.

Ma sarebbe stato illusorio sperare che la decisione avesse stroncato la controversia. I giansenisti rispettarono sì la sentenza papale in modo da riconoscere come eretiche le proposizioni censurate, ma guidati da Antonio ARNAULD, negarono che le proposizioni riflettessero la vera dottrina di Giansenio. Oltre Arnauld, si schierarono a favore del giansenismo anche il filosofo e matematico BLAISE PASCAL (che nelle sue 'Lettres provinciales' mise alla gogna l'immoralità dilagante degli ambienti altolocati francesi, tracciando ad un tempo anche un'immagine-caricatura della casistica gesuitica; l'opera fu messa all'Indice nel 1657), Pierre G. Nicole, l'intero monastero femminile di Port-Royal.
Contro tale movimento prese posizione la Compagnia di Gesù. Gli agostiniani vennero a trovarsi tra due fuochi: venivano infatti in continuità accusati di collusione con le dottrine di Baio (decano dell'università di Lovanio, considerato precursore di Giansenio nella lettura di Sant'Agostino) e di Giansenio.

Innocenzo X fu il papa che indisse il XIV Giubileo con la bolla "Appropinquat dilectissimi filii" del 4 maggio 1649; fu lui stesso ad aprire la Porta Santa la vigilia di Natale. Egli provvide, come già era capitato per i giubilei precedenti, al blocco degli sfratti e degli affitti, e a sospendere tutte le altre indulgenze eccetto quella della Porziuncola. Fatto nuovo del Giubuleo del 1650 fu l'estensione dell'indulgenza giubilare alle province belghe e alle Indie occidentali con la Bolla "Salvator et Dominus" dell'8 e del 12 gennaio del 1654. Vennero a Roma circa 700.000 pellegrini, soprattutto dai territori vicino Roma; si convertirono al cattolicesimo anche diversi protestanti. A causa della grande affluenza di pellegrini il papa decise di ridurre il numero delle visite alle basiliche, e concesse l'indulgenza anche a chi aveva assistito alla chiusura di una delle Porte Sante alla vigilia di Natale del 1650 o fosse stato presente alla benedizione del papa impartita dalla Loggia della Basilica Vaticana nel giorno di Natale.

In questo periodo giubilare, la Spagna e la Francia, tra loro in conflitto, ne approfittarono per fare quasi a gara nel dimostrare la propria ricchezza nelle cerimonie. In particolare re Filippo IV mandò nel mese di gennaio due ambasciatori in Vaticano, uno in rappresentanza di sé, l'altro della moglie. Il primo si presentò accompagnato da un seguito di 300 carrozze, mentre l'altro si accontentò di sole 160. In più, non badò a spese perché le cerimonie organizzate nelle chiese e dalle confraternite spagnole superassero tutte le altre per magnificenza e splendore. Sono rimasti alla storia popolare del Giubileo del 1650 l'incidente avvenuto all'apertura della Porta Santa di santa Maria Maggiore e la processione del Crocifisso di san Marcello.

All'apertura della Porta Santa di santa Maria Maggiore, Francesco Maidalchini, nipote di Donna Olimpia (vedi sotto), ancora diciassettenne s'incaricò della funzione al posto del cardinale arciprete. Nel giubileo precedente una cassetta di oggetti preziosi veniva murata nella Porta Santa. Il giovane la prese e tentò di portarsela via ma ne venne energicamente impedito dai canonici di santa Maria Maggiore. Il Crocifisso miracoloso di San Marcello venne portato a San Pietro dalla Compagnia del Crocifisso, detta anche "dei disciplinati", la notte del Giovedi Santo. Lungo il percorso, mentre cinque cardinali, l'ambasciatore di Spagna, oltre cento flagellanti, cori musicali e la gente incedevano con lumi accesi, s'imbizzarrirono alcuni cavalli seminando tale panico che tutti fuggirono.
In visita alle quattro basiliche spesso si avevano anche scontri tra le varie confraternite venute da fuori Roma, a motivo della precedenza. Il Giubileo del 1650 raggiunse l'acme della sua manifestazione nella messa del giorno di Pasqua celebrata dal papa in Piazza Navona. In onore di questo Giubileo Alessandro Algardi scolpì l'altorilievo raffigurante il papa Leone Magno mentre ferma Attila e la statua bronzea di Innocenzo X in Campidoglio; il Bernini (in un primo tempo avversato dal pontefice) scolpì l'estasi di santa Teresa, e il Borromini provvide al restauro di san Giovanni in Laterano.
Furono, inoltre, avviati i lavori, commissionati al Bernini, per la costruzione del palazzo di Montecitorio, adibito a dimora papale. Il XIV Giubileo è considerato l'ultimo della Controriforma Cattolica. Tra gli illustri pellegrini ricordiamo la regina Cristina di Svezia.

Vanno ricordati, ad opera di papa Innocenzo, i suoi interventi nella questione dei riti cinesi (1645-1646) e i suoi incentivi alle missioni in Africa e Oriente.
Ma gli abbellimenti che papa Innocenzo apportò a piazza Navona sono fra i più splendidi e memorabili. La piazza, con la sua gioiosa esplosione di curve e con i capolavori di Bernini e Borromini rappresenta e sintetizza la Roma barocca.
Nel 1647 fece innalzare nella piazza un obelisco, ritrovato sulla via Appia nel Circo di Massenzio. Le iscrizioni in geroglifici, nelle quali appare il nome di Domiziano, provano che apparteneva, in origine, ad un altro monumento: si trovava, infatti, presso il Tempio di Iside. L'obelisco è in granito e alto m. 16,54; lo stemma araldico del papa e la colomba con il ramo d'olivo decorano la roccia piramidale e simboleggiano il potere divino che scende come raggio solare lungo i quattro angoli dell'obelisco fino alla roccia, che ricorda la materia informe, il caos.
Si noti la grotta scavata direttamente sotto le figure scolpite: un trucco dell'architettura manierista per dare l'impressione che il pesante obelisco si libri nell'aria.

L'obelisco fu solo la ciliegina sulla torta di un altro grande progetto: la Fontana dei Quattro Fiumi, ammirabile al centro della piazza. Fu nel 1650 che papa Pamphilj bandì una gara d'appalto per la sua edificazione, poichè egli aveva la sua residenza al Palazzo Pamphilj, nella medesima piazza, ora ambasciata del Brasile. Il progetto, in un primo momento, fu affidato al Borromini, ma il Bernini, allora in disgrazia presso il papa, o meglio, presso Donna Olimpia (vedi sotto), riuscì a riguadagnare il favore della potente donna e a soppiantare il rivale con uno stratagemma: fece pervenire ad Olimpia, e non al papa il quale probabilmente l'avrebbe rifiutato, un modellino d'argento della fontana con grotte, leoni, palme e sopra l'obelisco. Il pontefice, vedendo "per caso" il modellino, ne rimase entusiasta e trasmise l'ordine al Bernini. Secondo fonti dell'epoca, il modello piacque perché era fuso in argento e, soprattutto, perché fu lasciato in regalo all'avida Donna Olimpia.

Il Bernini creò un mondo meraviglioso di sculture gigantesche, che richiamano il diverso carattere di quelli che all'epoca erano considerati i quattro fiumi più importanti del mondo: il Nilo, il Danubio, il Gange e il Rio de la Plata; l'Australia era sconosciuta. La Fontana con i suoi scrosci d'acqua e i suoi giochi di luce ammirabili ancora oggi, fu inaugurata nel 1651 e fu pagata con i proventi di alcune tasse sul pane, sul vino e su analoghi generi di consumo, che attirarono sul papa improperi di ogni tipo; la somma fu ingente perchè furono chiamati diversi artisti prestigiosi, precisamente uno per ogni statua-fiume (l'autore del Gange è Claude Poussin). Il Nilo ha la testa coperta, dato che a quel tempo le sue sorgenti erano sconosciute; per il popolo, invece, esprimeva il disprezzo di Bernini per la vicina chiesa di santa Agnese in Agone, progettata dal suo rivale Borromini, mentre il braccio alzato, a protezione della testa, nella figura del Rio della Plata, esprimeva il timore ironico dell'artista che la chiesa potesse crollare. Secondo il popolo, Borromini replicò ponendo sulla chiesa la statua di santa Agnese che con la mano sul petto fa un gesto, come per dire: "Qui non casca niente!". Tali dicerie sono però destituite da ogni fondamento, perché Bernini completò la fontana prima che Borromini iniziasse la chiesa. Secondo l'iscrizione voluta da Innocenzo X, il monumento intende magnificamente offrire "salubre amenità a chi passeggia, bevanda a chi ha sete, esca a chi medita".

