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NOTE

Note biografiche di MAGHERITA SARFATTI


Nel corso del 1911, fra le tante manifestazioni e scioperi) anche violenti in molte città d'Italia contro la guerra turca a Tripoli e Bengasi, una di queste manifestazioni in particolare assume rilevanza storica, quella di Forlì dove a guidarla è il figlio di un fabbro e di una maestra elementare di Dovia-Predappio: di 27 anni, già con un ricco passato di antimilitarista e di militanza socialista. Da tempo - per come si comportava dentro e fuori la sezione- soprattutto con la sua irruenza nei comizi - aveva già ricevuto dai suoi "colleghi socialisti" l'appellativo di Duce
.
Lui e i suoi "agitatori" della piazza (come quelli dell'irruento socialista "Fascio Operaio" del 1883 chiamati appunto "fascisti") furono chiamati pure loro "fascisti", come del resto tutti quelli della allora sinistra violenta.
Solo quando Mussolini fondò il suo "Fascio di Combattimento" nel 1919
(volendo lui interpretare la rivoluzione e l'ordine giocando la carta del nazionalismo, non alla maniera "Russa") i suoi "concorrenti" socialisti iniziarono a chiamarsi "antifascisti". Ma di fatto "fascisti" erano stati e "fascisti" (nelle loro azioni) rimasero pure loro.

Del resto Togliatti (scocciato di essersi fatto scippare nel '19 la nomea di "fascista" (quello che doveva a oltranza terrorizzare i "padroni") , invidioso del successo di Mussolini, nell' "Imperiale" 1936, incitava i suoi "compagni camerati...." che nell'appello chiama "Ai fratelli di camicia nera".... "I comunisti devono far proprio il programma fascista del 1919 !!!!"......
"E' ora di prendere il manganello !!!!" vedi qui >>>
Ma se lui di diventare fascista ambiva così tanto, di fatto lo era già.
Altro che "antifascista!!"

O forse cercava con questo proclama di risolvere idealmente la dolorosa spaccatura che era avvenuta con Mussolini nel suo periodo di socialista. (Non per nulla che Lenin rimproverava la sinistra italiana di essersi fatto scappare l'uomo che avrebbe veramente fatto la Rivoluzione in Italia).
Ma qualcosa di "socialista" Mussolini poi lo fece, quando prima della 2a GM (anni 1938-39 - in un discorso a Bari rivolgendosi a quei 500.000 borghesi (ingrati (per non dire traditori) che già gli andavano contro) e che avevano negli anni d'oro da lui ottenuto benefici e lucrose rendite, attaccò proprio la borghesia e il capitalismo italiano come irriconoscente ( e a volere la guerra nel '40 fu proprio la borghesia, i media a loro servizio assieme al Re (lui a volere e a firmare la Dichiarazione di Guerra alla Francia (con il suo Statuto Albertino che glielo permetteva) dopo che Mussolini se n'era tenuto lontano con la "neutralità" la "non belligeranza" per quasi un anno, non volendo (ritenendosi impreparato) rispettare il Patto d'Acciaio fatto con Hitler. Se il Re si fosse veramente opposto ad entrare in guerra, poteva benissimo esautorare Mussolini e perfino farlo arrestare. Quello che lui poi fece (e sempre con il suo Statuto) il 25 luglio del '43 seguito dall'8 settembre, quando cambiò e tradi Hitler suo "alleato" ma che nel '40 aveva invece sostenuto).

Mussolini era ritornato così socialista fino al punto che in seguito nel '43 varò i provvedimenti relativi alla Socializzazione delle Imprese nella Repubblica Sociale Italiana. (quella che dava agli operai la spartizione degli utili delle imprese. Ma che non era gradita nè alla sinistra - che vedeva nascere un concorrente nel proletariato - ma neppure dalla borghesia che di sicuro non era disposta a spartire i propri utili con i lavoratori).

 

Premesso questo, ora andiamo alla

Al "DUX" biografico scritto dalla SARFATTI

 

MARGHERITA SARFATTI chi era. Era una ricca, elegante, intelligente, bella donna - che oggi non è molto ricordata perchè scomoda.
(Queste sono note non certo gradite ai comunisti, né agli ebrei, oggi svisceratamente antifascisti)
La Sarfatti era infatti proprio ebrea. E ha avuto questa donna un ruolo fondamentale nella fondazione del Partito Nazionale Fascista di Mussolini collaborando accanto a lui per ben 10 anni a Milano.

Proprio a lei si deve lo sviluppo del fascismo, fin dal primo giorno. La Sarfatti abbiamo già detto era ebrea, molto ricca, di ceto sociale alto. (Suo padre era amico di Papa Pio X. Gran Finanziere, fu il fondatore della Società di Vaporetti di Venezia. Lui a trasformare anche l'isoletta del Lido in una prestigiosa località turistica di Venezia).
Fu lei la Sarfatti la finanziatrice del Partito. Lei la fondatrice della Rivista "Gerarchia". Ed ancora lei la coordinatrice del movimento fascista. La sua biografia su Mussolini - "DUX" (prima edizione 1926) - ebbe un successo così strepitoso, che da allora fu indicata - "La donna che inventò Mussolini". Non solo fu l’autrice del libro, ma anche una protagonista e indubbiamente la pigmalione del fondatore del fascismo. Ne fece una celebrità mondiale.