Nel 1653 Bernini, disegnatore infaticabile, aggiunse alla fontana progettata nel 1575 da Giacomo della Porta, un delfino che reggeva, sulla coda alzata, una lumaca; difatti la fontana fu chiamata "della Lumaca" finchè la figura, che non piaceva nè ai Pamphilj, nè al popolo, fu sostituita con il busto di un africano che accarezza un delfino: nasce la Fontana detta "del Moro". La terza fontana della piazza detta di Nettuno, situata sul lato nord, venne trasformata nel secolo XIX a imitazione di quella del Moro.
Era consuetudine di papa Innocenzo chiudere gli scarichi delle tre fontane, lasciando debordare l'acqua fino a coprire la parte centrale della piazza, che era concava. Nobili e poveracci vi si divertivano: i primi, attraversando la piazza a cavallo o in carrozza, i secondi sguazzandoci sopra oppure spingendo in acqua i carretti a mano. Il "lago di piazza Navona" divenne una consuetudine estiva e per quasi due secoli, il sabato e la domenica del mese di agosto, la piazza si allagava, finché, nel 1866, sotto Pio IX, il divertimento venne sospeso.

Completa la piazza la maestosa chiesa di santa Agnese in Agone, fondata nel luogo in cui, pare, nel 304 d.C., venne martirizzata la giovane Agnese, fanciulla tredicenne di una famiglia dell'aristocrazia romana convertitasi al Cristianesimo, rea di avere rifiutato il figlio del prefetto di Roma. Nel 1652 papa Innocenzo affidò a Girolamo Rainaldi e al figlio Carlo l'incarico di una cappella a glorificazione della propria famiglia; l'anno successivo sostituì ai Rainaldi il Borromini, il quale lavorò alla chiesa per quattro anni. Egli si attenne abbastanza al progetto dei Rainaldi, salvo che per la facciata concava: l'architetto, infatti demolì la parete frontale e progettò una facciata di complessa plasticità utilizzando un gioco sapiente di curve che s'increspano verso l'interno e verso l'esterno per movimentarla e dare maggiore risalto alla cupola. L'interno della chiesa si presenta, contrariamente allo stile sobrio borrominiano, di un fasto eccessivo. Questo perchè nel 1657 una commissione di architetti, tra cui il Bernini, si sostituirono nel lavoro al Borromini, ma non alterarono l'unità del capolavoro. Si limitarono, per l'appunto, a vivacizzare l'interno della chiesa con dorature, sculture e una profusione di marmi policromi dal colore caldo. Il Bernini, in seguito, commissionò ad altri gli affreschi della cupola (Ciro Ferri, 1670-90) e dei pennacchi (G.B. Gaulli detto Baciccia, 1662-72). In sintesi possiamo dire che la monumentalità della chiesa è caratteristica di Borromini, l'ornato che la contraddistingue del Bernini.

Durante il pontificato di papa Innocenzo X abbiamo assistito ad uno degli esempi più vergognosi di nepotismo, grazie a Donna OLIMPIA MAIDALCHINI detta 'Pimpaccia'. Bella, intelligente e molto scaltra, donna Olimpia aveva sposato un ricco concittadino (era nata a Viterbo nel 1592) ma era rimasta vedova dopo poco tempo. Allora si era risposata di nuovo con un marito migliore del primo, il nobile Pamphilio Pamphilj che aveva trent'anni più di lei, ma si sa, al cuor non si comanda! Nella nuova famiglia Donna Olimpia fece amicizia in particolare con il cognato, il cardinale Giovanni Battista; rimasta vedova per la seconda volta, donna Olimpia divenne il consigliere più ascoltata del cognato pontefice, quasi la sua ombra. Il papa si fidava solo di lei e tutti sapevano che prima di prendere decisioni importanti Innocenzo si consultava sempre con lei. E proprio per questo nel giro di pochi anni si rese la donna più temuta, e più odiata, di Roma. Tutti coloro che desideravano avere un contatto con il papa dovevano prima avere il suo appoggio; e spesso l'appoggio veniva concesso dietro regali e denaro. E questo fa nascere molti pettegolezzi: a corte si dice, infatti, che i due sono molto di più che cognati...

Ma da dove deriva il soprannome di Pimpaccia? Sicuramente da un 'pasquinata'! Infatti sul Pasquino apparvero queste parole "Olim pia, nunc impia": 'una volta religiosa, adesso empia'! Da qui il soprannome Pimpaccia. Ma forse la definizione più divertente di Donna Olimpia fu questa: "Fu un maschio vestito da donna per la città di Roma e una donna vestita da maschio per la Chiesa Romana".
Ovviamente la Pimpaccia pensò anche a sistemare il figlio Camillo, che fu prima nominato capo della flotta e delle forze dell'Ordine della Chiesa, e poi fatto cardinale, ma vi rinunziò perché volle sposare Olimpia Aldobrandini, giovane vedova del principe Borghese, benché venisse avversata dalla madre. Le invidie e le guerriglie tra le due Olimpie divennero il pane del pettegolo quotidiano delle famiglie nobili di Roma. Negli ultimi anni di vita del papa vendette benefici ecclesiastici per l'importo di 500.000 scudi. Fu esiliata dal successore di Innocenzo; morì nel 1657, lasciando in eredità 2.000.000 di scudi.

Le mediocri condizioni di salute portarono Innocenzo X alla tomba il 7 gennaio 1655. Donna Olimpia asportò dalla stanza di lui tutto ciò che trovò e nulla volle dare per la sepoltura. E così per l'avarizia dei parenti, il cadavere del pontefice dovette rimanere un giorno intero in una stanzaccia, esposto al pericolo d'essere rosicchiato dai topi, e solo grazie alla generosità del maggiordomo Scotti, che fece costruire una povera cassa, e del canonico Segni, che spese cinque scudi per la sepoltura, Innocenzo potè godere della pace del sepolcro nella chiesa, da lui commissionata, di sant'Agnese in piazza Navona, dalla quale, si dice, benedice chi non lo vede: difatti, la tomba è posizionata sopra l'ingresso, dalla parte interna, per cui ben pochi sono coloro che si voltano per ammirare il busto del pontefice.

Suggestivo il suo ritratto, realizzato dal celebre pittore spagnolo VELAZQUEZ durante il suo soggiorno romano tra il 1649 e il 1650. Traspare il suo aspetto ruvido, satirico e molto brutto e Velazquez non manca di cogliere queste sue caratteristiche, rimarcandole in un ritratto che ha una potenza espressiva notevolissima. Il quadro si regge su una serie di contrasti e di concordanze, che sono di mirabile invenzione. Innanzitutto è evidente il contrasto tonale tra il bianco e il rosso, che in varie sfumature domina in tutto il quadro. Solo due colori, ma che vengono così abilmente controllati nei rispettivi toni, da creare effetti visivi sorprendenti. Poi vi è il contrasto tra la sacralità della posa e del vestimento, e l'espressione decisamente poco ieratica del papa che sembra a stento trattenersi dal muoversi, quasi non sopportasse più di dovere stare fermo. Il ritratto appare così vivo e naturalistico, che divenne uno dei quadri più celebri di Roma e uno dei più ammirati anche dai visitatori stranieri. Tale la sua fama, che questo quadro è quasi divenuta un'icona dell'immagine papale, ed insieme un modello, per i pittori successivi, dell'arte del ritratto.
a succedergli fu ALESSANDRO VII......

ALESSANDRO VII - Fabio Chigi (1599-1667)
(Pontificato 1655-1667)

Durante il suo pontificato, l'opera più imponente e maestosa realizzata, resta il Colonnato di Piazza San Pietro,
progettato e costruito da Gianlorenzo Bernini dal 1656 al 1667.
FABIO nacque a Siena il 13 febbraio 1599, dalla ricca casata dei banchieri CHIGI. La sua nobile famiglia, nei primi decenni del '500, aveva avuto grande splendore non solo nella propria città, ma soprattutto a Roma dove Agostino Chigi detto il Magnifico, era divenuto il banchiere più ricco e potente, protetto da Giulio II della Rovere che aveva concesso ai Chigi di fregiarsi della quercia, emblema della sua famiglia. Ben presto era però subentrato un periodo di stasi, coevo alla caduta della Repubblica Senese, periodo in cui i destini della famiglia e della città di Siena sembrarono volgere al peggio, ma proprio intorno al momento della nascita di Fabio esse incominciarono a mostrare i primi segni di ripresa. Si riaprirono le Accademie, l'Università si riformò, le arti ripresero il loro corso sia sperimentando un linguaggio consono agli ideali della riforma cattolica, sia aprendosi alle novità della pittura naturalistica.

Fabio partecipa di questa cultura: consegue tre lauree all'Ateneo Senese, in utroque iure, in filosofia e in teologia, che evidenziano l'estensione del suo sapere che va dalla letteratura alla filosofia, dalla storia locale all'architettura. Gli studi vitruviani erano una tradizione illustre nella Siena cinquecentesca e Fabio, grazie anche alla biblioteca del prozio Agostino, poté formarsi quella cultura architettonica che fu alla base, dopo l'ascesa al soglio pontificio, del suo progetto di creazione della Roma moderna. Ma fu proprio dopo il trasferimento a Roma e il legame con le cerchie culturali barberiniane, favorito da amici senesi residenti nell'Urbe, tra i quali l'archiatra pontificio Giulio Mancini, a scuotere le sue conoscenze e la sua sensibilità artistica; frequentava infatti le Accademie dei Lincei, dei Virtuosi, degli Umoristi e personaggi quali Agostino Mascardi, Giovanni Ciampoli, Virginio Orsini. Scrittore attento dei fasti della propria famiglia in quei "Chisiae Familiae Commentarii" composti in latino e continuamente aggiornati, Fabio a Roma ripercorre i siti legati al suo antenato Agostino il Magnifico.

Mentre si andava amplificando la sua cultura umanistica, di pari passo incedeva anche la carriera ecclesiastica. Nel 1629 è nominato Vicelegato di Ferrara e Commissario regolatore dei confini con il Veneto, incarichi che conservò fino al 1634, quando, ordinato prete, giunse a Malta in qualità di Inquisitore e Visitatore Apostolico; nel 1635 è nominato vescovo di Nardò. Nel 1639 ha ricoperto la carica di Nunzio pontificio nella città di Colonia. Da qui passò a Münster dove iniziò un'opera di mediazione tra Spagna e Francia, appoggiato dall'ambasciatore veneto Alvise Contarini. In quanto partecipante ai Congressi di Münster e Osnabrück, ebbe parte importante negli avvenimenti politici internazionali che prepararono la pace di Westfalia, che concludeva la guerra dei Trent'anni, ma i cui protocolli si rifiutò di firmare, in quanto contrari agli interessi della Chiesa.

Nell'autunno del 1651 assunse la carica di Segretario di stato di Innocenzo X e il 19 febbraio 1652 è nominato cardinale con il titolo di Santa Maria del Popolo; nel maggio 1653 è nominato arcivescovo (con titolo personale) di Imola.
Nel conclave per eleggere il successore di Innocenzo X, cominciato il 17 gennaio 1655, inizialmente era prevalso il partito spagnolo, perché più numeroso ed attivo e composto da cardinali appartenenti a famiglie potenti, come quelle dei Medici, dei Colonna, dei Caraffa, dei Capponi, dei Trivulzio. La Francia aveva appoggiato le candidature dei cardinali Sacchetti e Rapaccioli, ma senza successo. Il 7 aprile 1655 il conclave elesse il cardinal Chigi che assunse il nome di ALESSANDRO VII.

L'attività politica durante il governo di papa Alessandro non fu di particolare rilievo. Durante il suo pontificato, precisamente nel 1662, alcuni incidenti avvenuti a Roma tra i soldati francesi e quelli corsi al servizio della Santa Sede, diedero pretesto all'ambasciatore francese CRÉQUY di infliggere una grossa umiliazione alla Sede Apostolica: nella relazione al suo governo egli rappresentò l'incidente come una ignobile violazione del diritto organizzata dai parenti del pontefice e dal cardinale Imperiale, governatore di Roma. Ne seguì che LUIGI XIV ordinò al Nunzio Pontificio di lasciare Parigi; il Créquy, in una circolare diramata al corpo diplomatico, chiese come primo compenso la degradazione del cardinale, l'estradizione del fratello del papa, don Mario Chigi, capitano delle armi, l'invio a Parigi di un Legato pontificio per fare le scuse alla corte francese, la condanna a morte di alcuni corsi, l'erezione di una colonna in memoria dell'accaduto e infine la restituzione di Castro ai Farnese e di Comacchio agli Estensi.

Invano il Pontefice deplorò il fatto, escluse la responsabilità del suo governo e si dichiarò pronto a dare una onorevole riparazione, invano vari principi italiani cercarono di acquietare il sovrano e di indurlo ad un aggiustamento; il Créquy non volle recedere alle sue richieste e Luigi XIV fece chiaramente comprendere che era pronto a farsi giustizia con le armi. Di fronte all'atteggiamento risoluto della Francia, al Pontefice non rimase che cedere e il 12 febbraio del 1664 firmò a Pisa la Pace omonima, un accordo che prevedeva queste condizioni: il cardinale Chigi sarebbe andato a Parigi a presentare le scuse del governo pontificio, don Mario avrebbe dichiarato di essere stato estraneo all'incidente, il cardinale Imperiale si sarebbe recato in Francia per presentare le sue giustificazioni, i parenti e i ministri del papa avrebbero ricevuto solennemente in Roma il duca e la duchessa di Créquy (e tutti coloro che ne avessero preso le difese sarebbero stati amnistiati), si sarebbe dovuto dichiarare pubblicamente l'incapacità dei Corsi di servire lo Stato della Chiesa e, a memoria del fatto, sarebbe stata eretta una piramide di fronte al loro Corpo di guardia.

Nel 1656 Alessando si espresse chiaramente contro il Giansenismo, rigettandone le cavillose scappatoie a cui i giansenisti si appellavano, dichiarando che le cinque proposizioni, già inquisite da Innocenzo X, erano state effettivamente tratte dall'"Augustinus" di Giansenio e venivano condannate nel senso espresso dell'autore. Questa presa di posizione non sortì gli effetti desiderati: molti si rifiutarono di sottoscrivere il formulario di sottomissione prescritto nel 1657 dall'assemblea generale del clero francese e più tardi (1664) dallo stesso papa Alessando, sebbene re Luigi, che per motivi politici dal 1660 avversava il Giansenismo, minacciasse con la privazione dei benefici ecclesiastici quanti rifiutavano la sottoscrizione. Le monache di Port-Royal, il monastero centro di irradiazione giansenista, furono colpite da censura e l'arcivescovo di Parigi nel 1664 lanciò sul monastero l'interdetto. La calma arrivò solo con il successore di papa Alessandro.

Oltre che il Giansenismo, nel 1665 condannò il Lassismo (45 proposizioni) esasperazione del Probabilismo teologico 'gesuitico', contro il quale si espresse diverse volte, per bocca di una commissione di teologi domenicani da egli stesso costituita.
Nel 1656 permise alcuni riti cinesi, come costumi civili. Fece trasferire il ricco Orto Botanico, avviato nel 1278 da Nicolò III, sito in Vaticano, presso l'Orto dei Frati Minori, che si trovava dietro il convento di San Pietro in Montecitorio. Introdusse, lui e non la Francia come erroneamente si riteneva, la tassa sul tabacco: il monopolio fu affidato ai farmacisti, poichè inizialmente esso veniva usato a scopo curativo. Ben presto dall'uso si passò all'abuso: i medici si scagliarono contro il suo consumo denunciando i danni che poteva arrecare all'organismo. Per questo motivo egli stesso condannò quelli che aspiravano il tabacco in chiesa. Solo con papa Benedetto XIV, accanito fumatore, la tassa sul tabacco, quindi il monopolio, venne abolita: da quel momento chiunque avrebbe potuto coltivarlo e venderlo anche al di fuori dello Stato Pontificio senza pagare nessuna tassa.

Grazie alle sue sagge disposizioni riuscì ad arginare il contagio di peste (e di conseguenza il numero dei morti) diffusasi durante il suo pontificato; epidemia che mietè molte vittime nelle regioni centro-meridionali.
Nel 1655 accolse solennemente a Roma la regina Cristina di Svezia, convertitasi al Cattolicesimo e che proprio da Alessandro VII ricevette il sacramento della Cresima; per l'occasione fece rimordernare da Gian Lorenzo Bernini la Chiesa di santa Maria del Popolo con l'omonima porta (internamente; esternamente era stata già sistemata da Nanni di Baccio Bigio, forse su disegno di Michelangelo).
Ed è principalmente per la sua vasta opera di mecenate delle scienze e delle arti che papa Alessandro VII è oggi principalmente ricordato e apprezzato. Egli si impegnò, effondendo infaticabili energie, nella ricostruzione e nell’abbellimento della città, che ornò di magnifici monumenti, affichè la Roma papale diventasse "caput orbis", l'erede cristiana della Roma imperiale.

I suoi interessi culturali lo portarono ad essere uno dei più sensibili e attenti sostenitori dei protagonisti della grande stagione del Barocco romano come GIANLORENZO BERNINI e PIETRO DA CORTONA; mentre, durante il suo periodo, il Borromini perdeva sempre più considerazione. A ben ragione papa Alessandro si è meritato l'appellativo di 'ridisegnatore' della città eterna: opere come la Scala Regia in Vaticano (che dalla Porta bronzea sale al Palazzo apostolico), le Chiese gemelle di piazza del Popolo, il Corso, santa Maria della Pace, santa Maria dei Miracoli, la facciata del palazzo (ora detto Odescalchi) di piazza Santi Apostoli, piazza della Minerva, piazza del Pantheon, l'emblema bronzeo dell'Obelisco di piazza san Pietro, le Fontane di piazza san Pietro (la fontana di destra, guardando la facciata, esisteva fin dai tempi di Innocenzo VIII; papa Paolo V, in occasione dei lavori di canalizzazione dell'acqua, diede incarico all'architetto Carlo Maderno per il completo rifacimento; la fontana di sinistra fu realizzata dal Bernini rispettando rigorosamente il modello del Maderno; entrambe le fontane sono in asse con l'obelisco) restano veramente immortali nel tempo. Simpatico l'aneddoto che si racconta su Cristina di Svezia, la quale, durante la sua visita a Roma, vide in funzione la prima fontana. Sbalordita da tutto l'insieme, Cristina osservò a lungo, soprattutto i meravigliosi getti d'acqua. Poi sorrise agli accompagnatori pontifici e disse: "Bello, bellissimo grazie! Ma adesso potete spegnerla". Ci volle molta fatica per convincerla che i "giochi d'acqua" non erano proprio in suo onore e che funzionavano sempre, cosa, questa, che stupì molti altri diplomatici e viaggiatori illustri!!! All'epoca le due fontane consumavano circa sei milioni di litri al giorno, oggi sono munite di un dispositivo che permette il riciclo dell'acqua.