Di biografie su Mussolini ve ne sono a centinaia. Ma quella della Sarfatti é molto particolare. Fu accanto a Mussolini per molti anni, e soprattutto in quella riunione del 25 marzo del 1919 in piazza San Sepolcro quando Mussolini dopo aver già fondato i "Fasci di combattimento" espose il suo nuovo "Programma".
La Sarfatti fu definita un’anticipatrice del fascismo, ma di un fascismo borghese e non quello socialista che allora questo termine "fascista" era a loro dato quando agivano con durezza nelle varie manifestazioni scioperistiche proletarie.
E proprio alla Sarfatti si deve lo sviluppo del fascismo, fin dal primo giorno di San Sepolcro con i locali messi a disposizione da suoi amici ebrei industriali. Quando Mussolini nel '22 divenne poi capo del governo, la Sarfatti toccò il cielo con un dito: ne influenzò sempre di più il giudizio, guidò l’esperienza della rivista di teoria politica "Gerarchia" e poi scrisse “Dux” iniziando da quando Mussolini nacque a Dovia, raccontando la miseria di casa Mussolini, i suoi primi anni di scuola, la vita grama che fece prima e dopo, quando volle abbandonare l'Italia e andare a fare in Svizzera mille mestieri (il cioccolataio, il muratore, il facchino) per guadagnarsi da vivere, in un ambiente molto ostile, e sempre senza soldi in tasca, fino al punto di andare a dormire sotto i ponti, dove venne proprio per questo arrestato dalla Gendarmeria Svizzera come vagabondo. Passò un giorno in galera, poi lo rilasciarono perchè in fin dei conti qualche soldo lo aveva in tasca, ma era andato a dormire lì solo per risparmiare.
La biografia DUX ebbe un successo strepitoso, 1.500.000 copie in Italia, fu tradotta in 19 lingue, ebbe notevole successo negli USA (500.000 copie) e perfino in Giappone dove ne furono stampate 300.000 copie. In Italia - dal 1926 al 1933 ne furono fatte 15 edizioni; non vi era famiglia in Italia che non ne avesse una copia in casa.
Un successo tale che da allora - come abbiamo già detto sopra - si disse di lei - e fu indicata - "La donna che inventò Mussolini". Non come Anna Kuliscioff - queste le sue parole - che lo definì "una testa calda".

Che sia vero o no le due opinioni lo lasciamo dire ai lettori, noi sappiamo che Mussolini fin dall'adolescenza aveva il DND del padre (che era un rivoluzionario dalla nascita, non per nulla diede al figlio il nome di un rivoluzionario Benito Suarez). Il libro della Sarfatti - nel raccontare la sua grama vita adolescenziale e giovanile - fece nascere a tutti gli italiani una umana simpatia verso quest'uomo. Soprattutto quando lui iniziò a partecipare alle molte allegre manifestazioni alla "paesana", come si facevano ai suoi tempi a Dovia (ed anche questo era nel suo DNA).

La Sarfatti fu ovviamente anche amante di Mussolini, ma quando iniziò il "regno" della Petacci, la Sarfatti sarà una delle poche donne capace di ritirarsi in disparte senza fare chiasso. Nè gli diventò mai nemica.

 

MUSSOLINi nel libro DUX fece lui una singolare PREFAZIONE:

"Prima, una confessione. Io detesto coloro che mi prendono a soggetto dei loro scritti e dei loro discorsi. Bene o male che essi mi trattino, non importa. Li detesto egualmente. Il grado di questa avversione, aumenta se mi si esibisce in pubblico e ad un più vasto pubblico com'è precisamente il caso attuale; raggiunge poi le vette del parossismo, quando mi adatto a scrivere una prefazione.
E' questa la più alta prova di sopportazione umana ch'io possa offrire per l'edificazione morale dei miei simili: presentare me stesso.

"Ho talvolta meditato sul grottesco e sublime destino dell'uomo pubblico! Ma non sono arrivato a conclusioni di sorta, appunto perchè trattasi di destino. L'uomo pubblico nasce pubblico. Si tratta di una stigmata che lo accompagna dalla nascita. È un connotato morale. Si nasce uomini pubblici come si nasce intelligenti o deficienti. Nessun tirocinio riesce a far diventare "pubblico" un uomo che abbia tendenza alla "domesticità". L'uomo pubblico è come il poeta: nasce con quella maledizione. Non se ne libererà più. La sua tragedia ha una gamma infinita: va dal martirio all'autografo.
Questa mia confessione è un capriccio. lo sono perfettamente rassegnato alla mia sorte di uomo pubblico. Accade talora che io ne sia entusiasta. Non già per le soddisfazioni che la pubblicità reca con sè: la fase della vanità dura dai venti ai venticinque anni. (fu qui profeta di se stesso)
Non già per la fama o la gloria o anche il busto che l'uomo pubblico finirà per avere - sulla piazza del villaggio natio - no. Il pensiero e la constatazione reale di non appartenermi più, di essere di tutti -amato da tutti, odiato da tutti - elemento necessario alla vita altrui, mi dà una specie di ebrezza "nirvanica".
Eppoi, quando si è di tutti, non si è di nessuno. Già fu detto che una folla può dare l'acre e pur tuttavia riposante gioia della solitudine più che un deserto.