Ma l'opera più imponente e maestosa resta il COLONNATO DI PIAZZA SAN PIETRO, progettato e costruito dal Bernini dal 1656 al 1667, come due braccia che "accolgono i cattolici per confermarli nella fede, gli eretici per riunirli alla Chiesa, gli infedeli per illuminarli". Immaginato come un grande abbraccio della piazza ellittica, il Colonnato è costituito da imponenti porticati a quadruplice file di colonne doriche, delimitanti tre corsie, di cui la mediana è la più larga: 284 colonne, 88 pilastri per 240 metri di larghezza. La trabeazione è coronata da 140 statue di santi e da grandi stemmi di Alessandro VII. Per rendere più efficace la sua idea Bernini edificò il Colonnato in modo da ottenere effetti ottici. Camminandovi al fianco pare che sia in movimento; guardandolo dal centro dalla piazza, nel punto indicato da una pietra circolare nei pressi dell'obelisco, il colonnato sembra composto di una sola fila di colonne.

Non si può tuttavia affermare, come invece qualche storico ha ammesso, che il prevalente interesse di Alessandro VII nei confronti dell'architettura e della scultura, relegasse in secondo piano la pittura. Pietro da Cortona, il Maratta, il giovane Gaulli, il Mola, Raffaello e Michelangelo Vanni, Bernardino Mei sono i protagonisti di una stagione pittorica sviluppatasi intorno a papa Chigi che incomincia ad assumere, grazie alla ricerca storico-artistica di questi ultimi anni, contorni più precisi. Pregiate e notevoli in questo periodo sono pure le variegate decorazioni, che uscivano dalle mani di artigiani illustri quali l'Andreoli, e le preziose argenterie che fiorivano in forme tali da portare agli apogei più solenni ogni aspetto della cultura della corte e che si avvalevano del disegno e del modellato dei principali scultori tra i quali il (sempre presente) Bernini e il Ferrata.

Inoltre grande impulso infuse alla vita culturale e accademica del tempo, procedendo nella costruzione della sede dell'Università romana e favorendo gli studi letterari e scientifici. Nel 1658, Carlo Cartari, romano erudito e uomo di legge, membro sostituito del collegio degli Avvocati Concistoriali, insieme a Carlo Emanuele Vizzani, rettore dello "Studium", suggerirono al pontefice il completamento della seconda ala del palazzo della Sapienza e l'istituzione di una Biblioteca al servizio dell'Università. Alessandro VII si convinse immediatamente ed assegnò per i lavori una somma iniziale di 200.000 scudi. Si preoccupò indi di reperire fondi librari di carattere generale, che fossero di supporto alle discipline insegnate alla "Sapienza": a tale scopo acquistò la Biblioteca dei Duchi di Urbino.

Non dimenticò la sua terra di origine: Siena. I luoghi chigiani in terra senese sono particolarmente pregiati; ricordiamo: la berniniana Cappella della Madonna del Voto nella Cattedrale, il palazzo Chigi Zondadari (ancora oggi proprietà dei discendenti), la peruzziana Villa Chigi a Vico Bello, la Villa di Cetinale, il Palazzo Chigi a San Quirico d'Orcia con il monumentale giardino noto come Horti Leonini.
É innegabile, tuttavia, che il trionfo del mecenatismo chigiano, impregnato di barocco, avvenga in un periodo in cui il papato deve far fronte a crisi demografiche, ad un crescente indebitamento e a una forte crisi economica. Sono queste le ombre di un papato che aveva voluto agli inizi rompere con la tradizione nepotistica della curia romana e che aveva poi richiamato da Siena la sua famiglia per farla partecipare alla costruzione della nuova Roma e alla acquisizione dei feudi della campagna romana.
Tre anni prima dell'apertura al pubblico della "sua" Biblioteca (quella dell'Università), Alessandro VII si spense, il 22 maggio 1667. La sua tomba in san Pietro è opera del Bernini, specchio di quello stesso Barocco che in vita si era prodigato a diffondere. Nello stesso anno Francesco Borromini, l'antagonista per eccellenza del Bernini, moriva suicida.
a succedere ad Alessandro VII, fu CLEMENTE IX .....

CLEMENTE IX - Giulio Rospigliosi (1600-1669)
(Pontificato 1667-1669)

Nel trattare la biografia di papa Rospigliosi c'è una piccola premessa da fare. Clemente IX non è stato un papa che ha lasciato il segno. Non avrebbe potuto esserlo, dal momento che il suo pontificato, compromesso, fra l'altro, dai disagi di una salute sempre più cagionevole e precaria, è durato poco più di due anni. L'attenzione dei moderni va piuttosto alla sua vicenda di curiale di primo merito durante i pontificati dei suoi predecessori e in particolar modo alla sua vivissima presenza in una fase cruciale della cultura della Roma barocca. Di quella stagione Giulio Rospigliosi è stato uno degli attori più brillanti per quasi un trentennio. Benché la sua opera sia rimasta quasi interamente inedita fino a qualche anno fa, quando è stato celebrato il 400esimo anniversario della nascita, non vi è dubbio che in Giulio Rospigliosi sia da riconoscere in assoluto uno dei migliori librettisti italiani e il protagonista principale dei fasti del melodramma romano del Seicento, avendo contribuito in modo decisivo a determinarne i gusti e gli orientamenti.

La trentennale attività del teatro di palazzo Barberini, fra i più fastosi d'Europa, è dominata quasi per intero dalla personalità del Rospigliosi, che non è soltanto l'autore dei testi di molteplici rappresentazioni (sacre e profane), quasi tutte in scena, ma sicuramente anche l'operatore che è stato la chiave di volta di tutto l'edificio teatrale barberiniano.

GIULIO nasce il 27 gennaio 1600 da Girolamo e da Maria Caterina ROSPIGLIOSI a Pistoia, dove ricevette i primi rudimenti scolastici e, non ancora adolescente, la tonsura e gli ordini minori dalle mani del vescovo Alessandro Del Caccia. Il 16 marzo 1614 partì per Roma, per studiare al Collegio Romano. È questa una svolta decisiva nella vicenda della sua vita e della sua formazione culturale. Alla scuola di Tarquinio Galluzzi, Famiano Strada, Bernardino Castelli, i padri del classicismo secentesco, si forgiò il latinista destinato a dettare le eleganti missive della Cancelleria romana; e sul vivo esempio di Bernardino Stefonio (e forse su una concreta esperienza di recitazione negli spettacoli edificanti che i Gesuiti mettevano in scena con la partecipazione attiva dei seminaristi) il futuro scrittore imparò le regole di un teatro alleato della religione.

Al confronto il successivo soggiorno all'università di Pisa, dove Giulio si trasferì nel 1618 (o forse nel 1619) per compiere gli studi di teologia, di filosofia e di diritto, appare quasi una parentesi marginale, un necessario adempimento tecnico, se non proprio formale. Il suo destino era a Roma, dove egli traslocò di nuovo, appena conseguito il dottorato in utroque iure (1624).
Qui entrò al servizio del cardinale ANTONIO BARBERINI il vecchio (1569-1646), fratello del neoletto papa Urbano VIII. Ma i rapporti di Giulio con il nobile ceppo subito si estesero a tutti i suoi membri, non escluso lo stesso pontefice (che pare non esitasse ad avvalersi dell'opera del giovane letterato nella riscrittura degli inni liturgici che in prima persona si era assunto), e con particolare cordialità compresero i nipoti del papa: i cardinali FRANCESCO (che accompagnò in vari viaggi in Francia e Spagna) e ANTONIO il giovane, e TADDEO, capitano della Chiesa, prefetto di Roma e principe di Palestrina. Ed è anche questo uno snodo decisivo nella vita di Giulio.

Se alla scuola dei Gesuiti era nato l'uomo di lettere e di dottrina, alla scuola dei Barberini si forgiò l'abilissimo curiale, smaliziato in tutti i segreti della vita di corte e nello stesso tempo avvezzo a trattare fin da principio i più gravi e complessi maneggi della politica europea. Ma alla scuola dei Barberini si compiva anche l'uomo di gusto, l'amante delle belle arti, che anzitutto in se stesso raffinava quello stile di gentilezza e di urbanità, quella politesse che i suoi signori non sempre seppero serbare.
La cultura di ispirazione barberiniana diede vita a una scuola, per così dire, moderato-barocca e che, sul fondamento di un solido classicismo e sulla premessa di una certificata devozione, si proponeva una scrittura di alti sensi morali e di nobili intenti educativi, rifuggendo dalle esasperazioni concettuali e dal ribellismo alla moda, senza disdegnare e senza esagerare la seduzione della "meraviglia".

Al dibattito Giulio Rospigliosi diede un suo modesto contributo con un 'Discorso' stampato in appendice all'Elettione di Urbano VIII e di Francesco Bracciolini (1628). Ma il principale suo impegno fu profuso al melodramma romano, un prodotto per natura effimero e probabilmente irripetibile al di fuori del suo prezioso involucro costituito dalle mura del palazzo Barberini, un prodotto che conobbe breve e splendida stagione della quale Giulio Rospigliosi fu protagonista indiscusso.

Non era ancora agibile il nuovo grandioso palazzo alle Quattro Fontane sul Quirinale quando i Barberini inaugurarono la loro stagione operistica mettendo in scena l'8 marzo 1631 nel più modesto palazzo ai Giubbonari il SANT'ALESSIO, libretto di Giulio Rospigliosi, musica di Stefano Landi. La vicenda di Alessio, nobile romano che, di ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta, rinuncia ai privilegi della sua condizione sociale e al conforto stesso degli affetti familiari e si riduce, irriconoscibile pezzente, a vivere, deriso ed oltraggiato, sotto le scale della sua ricca abitazione, insegnava il disprezzo del mondo e degli effimeri e periclitanti beni terreni, per affermare nella solitudine, se necessario, il valore supremo della fede, dello spirito, dell'umiltà, della penitenza.

Al Sant'Alessio non compete il primato nella storia del melodramma di argomento sacro: eventi spettacolari anteriori al 1631 si erano avuti a Firenze, Mantova e nella stessa Roma; ma il suo successo strepitoso, favorito dalla cassa di risonanza della scena dei Barberini, ne fece un archetipo esemplare, consacrato dalle repliche che si tennero negli anni successivi. Ormai il melodramma ha conquistato il primo posto nelle rappresentazioni di gala romane. D'altronde, questa raggiunta dignità di nobile "rappresentanza" venne immediatamente confermata dalla lussuosa stampa della partitura (che doveva divulgare fuor di Roma i fasti del teatro Barberini), impreziosita da una serie di incisioni che riproducono le scene. Il nome del librettista non compare, nè mai sarà menzionato nelle designazioni ufficiali (anche se tutti a Roma ne conoscevano la paternità), certamente per un nobile scrupolo dell'autore, oltre che per ovvie ragioni di convenienza.

Nel 1633 si mette in scena ERMINIA SUL GIORDANO, primo melodramma profano del Rospigliosi, che attinge la storia a uno dei grandi serbatoi narrativi della letteratura italiana, la Gerusalemme liberata. Ne scaturisce una sorta di favola pastorale che dopo qualche sentimentale peripezia corona l'amore di Erminia per Tancredi, regalando allo spettatore il lieto fine vanamente atteso nella Liberata; domina il tono una malinconica grazia madrigalesca.
Il 1635, invece, è l'anno del secondo dramma sacro, I SANTI DIDIMO E TEODORA. Se il Sant'Alessio predicava l'umiltà e la rinuncia, il nuovo dramma esaltava l'eroismo per la fede. I due protagonisti si levano subito, 'campioni' di Cristo, a sfidare impavidi la rabbia dei persecutori, contendendosi in nobile gara il primato della 'testimonianza', la palma del martirio.

Il 1637 e ancor più il 1639 sono date memorabili nella storia della musica per la prima rappresentazione e la replica (in una redazione felicemente ampliata) di quella che è considerata la prima commedia musicale: l'EGISTO (o CHI SOFFRE SPERI), in assoluto uno dei più alti risultati della poesia per musica italiana. Anche in questo caso il Rospigliosi si affidava a un collaudato modello narrativo: la celebre novella boccacciana di Federigo degli Alberighi (Decameron V 9), intricata e contaminata, peraltro, di vicende minori parallele o intersecanti, fino allo scoppio finale di un vero e proprio spettacolo pirotecnico che tutto risolve e dissolve.

La novità più clamorosa era l'innesto di alcune maschere (Zanni e Coviello con i figli Frittellino e Colello) che portano sulle aristocratiche scene di un teatro di palazzo il saporoso dialetto e le burattinesche movenze della commedia dell'arte e traducono il motivo della signorile e generosa povertà del protagonista nell'eterna commedia della fame e del bisogno. Nel 1638, nell'intervallo fra le due redazioni dell'Egisto, era andato in scena il SAN BONIFAZIO; nel '41,'42 e '43 fu la volta della GENOINDA, de IL PALAZZO INCANTATO, del SANT'EUSTACHIO.
Seguì un lungo periodo di silenzio. Frattanto, infatti, avanzò nella sua carriera ecclesiastica. Già Segretario dei Brevi ai principi fina dal 1635, nel 1644 veniva consacrato vescovo di Tarso e nominato Nunzio Apostolico in Spagna. Poco dopo spirava Urbano VIII (Maffeo Barberini): era la fine di un'epoca. I Barberini, messi sotto accusa dal nuovo pontefice Innocenzo X per le loro malversazioni, ripararono in Francia, sotto la protezione del cardinale Mazzarino. Il teatro del palazzo alle Quattro Fontane restò chiuso per due lustri. Essendo amico e protetto dei Barberini, monsignor Rospigliosi non fu mai gradito dal nuovo pontefice.

Gli anni trascorsi in Spagna come Nunzio non sembrano segnati da eventi memorabili. I rapporti fra quella che restava una delle più potenti monarchie d'Europa e la Santa Sede erano tesi e difficili dopo anni di controversie giurisdizionali e di divergenze politiche. In questo spinoso contesto il Rospigliosi svolse un'attenta opera di mediazione, senza risultati appariscenti ma non per questo meno abile e tenace, tesa in primo luogo ad assecondare la grande offensiva diplomatica di Roma che mirava a ristabilire la pace fra gli stati cristiani e a creare un fronte comune contro la minaccia degli infedeli nei Balcani e nel Mediterraneo. La sua solerzia e la sua urbanità gli attirarono la stima e la fiducia del re Filippo IV. Ma nel soggiorno madrileno, più delle fatiche della diplomazia, fu rilevante l'incontro con il grande teatro spagnolo del 'siglo de oro'. Purtroppo la documentazione finora messa in luce è ben lontana dal rischiarare nel dettaglio le modalità di questo incontro, ma sta di fatto, che dopo la nunziatura, durata quasi 10 anni, la librettistica rospigliosiana subì una svolta così radicale che non si può che postulare una fervida osmosi.

Richiamato nel 1652 e rientrato a Roma nell'estate del 1653, meditò seriamente di ritirarsi a Pistoia a vita privata. Salvò una carriera che sembrava compromessa l'avvento al pontificato di Alessandro VII (1655) che lo chiamò alla Segreteria di Stato e che, alla prima creazione di cardinali (1657), lo elevò alla porpora. Assolvendo gli uffici della sua nuova carica con l'acume e la solerzia di sempre e guadagnandosi il favore della curia e della Francia (oltre a quello già incamerato della Spagna) la strada all'ultimo e supremo avanzamento era spianata.

Nel frattempo era ripresa la frequentazione assidua delle lettere e delle arti; e certo adesso si può parlare di un mecenatismo e di un collezionismo praticato in grande stile, sostenuto da adeguati mezzi finanziari. Nel 1654, amnistiati e rimpatriati i Barberini e riaperto il teatro del palazzo alle Quattro Fontane, DAL MALE IL BENE inaugura subito il ciclo "spagnolo". È uno spettacolo radicalmente innovativo rispetto all'età di Urbano VIII, quello che adesso va in scena. Si mette da parte il gusto mirabolante delle fastose scenografie e delle macchine ingegnose, si riducono gli organici, si compatta l'azione, si privilegia la coerenza sulla varietà. La 'fonte' spagnola (Los empeños de un acaso di Calderón) suggerisce una concezione più moderna e funzionale della commedia, incentrata sui caratteri e sugli intrecci. In questo modo il teatro Barberini conobbe un'autentica esplosione in coincidenza con il cosiddetto "Carnevale della Regina", cioè con i trionfali festeggiamenti che si tennero durante il carnevale del 1656 per onorare Cristina di Svezia, che l'anno prima aveva abdicato al trono e si era convertita al cattolicesimo.