"In questo libro c'è la mia vita. Almeno quella parte che si può conoscere, poichè ogni uomo ha segreti ed angoli d'ombra inesplorabili. C'è la mia vita come successione di eventi, come sviluppo di idee. In fondo non è gran cosa la mia vita. Non c'è niente di straordinario che possa colpire le fantasie. Non guerre vittoriose; non avventure eccezionali; non creazioni di nuovi sistemi. E' una vita movimentata, sì, ma meno interessante di quella di Savage, ad esempio, il grande esploratore inglese.

"Questo libro mi piace perchè mi proporziona nel tempo, nello spazio e negli eventi, senza ipertrofie malgrado l'amicizia e la comunità del lavoro e delle idee. Può darsi che l'avvenire alteri queste proporzioni; le riduca o le aumenti.
Ma di ciò si occuperà il mie biografo di domani".
( MUSSOLINI )



LA PERSONALITA' DI MUSSOLINI

scrive la Sarfatti.....

"Fra contraddizioni e complessità - antagonismi apparenti e sostanziali coerenze -
che cosa è, insomma il suo Fascismo - e chi è - quest'uomo?

"Qualche tempo fa, il quotidiano fascista di una grande città, ebbe la trovata di un referendum tra i lettori per raccogliere le migliori definizioni del Mussolini. «Voglia chiamare quel direttore - telegrafò il presidente del Consiglio al prefetto - e lo preghi di chiudere il referendum con questa autodefinizione: - Poichè l'onorevole Mussolini dichiara di non sapere esattamente ciò che egli è, assai difficilmente lo possono sapere gli altri. - Fatta questa dichiarazione, e pubblicatasi, sospenda il referendum, che potrà essere ripreso, caso mai, fra cinquant'anni. F.to: Mussolini».
É un errore di psicologia letteraria, chè gli interpreti sempre la sanno una spanna più lunga dell'autore. Ma è un documento; forse, sincero.
Ai grandi industriali che vogliono per sempre escludere un noto agitatore da spinose controversie di lavoro e salari, chiede: «Perchè volete pregiudicare quest'uomo nelle sue possibilità avvenire? Nel Mussolini del '14, potevate prevedere il Mussolini d'oggi?»

"A un altro giornale amico, che a proposito di un volo rischioso, o di un attacco degli avversari, lo prega «di considerarsi sacro» scrive di suo pugno «atterrito», che gli si lasci intera «la sua sana profanità».
Una cosa, per lo meno, risulta da queste risposte: egli è - e rimane - un giornalista.
«Andando al governo» si confesserà poi, a un ricevimento di colleghi dirà «io non mi sono dimenticato di essere un giornalista e spesso e volentieri prendo dei fogli e scrivo qualche cosa che può interessare gli italiani; ciò ha l'apparenza solenne delle note ufficiose od ufficiali che dir si voglia. Sono invece dei piccoli articoli, sono ancora atti che rivelano la nostalgia del mestiere».

"Difatti, in un comunicato ufficiale designa «il signor X Z di professione deputato», in una lettera, che è un documento ufficiale a stampa, scrive: «Siamo circondati da pedagoghi e da mentori; ognuno ha il suo bravo dilemma da proporci». Parla della Società delle Nazioni e la definisce «un couvent de laiques, fantasques, impuissants, et par cela méme dangereux». Ai quattromila minatori delle cave di Monte Amiata, a quegli operai di cui si proclama «l'amico severo», confida: «Il giorno in cui le opposizioni uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, ne faremmo lo strame per gli accampamenti delle Camicie Nere».

"Gli propongono un grave signore, con assai autorevoli raccomandazioni, per il Senato, e scrolla le spalle: «Ma sì, ma sì; sa leggere e scrivere?» Al suo fido luogotenente fascista che gli invia un messaggio, invocando che il prossimo ministro delle comunicazioni sia soprattutto un fascista «della prima ora», risponde - per protocollo - che decide di promuovere a quel posto il suo autista Cirillo T., «....che è al mio fianco dal '19, sa viaggiare ed è molto comunicativo».

"Di fronte a due alte dame forestiere che una sera a pranzo lo addottrinano a gara su ardui temi politici, taglia corto con l'insolenza del gran signore: «Lasciamo questi discorsi, che sono adatti per altri cervelli».
Scarti, estri, motti, da impronto fanciullo-terribile? No, appartengono in parte al sistema che io chiamo «della doccia scozzese»: un caldo, un freddo, improvvisi, e sempre inaspettati; scompigliano. La rapidità del colpo d'occhio nell'osservare, come la rapidità nel cogliere l'espressione breve e brillante, di immediata portata, sono istinti che il giornalismo coltiva e affina. E il giornalista irruente e caustico, talvolta iroso, il polemista senza agghindate prosopopee, prende la mano all'uomo di governo, non senza la inconfessata complicità di questi, nel suo segreto.