Il ruolo di punta toccò ancora al Rospigliosi, che vide rappresentati ben tre dei suoi melodrammi: di nuovo Dal male il bene e, per la prima volta, LA VITA UMANA, una macchinosa allegoria, fortemente ideologizzata, nella quale si legge in filigrana il valore emblematico che la chiesa di Roma voleva attribuire alla conversione di Cristina, e LE ARMI E GLI AMORI. Dopo il 1656 gli impegni sempre più gravosi in curia, non assistiti da una florida salute, gli fecero mettere da parte l'attività teatrale; cosicchè anche il teatro Barberini avvizzì.
Alla morte di Alessandro VII un rapido ma diviso conclave elesse il 20 giugno 1667, grazie anche al favore della Francia, il cardinale Rospigliosi che assunse il nome di CLEMENTE IX, con l'insegna di un pellicano e il motto "aliis non sibi clemens", "clemente con gli altri ma non con se stesso", come recitava una sua medaglia.

Il promettente ma troppo breve pontificato di Clemente IX non segnò in modo significativo la storia della Chiesa. Gli atti di governo politico ed ecclesiastico confermarono, come il papa medesimo volle più volte che si ritenesse, gli orientamenti già delineati dal suo predecessore.

A livello di politica internazionale la questione che maggiormente assorbì le sue preoccupazioni fu la difesa dell'isola di Candia, ultimo possedimento veneziano nel Mediterraneo orientale, la cui piazzaforte era assediata dalle armate turche. Fin dal 1663 il Gran Visir Coprili, che aveva riorganizzato l'Impero Ottomano, aveva lanciato contro l'Occidente un esercito di 120.000 uomini e in ondate successive aveva spazzato la Moravia e la Slesia e aveva deportato 80.000 cristiani per venderli come schiavi sui mercati di Costantinopoli; mentre Venezia già si prodigava per la difesa dell'isola. Il papa inviò loro aiuti cospicui di galee, di uomini e denaro e fece di tutto per indurre Spagna e Francia a fare altrettanto e perciò si adoperò per comporre la Guerra di Devoluzione, nata alla morte nel 1665 del Re di Spagna Filippo IV perché Luigi XIV rivendicava parte del Regno per la moglie Maria Teresa, figlia di primo letto di Filippo IV, in concorrenza con Carlo II suo figlio di secondo letto, riuscendo a concludere la pace di Aquisgrana del 2 Maggio 1668 per la quale Marianna d'Austria, madre Reggente del settenne Carlo II, dovette cedere a Luigi XIV parte delle Fiandre. Luigi XIV in aiuto dei Veneziani inviò una flotta e un esercito ma con poca decisione per non turbare le relazioni amichevoli con i Turchi e la Spagna pure nicchiò diffidando dell'avversario francese. Le spedizioni militari inviate, nel 1668 e 1669 sotto il comando del nipote Vincenzo Rospigliosi, non ebbero esito felice. L'eroica resistenza veneziana fu costretta alla capitolazione: Candia, ridotta a un cumulo di macerie, cadde in mano nemica il 6 settembre 1669.

Più efficace fu il suo intervento nella controversia giansenista. Infatti l'adesione di una parte considerevole del clero francese e belga, a dispetto delle sempre più circostanziate condanne emanate da Urbano VIII, Innocenzo X e Alessandro VII, non metteva apertamente in discussione l'autorità della cattedra di Pietro, ma si riparava sotto lo schermo di cavillazioni causidiche nelle quali era maestro soprattutto Antoine Arnauld e che, salvando la forma, mantenevano nella sostanza le ragioni del dissenso. La conciliazione voluta da Clemente IX e formalizzata in un Breve del 2 febbraio 1669, detta in seguito PACE CLEMENTINA, contribuì alla riconciliazione delle parti e alla pacificazione generale, ma fu oscurata dall'atteggiamento ambiguo dei giansenisti, che sottoscrissero le dichiarazioni di fede volute da Roma, ma nello stesso tempo confermarono tutte le loro riserve in un protocollo segreto, ammantato sotto la formula del "silenzio ossequioso". La benedizione papale, salutata come una vittoria della diplomazia francese, fu accolta in Francia con autentico giubilo; ma il giansenismo continuò a vigoreggiare e ad espandersi, disseminando cellule anche in Italia. Il comportamento del papa fu interpretato, invece, nelle corti europee con molto scetticismo, come un segno di debolezza e di cedimento.

La sua mitezza e generosità si apprezzarono anche in altri settori. Uomo di profonda devozione, fece porre un confessionale in San Pietro e ogni giorno vi ascoltava le confessioni; tutti i giorni ospitava a tavola tredici poveri che serviva talvolta lui stesso; spesso visitava gli ammalati dell'Ospedale di san Giovanni. Dispose provvedimenti economici e fiscali a favore dei consumi popolari, del commercio, delle manifatture; abolì la tassa del macinato, favorì l'industria della lana e permise la libera circolazione dei grani. Emanò documenti che riordinavano la disciplina ecclesiastica, soprattutto riguardo al comportamento del clero regolare e dei missionari.
Nel 1669 istituì una Congregazione cui spettava il compito di regolamentare le Indulgenze, compito che nel 1908 passò al sant'Ufficio, e nel 1918 alla Penitenzieria Apostolica.

Non immune dal nepotismo nominò cardinale il nipote Giacomo, fece Castellano un altro nipote, Tommaso, e fece Generale dell'esercito papale il fratello Camillo, ma assegnò loro delle rendite veramente modeste.
Nella notte fra il 25 e il 26 ottobre Clemente subì un attacco apoplettico, dal quale sembrò riprendersi rapidamente; ma nella notte fra il 28 e il 29 novembre l'attacco si ripetè; il 9 dicembre sopravvenne la morte, dopo solo due anni e mezzo di pontificato.

Nel carnevale precedente era stato rappresentato per l'ultima volta un suo melodramma: LA BALDASSARA (o LA COMICA DEL CIELO). Anche la Baldassara era derivata da una "fonte" spagnola, ispirata a un autentico fatto di cronaca: la clamorosa conversione di un'attrice di successo, una donna perduta, a vita di devozione e penitenza. Anche qui assistiamo al percorso così caro al Rospigliosi, al cammino della santità: la scelta irremovibile del chiamato da Dio, la dissuasione da parte delle persone care, le tentazioni dell'"avversario" e le seduzioni dell'"abisso", l'apoteosi finale con parole paradisiache. Significativo il congedo che appare siglato da un'epigrafe assai suggestiva:
Del Paradiso ecco i teatri aperti:
Venga da’ suoi deserti,
Dall’orrore e dal gelo
A trionfar la Comica del Cielo!
a succedere a Clemente IX fu CLEMENTE X .....


CLEMENTE X, Emilio Bonaventura Altieri, romano  (1590-1676)
( Pontificato 1670-1676 )

EMILIO Bonaventura ALTIERI nasce a Roma il 12 luglio 1590, discendente di un'antica famiglia romana. Viene educato presso il Collegio Romano dove consegue il dottorato in giurisprudenza. Nel 1623 è nominato Uditore della Nunziatura in Polonia, dove vi trascorrerà qualche anno, e nel 1624 è ordinato prete. In seguito alla rinuncia del fratello Giovanni Battista, il 26 novembre del 1627 è nominato vescovo di Camerino, incarico che ricopre fino al 1666. In seguito fu nominato Nunzio Apostolico a Napoli e in Polonia. Ritornato a Roma nel 1654, nel 1657 è nominato da Alessandro VII Segretario della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari; nel novembre 1669 Clemente IX lo crea cardinale.

Poche settimane dopo, nel mese di dicembre, alla morte del pontefice si apre un nuovo conclave. Più di quattro mesi furono necessari per trovare il successore, perché i veti imposti dalla Francia e dalla Spagna resero vani i tentativi di accordo, ma alla fine la scelta cadde sul cardinale Altieri che, alla veneranda età di 80 anni, è eletto il 29 aprile 1670. Forse è per significare la continuità dell'operato con il suo predecessore che sceglie di chiamarsi CLEMENTE X.

Consapevole della sua età, in un periodo di frattura tra i porporati francesi (card. Brancaccio) e quelli spagnoli (card. d'Elce), Clemente X lasciò il governo della Chiesa nelle mani del Cardinale PALUZZO PALUZZI degli ALBERTONI (1623-1698), suo nipote acquisito, al quale trasmise il cognome e i beni familiari, e a Gaspare Albertoni, marito della pronipote. Ma la scelta si rivelò infelice: non solo il Cardinale assunse il pieno controllo degli affari, ma non esitò ad abusare del proprio potere. Pasquino si chiedeva, sarcastico: "Qual di loro fosse papa io non so bene: ché il primo ebbe il potere e l'altro il nome. Lui c'è per benedire e santificare e quell'altro per reggere e governare".

Durante il suo pontificato cercò di pacificare i rapporti tra Francia e Spagna; intervenne nella guerra tra Francia e Olanda, tentando in ogni modo di favorire i negoziati di pace, ma le dure reazioni di Luigi XIV portarono ad un ulteriore aggravamento delle tensioni giurisdizionali tra la Santa Sede e la Corte. Altro motivo di preoccupazione gli fu dato dalla Polonia, dove le discordie interne avevano favorito Maometto IV che ne aveva approfittato per impadronirsi di alcune fortezze. Con l'appoggio del Cardinale Odescalchi (il futuro Innocenzo XI), Clemente X aiutò finanziariamente Giovanni Sobieski, che riuscì a riportare sui musulmani diverse vittorie.