"Perchè il giornalismo ha distrutto - insieme con tante profumate riservatezze - anche la diplomazia di vecchia scuola, sospirata dietro il ventaglio, e le semplicità dell'uomo politico d'oggi rispondono a una tattica sapiente e brutale di diplomazia vera: sillabare con voce chiara ciò che gli altri sussurravano smozzicato. Si é sicuri che la parola giunga a ragione, perentoria e non deformata. E per le cose che non si vuol proprio che vengan ridette, altro mezzo semplice é il non confidarle assolutamente ad alcuno.
«Il giornalismo - afferma questo giornalista che mai se ne staccò del tutto - il giornalismo ha formato il mio spirito, il giornalismo mi ha condotto a conoscere la materia umana con cui si fa la politica. Prima di veder salire a Palazzo Chigi nel salone della Vittoria le commissioni che mi bombardano giornalmente con i loro memoriali, sacri perchè rappresentano interessi e giusti interessi, sono passati nel mio sgabuzzino di via Paolo da Cannobio e nel mio quasi sgabuzzino di via Lovanio migliaia di italiani di tutte le professioni, di tutte le età, di tutti i colori; sono passati, e ho avuto quasi dinanzi a me la visione plastica di un'ItaIia che tramontava e di una Italia che sorgeva.
Il giornalismo mi ha dato una certa resistenza al lavoro, poiché il governare non é una cosa trascendente, come si opinava da taluno, é una fatica. Bisogna stare al tavolo dalle 10 alle 12 ore, il tempo necessario per esaurire la fatica di un giorno.
Voi sapete che io rispetto il giornalismo e l'ho dimostrato. Desidero soltanto che il giornalismo si renda conto delle necessità storiche, di certe ineluttabilità storiche. Desidero che il giornalismo collabori con la Nazione.
Con molta simpatia e fraternità, vi dico di avere molto coraggio, perché non so se nel vostro zaino, ma nella vostra cartella di redazione vi può essere il bastone di maresciallo».


Meditabondo e impulsivo; realista e idealista; frenetico e sagace; romantico nelle aspirazioni e classicamente concreto nei raggiungimenti pratici; l'equilibrio su un piano di superiorità risulta dall'insieme di questi squilibri. Una cosa si può dire con sicurezza, senza attenuazioni: ama il pericolo. Ha un'intolleranza fisica della viltà.
"Italia, Italia bella!"


... usa chiamare con una voce speciale di suggestiva dolcezza la superba leonessa fulva che gli hanno donato, e che alla voce del padrone gli balza addosso come impazzita. Quando era piccola, e la teneva in casa, in una cameretta, presso il suo studio, sui tetti di Roma, persino la cameriera, donnina quieta della campagna, malgrado le iniziali proteste, aveva assorbito il contagio dell'ambiente, e giocava poi con la belvetta.
«Badi, che adesso é grande, e gli altri quattro leoni adulti, nella gabbia, non la conoscono», ammonisce il direttore del Giardino zoologico di Roma, dove si trova adesso ricoverata, trepido per la propria responsabilità. Ma egli non ammette timore, innamorato di quella felina bellezza che é potenza e forza agile per ogni linea, gioca con essa, felice come un ragazzo. Uomo energico, certo. E uomo italiano.

«Un uomo come voi», egli si sente, nel salutare fraternamente gli operai delle miniere, «con le vostre qualità, con i vostri difetti, con tutto ciò che costituisce l'elemento essenziale di quella speciale natura umana che é la natura « italiana ».

Cesarista, militarista, dittatorio, imperialista?
Disse in un celebre discorso al Senato:
«Mi si imputa di andare a cavallo? sono- giovane! La giovinezza, divino male di cui si guarisce un po' tutti i giorni!».
E mentre la prima parte del discorso, le dichiarazioni sulla politica estera, erano lette e scandite con lenta meticolosità, giunto a questa veemente rivendicazione della giovinezza, che in lui non é un accidente di cronologia, ma un trionfale sistema di vita e un principio di saggezza politica - dinanzi a quei venerandi vecchi, i più illustri d'Italia - a questo punto si scatenò nell'improvvisazione con gioia selvaggia. Teneva, a chi bene osservasse, l'attitudine di uno schermidore sulla pedana, non di sfida, di raccoglimento, ma pronto a scattare con quel fremito ritmico inconsapevole del piede destro, di cui trovai poi che parla Napoleone al Las Cases, quale inconscio sintomo di un suo eccitamento interiore.