Clemente X fu anche il papa che indisse, con la bolla "Ad apostolicae vocis oraculum" del 16 aprile 1674, il Giubileo del 1675 (ma ne aveva già indetti in precedenza altri due straordinari). Alla cerimonia d'apertura dell'Anno Santo fu inaugurato il tabernacolo di bronzo della Basilica di san Pietro, i cui lavori erano iniziati nel 1672 ad opera del Bernini. I romani, generosamente, per favorire le varie iniziative in aiuto ai pellegrini, si prodigarono per raccogliere indumenti, viveri e denaro e in particolare fornirono per la prima volta coperte di lana alle Confraternite e agli Ospizi. La mattina di Pasqua dell'anno giubilare in Piazza Navona si svolse una solenne cerimonia alla quale partecipò anche la regina Cristina di Svezia: ai lati della fontana vennero elevati due enormi macchine a forma di mausoleo, sulle quali troneggiavano le statue del Cristo Redentore e della Vergine Maria.

Inoltre, secondo un progetto commissionato dal Papa Alessandro VII al Bernini, in occasione di questo Giubileo, Clemente X inaugurò piazza San Pietro.

(qui in un' incisione del Piranesi di qualche anno dopo)

Così molti viaggiatori giunsero a Roma non solo per assistere al Giubileo, ma anche per visitare i monumenti restaurati per questo evento. É rimasto nelle cronache dell'epoca la cena offerta dal papa a circa 10.000 pellegrini la sera del Giovedì Santo di quel Giubileo.

Durante questo Anno Santo il Papa riconfermò il divieto di aumentare i prezzi degli alloggi e vietò gli sfratti. Inoltre sospese le lotte dei tori nel Colosseo e vi fece erigere una grande croce nel centro. Fece restaurare ed abbellire numerose chiese e commissionò alcune opere che danno l'impressione dell'interiorità e della passione: il monumento alla Beata Ludovica Albertoni in San Francesco a Ripa e gli Angeli nella Cappella del Sacramento in San Pietro. Ingrandì il Palazzo romano della famiglia Altieri, iniziato da suo fratello: grandioso all'interno è l'affresco eseguito da Carlo Maratta raffigurante il Trionfo della Clemenza, eseguito per ordine dello stesso pontefice. Canonizzò diversi santi, fra cui nel 1671, Gaetano da Thiene, Francesco Borgia e Rosa da Lima, la prima santa dell'America Latina.

Si spense a 86 anni, assistito da molti cardinali e dalla regina Cristina di Svezia, il 22 giugno 1676.
a succedergli fu INNOCENZO XI ...........
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INNOCENZO XI - Benedetto Odescalchi (1611-1689)
(Pontificato 1676-1689)

BENEDETTO nacque a Como il 19 maggio 1611 dal nobile Livio ODESCALCHI e da Paola Castelli di Grandino Bergamasco. Dopo una prima educazione ricevuta in famiglia, frequentò il collegio dei Gesuiti di Como, dove fu iscritto alla Congregazione Mariana, onore riservato agli alunni migliori; a 11 anni rimase orfano del padre e a 15 anni nel 1626, dopo aver ultimato i corsi umanistici, si trasferì a Genova presso lo zio Papirio che dirigeva la "Società Odescalchi", per fare pratica nell'attività amministrativa e negli affari.

Nel 1630 la madre morì colpita dall'epidemia di peste, che invece risparmiò Benedetto; passarono alcuni anni in cui si alternò fra Como e Genova, finché, nel 1636, si spostò a Roma dove frequentò per un biennio i corsi di diritto civile e canonico alla Sapienza, completandoli poi a Napoli, dove si laureò in 'utroque jure', il 21 novembre 1639. Fu anche soldato. Nel frattempo andava maturando la vocazione allo stato religioso: il 18 febbraio 1640 ricevette la tonsura.

Ritornato a Roma (siamo in pieno periodo barocco) intraprese, spinto dal fratello Carlo, la carriera ecclesiastica, conducendo una vita da prelato romano, ricoprendo varie cariche presso la Sede Apostolica, ma senza farsi coinvolgere dallo sfarzo della vita romana seicentesca. Opportunità politiche e di consapevolezza per la sua persona, gli procurarono l'incarico, affidatogli dalla Corte pontificia, di 'Commissario straordinario delle tasse' nelle Marche, compito che assolse con competenza e umanità, prudenza e fermezza; i risultati ottenuti gli procurarono nel 1644 la carica di governatore di Macerata.

Il nuovo papa Innocenzo X, gli conferì titoli onorifici, lo creò Cardinale-Diacono il 6 marzo 1645, Prefetto della Signatura Apostolica nel gennaio 1647 e, nel 1648, allo scopo di arginare le difficoltà della popolazione di Ferrara per la prolungata carestia, lo nominò governatore della suddetta provincia; la sua accorta politica economica, l'approvvigionarsi dalla Puglia del grano necessario, la lotta alle frodi, la distribuzione di viveri e denaro ai poveri, il calmiere dei prezzi, ridiedero vita all'economia delle afflitte popolazioni, così sui muri spesso veniva scritto: "Viva il cardinale Odescalchi, padre dei poveri!".

Nel 1650 il papa lo nominò (senza che fosse nemmeno presbitero!) vescovo di Novara; Benedetto accettò la volontà di Dio, diventando prete il 20 novembre 1650 e vescovo il 30 gennaio 1651; le consacrazioni avvennero a Ferrara. Nell'esercizio dei suoi doveri pastorali, il cardinale Odescalchi, non avendo esperienza diretta della cura pastorale delle anime, prese a modello le costituzioni sinodali di san Carlo Borromeo.
Nel 1654 si recò a Roma per la periodica visita 'ad limina', e il papa lo trattenne presso di sé come consigliere, cosa che fece anche il suo successore papa Alessandro VII; costretto da tale situazione a stare lontano da Novara, nel 1656 chiese al papa di essere esonerato dal compito di vescovo residenziale; rimanendo così per 20 anni a Roma al servizio della Chiesa. Il conclave apertosi alla morte di Clemente X, e durato 2 mesi, unanimamente votò il cardinale Odescalchi, che seppur riluttante, fu eletto papa il 21 settembre del 1676, assumendo il nome di INNOCENZO XI.

Sarà questo papa a rompere i rapporti con la Francia, con Luigi XIV e la "sua" Chiesa Gallicana, infatti il Re Sole aveva fatto approvare da un'assemblea generale del clero francese (il 19 marzo 1682 a St. Germain) la 'Declaratio cleri Gallicani de ecclesiastica potestate'.

Si trattava di Quattro Articoli, redatti dal vescovo Bousset, con i quali si affermava l'indipendenza della chiesa gallicana, si riconosceva al papa il solo potere spirituale, si sottomettevano le decisioni del papa al consenso dei vescovi; re Luigi emanò subito un editto con il quale elevava questi articoli a dottrina universalmente valida, facendoli registrare dappertutto come legge e rendendoli obbligatori per i professori di teologia e di diritto canonico.


Innocenzo protestò vivamente e quando due partecipanti a quell'assemblea furono presentati dal re come futuri vescovi, egli rifiutò di ratificare la nomina. Re Luigi rispose vietando ai candidati dai lui nominati che non avessero firmato la dichiarazione, di farsi dare la bolla di conferma da Roma. Conseguenza fu che in sei anni si ebbero in Francia ben 37 sedi vacanti, oppure coperti da titolari privi di consacrazione. A ciò si aggiunse un'altra controversi, quella cosiddetta della libertà di quartiere delle ambascerie a Roma.

Il papa aveva sospeso, nel maggio 1687, il diritto d'asilo estendentesi dai palazzi d'ambasciata ai quartieri circonvicini, che era gradualmente divenuto un ostacolo intollerabile ad un ordinato servizio di polizia e all'amministrazione della giustizia. Tutte le potenze vi si adattarono, tranne la Francia. Luigi XIV inviò a Roma il marchese di LAVARDIN, che osò presentarsi al Papa e intimargli di ritirare il decreto. Ma Innocenzo XI tenne duro e questa volta il re di Francia dovette venir lui agli accordi e richiamare l'ambasciatore, ma per risposta fece occupare la cittadina pontificia di Avignone e il contado Venassino, che lo Stato Pontificio riuscì a riottenere solo con Alessandro VIII.