Chi vede e ascolta il Duce del Fascismo in privato, rimane colpito da questa sua giovinezza schietta, quasi affettuosa; e quando il visitatore o la visitatrice escono dall'udienza, li udrete dire: «Ma non é affatto quale lo dipingono! Non assomiglia ai ritratti, é assai più giovanile».
In una cerimonia pubblica, la voce si sparge, ha del sensazionale: Ha sorriso! Ed é uno scoppio d'indignazione contro i fotografi: «Così ispido, e scontroso, lo fanno sempre! Mentre io gli ho parlato. È affabilissimo ».
E ciascuno o ciascuna crede che l'eccezione sia merito e gloria propria. Una popolana d'Abruzzo, della regione montuosa fra l'alta Maiella e il mare, si spinse un giorno tra la calca e lo fermò, audace e timida: «Ma perché i ritratti vi imbruttiscono tutti? Sempre con quel cipiglio!». Difatti gli americani, con la bella fantasia dei popoli giovani, gli hanno foggiato un epiteto omerico, « l'accigliato Figlio del Fabbro».

Eppure la leggenda, che gli crea il ritratto, é vera più della verità.
Conosce gli uomini e sa il pericolo, e la ripugnanza, di avvicinarli troppo. La sua formula per un ritrovo ideale é «molto fine, molto distinto e niente gente», la brigata ideale é di quattro al massimo - di più, sconfina già verso la folla: "Non mi infliggete il refettorio" - dice - "se la mensa é numerosa". Al
Popolo d'Italia, se nelle grandi occasioni ammetteva una bicchierata, il suo sorso di vino andava a prenderselo
sul tavolo nel bicchiere, dopo gli altri, da solo, buttandolo giù in fretta.

Individualista anticonviviale e antisocievole per natura, sviluppa ancora questo istinto, lo educa e alleva, come un'arma per la sua difesa: d'onde, il cipiglio. Vi concorrono istinto, partito preso e volontà di attitudine: la posa é la confessione che un uomo fa, dei modo in cui vorrebbe apparire agli altri uomini.

Nessuno lo trovò superbo o repellente, ma nessuno può vantarsi di essere con lui in confidenza. Un esempio chiarisce la sfumatura. Più volte vidi gente buttarglisi addosso, a baciarlo e abbracciarlo con trasporto. Per esempio, nell'ottobre del 1924, gli capitò di insignire di persona alcuni vecchi operai di un opificio lombardo con l'ordine della Stella dei Lavoro, e l'abbraccio di protocollo col bacio sulle due guance, tra lui e il primo vecchietto intimidito, si svolse formale, come una finzione di palcoscenico. Ma via via al secondo, al terzo, uno slancio di crescente espansione s'impadronì di quella brava gente entusiasta, trasformando il rito in affettuosità sonante. Un fratello, pareva avessero ritrovato in quel giovane: un loro maggiore, il padre. "Dess me lavi pu la faccia per un mes" (adesso non mi laverò più la faccia per un mese), fece uno, con soddisfazione convinta.

Ma se lo vidi ripetutamente essere baciato, e anche abbracciare lui qualche uomo; baciare la mano a qualche signora, accarezzare affettuosamente la testolina di un bimbo; in questo paese di facili cameratismi, che é il nostro, egli é l'uomo verso il quale mai alcuno si é avventurato al colpetto birbone sul petto; neppure si é arrischiato a porgli una mano sopra la spalla. Non quando era socialista - non quando era giornalista - non quando era deputato - e molto sarei curiosa di immaginare, quale specie di cataclisma ne sarebbe seguito. Persino chi lo chiama «Benito» - il fratello, i vecchi camerati - e lo fa con una sfumatura involontaria, nella voce, di rispetto, quasi di riverenza.
Alieno da tutto e tutti quanti gli stavano intorno, si é sempre sentito, nella vita. Sul capo di chi é fatto per salire e comandare, si può pensare che si aggravi, consacrazione ed espiazione, una condanna biblica: «Tu, Uomo, sarai escluso dalla comunione con gli altri uomini».

Esistono, per questa specie di creature, dei superiori da ubbidire, da uguagliare e da superare; e un numero sempre crescente di subalterni da tutelare nell'onore e nella stretta necessità dei rischi ai quali é necessario esporli. Esistono commilitoni e camerati, dei seguaci e dei « fedeli » : la antica lode, come già dissi, che rifiorisce sulle labbra di questo Capo con speciale accento di virile fermezza: quasi un titolo.

Sa essere fedele anch'egli. Non muta e non dimentica, e attraverso gli anni e gli eventi, anche di piccole cose serba la gratitudine come un profumo. La figliola dell'oste suo suo padrone a Losanna, quella bambina di nove anni quando partì perchè buttato fuori, poi giovinetta quando a Losanna vi tornò ministro, ebbe da lui carissime accoglienze e tante cortesie. Del bel termine "camerata" sente la portata e il valore; e anche - talora con troppo suo sacrificio - la solidarietà di compagno d'armi che implica.

Ma «amico» nel senso banale che si dà al termine, no: non é amico di alcuno. E neppure nel significato intimo della fraternità spirituale. «Se il Padre Eterno mi dice: - ti sono amico - comincio subito con il prenderlo a pugni» esclama stizzoso nei momenti cattivi quando vede profilarsi nell'aria grevi l'ombra di un altro tradimento o inganno. «Se torna al mondo il mio padre, non mi fido neppure di Lui!».