Similmente si comportò l'ambasciatore di Spagna che, risiedendo nell'attuale piazza di Spagna a Roma, nel 1676, fece del suo palazzo il naturale punto d'incontro dell'intero quartiere, una zona franca con un proprio servizio postale, autonomo da quello del Papa. E la piazza si chiamò di Spagna.
Questiona più spinosa fu l'affrontare l'avanzata dei Turchi, nelle cui mani era già caduta Creta nel 1669. Mentre il re di Francia intratteneva relazioni segrete con i Turchi, sollecitandoli alla guerra contro la Polonia e l'Austria gravemente minacciata e a raccogliere i principi cristiani contro il comune nemico. Avvalendosi di abili e decisi esecutori come i nunzi Obizzo Pallavicini (1632-1700) e Francesco Buonvisi (1626-1700), Innocenzo XI riuscì a costituire la Lega Santa Antiturca costituita dall'Impero (con l'imperatore Leopoldo I), la Polonia (con il re Giovanni III Sobieski), Venezia e dal 1686 la Russia.

Fu proprio grazie al re polacco che Vienna (battaglia di Lahlenberg) fu libera da 300.000 turchi, il 12 settembre 1683, guidati da Mara Mustafà. Poco dopo venne riconquistata anche Buda (1686) e fu infranto il dominio turco in Ungheria. Parte del merito di questi successi è da attribuirsi all'infuocato predicatore beato MARCO D'AVIANO (1631-1699), frate Cappuccino, che accompagnava l'esercito come legato apostolico.

Ma fondamentalmente papa Innocenzo portò sul trono papale la virtù e la rigidezza di asceta. Di rigidi costumi, volle porre un freno al lusso dei cardinali, proibì ché si vendessero le cariche ecclesiastiche, e cercò di sradicare il nepotismo cominciando col togliere ai parenti dei Pontefici l'esenzione da certe imposte di cui usufruivano e con il dar l'esempio egli stesso non concedendo benefici al proprio nipote Livio Odescalchi (1652-1713). Impose norme molto austere per i vescovi, esortando alla carità e alla beneficenza, dando il suo personale esempio all'ascetismo, ma non si rese conto che proprio il suo segretario di stato, il cardinale ALDERANO CYBO-MALASPINA (1613-1700) stava accumulando beni e promettendo favori; alla sua morte lasciò una cospicua fortuna ai parenti.

Con la bolla Coelestis Pastor del 1687 condannò la dottrina del quietismo (che in un primo momento sembrava avesse egli stesso sostenuto), falsa mistica spirituale diffusa dal sacerdote spagnolo MIGUEL DE MOLINOS (1640-1696) nel suo libro 'Guida spirituale'; il principale diffusore delle teorie quietiste in Italia fu il cardinale PIERMATTEO PETRUCCI (1636-1701), vescovo di Iesi, il quale ebbe un trattamente meno severo del Molinos, essendo personale amico del pontefice. Ugualmente papa Innocenzo fu avverso al 'probabilismo' teologico-morale dei Gesuiti.

A più riprese, 1676 e 1685, vietò il gioco del lotto, condannò l'usura e soppresse le sinecure cercando di aumentare la disponibilità finanziaria dello Stato. Eresse il Collegio sant'Anselmo (1687) come istituto di studi teologici benedettino; introdusse la sospensione a divinis per i sacerdoti che fumavano in sacrestia.
Fece proclamare che primo dovere del papa era la propagazione e difesa della fede cattolica; eresse nuove diocesi in Brasile, costituì le università domenicane di Manila e in Guatemala, favorì le missioni carmelitane in Persia, cercò di abolire il commercio degli schiavi, riceveva personalmente i missionari per essere informato sulle situazioni locali. Favorì grandemente l'insegnamento catechistico ai fanciulli, ai soldati, a tutti i fedeli; fece preparare a tale scopo un collegio di maestre chiamate 'maestre Odescalchi'.
Ultimo suo atto, molto negativo, fu quello di chiudere a Roma tutti i luoghi di spettacolo; per questa sua feroce ostilità, il teatro operistico ebbe un brutto colpo.

Già ammalato nel fisico a causa di varie malattie, che l'avevano colpito ma che accettava con piena fiducia in Dio, Innocenzo XI si spense il 12 agosto 1689, acclamato santo dal popolo dei fedeli. Fu sepolto in san Pietro, dove poi gli fu eretto il grandioso monumento funebre opera dello scultore Pietro Stefano Monnot. Il processo, aperto nel 1714, si è concluso con la sua beatificazione, da parte di Pio XII, il 7 ottobre 1956.
sali sul soglio come successore ALESSANDRO VIII .....
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ALESSANDRO VIII - Pietro Vito Ottoboni (1610-1691)
(Pontificato 1689-1691)
PIETRO Vito nacque a Venezia il 22 aprile 1610 dalla nobile casata degli OTTOBONI, ancora oggi non estintasi. Studiò legge a Padova, laureandosi in diritto civile e canonico. Giunto nel 1630 a Roma, Urbano VIII lo nominò Referendario delle due Signature. Successivamente fu Uditore di Rota e gli vennero affidati i governi di Terni, poi di Rieti ed infine di Spoleto. Fu nominato vescovo di Torcello, nella laguna veneziana; successivamente, nel 1652, creato cardinale (Presbitero) di San Salvatore di Buscia.

Nel 1654 è alla guida della diocesi di Brescia, che governò per 10 anni. Fu Datario della Corte Pontificia e Inquisitore del Santo Uffizio; e cambiò il titolo da San Salvatore in quello di San Marco, divenendo cardinale vescovo della diocesi suburbicaria di Santa Sabina. Il 10 novembre 1683 passò alla diocesi di Frascati, sede che lasciò nel 1687 per passare a quella di Porto.

Alla morte di Innocenzo XI ascese al soglio pontificio, il 6 ottobre 1689, assumendo il nome di ALESSANDRO VIII.
Appena eletto si affrettò a beneficare con titoli e privilegi i componenti della sua famiglia, indulgendo ad un pesante nepotismo. Da Venezia ci fu l'invasione degli Ottoboni: il nipote Antonio (figlio di Agostino, fratello del Papa
) fu nominato generale di Santa Romana Chiesa; il nipote Pietro, appena diciannovenne fu creato cardinale e in seguito occuperà la cattedrale di Frascati; il nipote Marco, benché gobbo e zoppo, fu fatto Sovrintendente delle Fortezze e Galere pontificie. Per lui comperò, nel 1690, il ducato di Fiano per 170.000 scudi.

Curioso resta un documento del tempo, in forma di discorso, fatto da questo pontefice a 12 cardinali pochi giorni prima della morte: è una difesa che il papa, o altri per lui, fa dall'accusa di nepotismo; ma essa più che difesa è un tentativo di giustificazione dei favori concessi ai nipoti e delle somme loro assegnate.

A parte le concessione ai propri parenti, Alessandro VIII fu un papa molto fermo e deciso. Il 7 dicembre 1690, con decreto del Santo Uffizio, in seguito ad esame accurato, condannò 31 proposizioni scelte tra circa 200 tratte da tesi e opere di teologi che insegnavano specie nel Belgio, riguardanti la Grazia, l'Eucaristia e la Penitenza. Allo stesso modo condannò il "rigorismo", eccesso morale che si contrapponeva al "lassismo", già condannato qualche tempo prima.

Sempre nel 1690 risistemò la maestosa fontana sul Gianicolo: provvide all'espurgo delle condutture e all'immissione di nuove acque, aumentando la portata dell'acquedotto creando il piazzale antistante la fontana, mediante lavori di terrazzamento; fece aggiungere alla fontana la grande vasca di marmo bianco, realizzata dall'architetto Carlo FONTANA, che la rese ancora più magnificente. Tali lavori, per i quali furono spesi 5.200 scudi d'oro, sono ricordati in una iscrizione, sormontata dallo stemma papale, apposta sotto l'arco della nicchia centrale.

Arricchì la Biblioteca Vaticana acquistando preziosi volumi appartenenti alla regina Cristina di Svezia.
Favorì le missioni in Cina: a Nanchino e a Pechino istituì due sedi vescovili. Purgò lo Stato Pontificio dai delinquenti che lo infestavano, ma fu caritatevole nel periodo in cui peste e carestia infierirono su Roma.
Canonizzò Lorenzo Giustiniani, Giovanni di Dio, Pasquale Baylon.

Con la bolla "Inter multiplices" del 1691 si oppose alle libertà della Chiesa gallicana e alle rivendicazioni del clero gallicano francese; in particolare condannò i 4 articoli della Dichiarazione dell'Assemblea gallicana del 1682 e il diritto di regalia. Riuscì ad ottenere da re Luigi XIV di Francia la restituzione della città di Avignone e il contado Venassino ai possedimenti della Chiesa, creando cardinale, in cambio, il vescovo di Beauvois.
Finanziò l'imperatore con 50.000 scudi affinchè si armasse contro i Turchi; allo stesso modo incitò le altre potenze cattoliche.

Ormai avanti con gli anni e prevedendo una prossima fine, incitando gli Ottoboni a sistemarsi presto, soleva ripetere: «Le 24 stanno per scoccare!». Morì il 1° febbraio 1891. Fu sepolto nella Basilica di San Pietro sotto un sontuoso monumento scolpito da Arrigo di S. Martino.
a succedergli fu INNOCENZO XII .....

Continua con il PERIODO dal 1691 al 1831 > > >

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