Bisogna reagire contro l'ottimismo scorrevole e pigro, pericolosa seduzione italiana, che si esprime in tipici intercalari; il « nutro fiducia » dell'onorevole Facta, lo « stellone d'Italia » che deve automaticamente rimediare alle negligenze dei responsabili; e il monito abulico del lazzarone, al quale sta morendo la moglie e bruciando la casa: «Mastro Raffaele, non te n'incaricà". Bisogna reagire anche interiormente, restringendo a un numero di persone sempre più esiguo, e sempre più in fondo al cuore, ogni impulso di confidenza sentimentale.

«Nessuna amicizia intima, un minimo di sentimenti personali» : la legge dei seminari buddisti - e cristiani, di PortRoyal e di tutti i sacerdozi ascetici, egli la estende alle vicende della sua persona fisica. All'infuori del movimento di cose e di idee del quale é fulcro, si sbriga di tutto il resto, e specialmente di ogni forma di sofferenza individuale, con due parole di indifferenza asciutta:
« Male, sto molto male - questo non conta - non ha nessuna importanza ». E passa ad altro, "domando la fatica con il lavoro, la febbre con lo strapazzo".
Ma vi é un dono, che negli asceti trascende la indifferenza per l'individuo, facendo loro riabbracciare nel Creatore la creatura da cui si sono staccati. È la simpatia - comune e mediocre dono nella mediocrità degli uomini - dono ineffabile negli artisti e nei mistici. Non é l'accostamento superficiale e amabile della vita corrente; é facoltà di trasfondersi, io in te! il tat twam asi - questo è te stesso - dell'antica Asia, quando per un attimo cadono le barriere personali tra me e te. E il poeta si sdoppia nel delitto di Macbeth e nella purità di Cordelia, e Santo Francesco assomma in sé l'essenziale fraternità del Creato.

"L'uomo dell'azione e del comando - il condottiero - nasce corazzato per il duro compito entro il suo io centrale, e la volontà e la necessità di riuscire ve lo rinchiudono sempre più duramente. Sempre più viene a mancargli la comunione con gli uomini, quello, che il Poeta definisce « il latte dell'umana dolcezza ». Guai se nell'indurimento perde i contatti morali. La simpatia é trasfondere sé negli altri; ma anche intendere gli altri in sé.

«Il curriculum vitae delle persone che mi stanno intorno non mi interessa e non lo conosco; vedo anche loro sotto la specie dell'eternità» afferma il Duce.

«Molto ingegno - soggiungeva motteggiando, quando stava al Popolo - tutti i miei redattori hanno forte ingegno, sì, ve n'é degli scemi, ma la patente di ingegno preferisco dargliela sopra il conto, a tutti in blocco - é più semplice - come l'aumento del caro-vivere».
È uno dei lati enigmatici che rendono perplessi sul suo conto ammiratori e avversari: quest'uomo, conosce e sa scegliere gli uomini?
Se non possedesse questa facoltà, semplicemente non sarebbe Duce, Capo di Governo e Condottiero. Li conosce, così all'ingrosso, e sa giudicarli per il lato immediato, di attività pratica, che a lui preme. Non ha tempo morale perché non ha voglia - cioé non ha interesse umano - per conoscerli nel loro complesso di uomini. Suppone a priori che essendo uomini saranno mediocri e vili; e sa che saranno diversi, perché non crede alla unità e continuità degli sviluppi psicologici.

"È difficile conoscere gli uomini. Non agiscono quasi mai per la forza naturale del carattere, ma sotto l'impero di una segreta e momentanea passione, annidata nelle più nascoste pieghe del cuore. Non si può giudicarli che sulle azioni del momento, e solo per quell'istante», ammoniva Napoleone.
Il
curriculum vitae non entra nel conto del lavoro che hanno da assolvere: e i grandi meccanici badano solo al funzionamento della grande macchina. Se distingue, fra mille oscuri pezzi, un pezzo che caletti bene nell'ingranaggio, il Duce se ne vale subito. Sennonché l'uomo é una rotella bislacca, con molte indentate imponderabili - come dovrebbe sapere l'alunno di Vilfredo Pareto e della vecchia Giovanna - e non si contenta di trasmettere l'energia cosmica da una puleggia a un motore. Il trascurato curriculum vitae si vendica, con risultati spesso sconcertanti: la rotella megalomane si crede nata a far da motore, e gira a folle, fuori del movimento a cui il provetto meccanico la sapeva adatta; o si lascia falsare da altri magneti; e lo strumento vile gli si rivolta tra mano, e deve buttarlo, senza rancore, con un gesto lieve di rabbia, per sostituirlo; spesso, in peggio.

"Nell'economia della sua attività, considera l'errore inevitabile, perché la vita é povera, non si può aspettare gli inesistenti uomini di primo ordine, bisogna prendere quello che c'é, rassegnati a trovarlo inferiore al bisogno. Gli avviene di trascorrere così nel rischio opposto, e di fallare il bersaglio oltrepassandolo. Una diffidenza generica e universale - satanica tentazione dell'orgoglio - conduce infine agli uguali errori della troppo rosea fiducia universale, smorzando le sfumature da uomo a uomo, e livellando gli abissi morali che li separano.
Dire che il Duce é alieno dalla sospettosa malignità, sarebbe affermare una verità assurda, tanto é meschina e sottintesa. La tendenza a dar corpo alle ombre, cadendo nelle despotiche iniquità, é propria dei paurosi, e d'altronde, la stessa sprezzante sfiducia lo porta a vagliare anche la persona e le parole dei malignatori, senza tener conto definitivo delle insinuazioni non documentate. Ma non è uomo da respingerne alcuna a priori, per impulso di incondizionata fede, neppure verso i suoi più prossimi.
Si stringe nelle spalle. «Peuh, dopo tutto, é impossibile. Perché no? Ne ho viste tante... ».
E le labbra si piegano alla smorfia nauseata: la smorfia puerile in fondo, tanto é vivace e spontanea, di quando racconta il tradimento, compiuto su lui ignaro dal suo compagno di giochi. Forse ancora assapora quel primo sangue.

"Tranne i casi di tradimento o le defezioni all'italianità, mai lo intesi inveire contro alcuno per colpa alcuna. Evita rigorosamente la ingiustizia, e la reprime con severità, per ribrezzo personale e come norma di savio governo, ma non lo vidi mai sdegnarsi per l'abuso o il sopruso patito da un singolo, ne fosse egli stesso la vittima. In fondo al cuore sa che l'ingiustizia individuale é il canone attraverso il quale la natura realizza i giusti compensi verso la specie. L'ideale sociale deve attenuarla, non puo sterilmente infuriare a sopprimerla.
Questo insieme di tollerante indifferenza ha per radice un disprezzo inesorabile. Ha pesati gli uomini, e li trovo mancanti. È un tragedia interiore in cui risiede la patetica nobiltà del suo destino di uomo, nato per il comando.

"Persino tra le attività della sua cultura - vasta, esatta e profonda benché la dissimuli sotto la civetteria di «sono ignorante, sono molto ignorante» da quell'unico autodidatta non pedante che io abbia mai incontrato - e persino tra le forme dell'arte, predilige quelle a fondo politico: la storia, che é politica condensata; l'architettura, che é politica pratica per i suoi scopi sociali; il teatro e la musica drammatica, che nel momento della loro durata dànno intero in dominio l'animo delle moltitudini.
Agli artisti - non agli uomini d'azione - é dato sapere quanto Femio aedo, cieco solingo al remoto angolo della mensa ospitale, sia superiore al divo Ulisse nel suo seggio d'onore. La spada del re eroe é un mito incerto, la verità di Femio-Omero scalfisce i millenni, nel modo che solo dura. Questo lato dell'arte, la penetrazione in un mondo superiore a quello della contingenza dove la politica domina; questo lato sovrano, la rivelazione dell'inconsolabile e la presa di possesso dell'eterno: il contatto, religioso e diretto, dell'uomo con Dio; questo lato, l'uomo d'azione lo ignora con ironia benevola. Forse, é il suo dovere.

"E l'unica comunione profonda di questa entità chiusa con altre entità; il solo modo che le rimanga, di intendere addentro la parola asiatica della identità, é ancora attraverso gli esseri cari, che non considera suoi uguali, ma sue creature, intimamente sue: la donna, i bimbi. Benché abbia dato alle donne, con molta generosità, il diritto di suffragio amministrativo, al condottiero romagnolo la donna appare tuttavia sempre, da egoista maschile, in funzione di persona bella e destinata a piacere. «È il primo diritto di queste creature adorabili, per le quali solo vale la pena di stare al mondo. E se la donna non piace, é malinconica, e diventa nervosa a ragione», proclamo, eccitando ira e dispetto, nella conversazione con Lady M., la femminista inglese. «Con queste idee, non fareste fortuna in Inghilterra». "Io in Inghilterra non ci vengo, e del resto, non credo che neppure in Inghilterra le donne siano tutte quacchere politicanti. Guai se al mondo, noi uomini non avessimo il riposo delle anime femminili».
E nei bimbi, egli onora la potenza fragile e commovente del formidabile domani.
Al tempo della guerra, ricordo, il caporale Mussolini, a cui qualcuno faceva presente di non esporsi troppo «anche per i suoi bambini» rispondeva con brusca sincerità: «Che importa? Giusto perché ho i miei bimbi, posso morire. È questo il pensiero che mi dà la maggiore tranquillità: sono continuato".

"Non è il pavido amore che serve di alibi alla conservazione personale; chi é molto pieno di vita e di forza non teme la morte. Sente, dentro di sé, che non può veramente venire annullato. .
Pensando alla morte, gli intesi esprimere, come già dissi, il rimpianto del sole, la terra, il cielo. Mai delle cose; mai di persone.
"Quando io battaglio fido nelle mie forze, solo nelle mie forze. Sono un individualista che non cerca compagni. Ne trova, ma non ne cerca. Disprezzo la paura dell'isolamento, questa tendenza a star bene nel branco».

"Per amare il prossimo, per compatirlo, bisogna considerarlo con indulgenza, e in qualche modo divertirsene, come di una perenne canzonatura pratica del Padre Eterno; o illudersi sul suo conto, o accettarlo imperfetto, così quale é.

"Ma come potrebbe egli amare gli uomini? Li vede quali sono, con spietata chiaroveggenza. E perché li governa pretende di migliorarli, e si é fatta dell'Italia, in astratto, una idea così grande e sublime, che noi poveri italiani vivi non possiamo non offenderla. I Profeti di Israello non potevano non vituperare i loro contemporanei del popolo eletto".

"Tre sono i caratteri della sua persona morale:
l'ambizione lo sostiene e lo divora;
la grandezza gli é metro ed essenza;
il disprezzo, ombra e remora.

"Nulla che sia meschino alligna in lui. E perché nella vita non mercanteggia, e il prezzo che per ogni cosa bisogna pagare, lo conquista e paga ad ogni costo, ottiene le cose grandi, le cose importanti, alle quali sole rivolge la sua ambizione di fama - l'illusione estrema delle immortali anime - il desiderio di scolpirci in gloria, che nobilita il bruto delle caverne. Sorride talora con ironia. «Se tutto sarà andato bene, fra trent'anni avrò forse un busto, per i convegni di balie e di serve in qualche giardino. - "Ci incontriamo dietro il busto di Mussolini alle otto", diranno gli innamorati. Una bella soddisfazione!».

"Pausa e silenzio:
«Che cosa ho fatto, dopo tutto, sinora? Nulla. Sono un piccolo giornalista e un ministro, per ora, come tanti altri - dice l'incontentabile-. Bisogna dare un ordine a questo popolo. Allora avrò assolto un compito. Mi sentirò qualcuno».

Altra pausa. Altro silenzio. E una lieve contrazione del volto:
«Eppure, sì!» dice quest'uomo d'azione tipico, divenendo grave. « Sì » , dice il Capo, e gli occhi sfavillano d'un fuoco interiore appena frenato dalla volontà.
«Sì. Sono posseduto da questa smania. Arde, mi rode e consuma dentro, quale un male fisico: incidere, con la mia volontà, un segno nel tempo, come il leone con il suo artiglio: così».
E le mani
si affilano
nel gesto
diritto
e rapido".
( Margherita Sarfatti, Dux. Anno 1926 )

 

BREVE BIOGRAFIA

 


Si chiamava MUSSOLINI,
il suo nome BENITO

atto di nascita


Il Padre, Alessandro Mussolini, fabbro, - con inclinazioni rivoluzionarie e una solida fede socialista - ammirato dalle gesta di Benito Juarez, impose questo nome al  suo primo figlio quando nacque il 29-7-1883 a Varano dei Costa a Dovia, frazione di Predappio. Sua moglie, Rosa Maltoni, che aveva sposato nel 1882, fu insegnante e madre di questo bambino (in mezzo a molta miseria - dove metà della popolazione di Dovia nell'arco di pochi anni era quasi tutta emigrata in Brasile), fu anche nei primi due anni maestra di suo figlio, lei insegnava le 3 scuole elementari dentro due locali sopra l'officina del marito in quella fatiscente casa che nella fotografia abbiamo visto sopra.
Poi nel 1892 a 9 anni iscrisse il bambino nella Scuola dei preti Salesiani. La moglie fece credere al marito che si trattava di una scuola laica, visto che lui sicuramente non avrebbe mai permessodi frequentare una scuola di preti. Ma anche il figlio benchè decenne, non è che ne era entusiasta non sopportava le quotidiane pratiche religiose. Ragazzo irrequieto e spesso con qualche zuffa con i compagni più le varie punizioni che si prese, mise fine alla frequenza nell'istituto già in quarta elementare. Dai preti fu descritto come: "Giovane irruente, impulsivo, ribelle, ma molto intelligente" anche se una nota del direttore inviata ai genitori in negativo puntualizzava che "...la sua natura non é acconcia a un sistema di educazione di un Collegio Salesiano".
Fu così iscritto al collegio Giosuè Carducci a Forlimpopoli dove l'insegnante era proprio il fratello del Carducci, Valfredo. Qui concluse la quinta elementare, poi frequentò le superiori nello stesso istituto, prima come interno poi come esterno. Ma anche qui non fu uno scolaro modello. Frequenti furono gli atti di indisciplina e le punizioni.

In questa scuola di lui, come ragazzo, gli amici coetanei dicevano "non discute, picchia". Ma era - é lo stesso Carducci a dirlo - anche intelligente ed estroso, fin troppo, visto che a scuola in un tema "Il tempo è danaro" fece lo svolgimento in una sola riga su un pezzetto di carta che consegnò all'assistente dove si leggeva; "Il tempo é moneta, perciò vado a casa a studiare geometria, perché sono vicini gli esami, non le pare signor professore la cosa più logica?". Che sembava una presa in giro, ridicolizzare chi aveva proposto quel tema.
Il Consiglio dei Professori, riunitosi d'urgenza per mantenere alto il prestigio della scuola e il rispetto verso coloro che la frequentavano, sospese dalle lezioni per dieci giorni il ragazzo e inviò al padre una nota che raccontava il fatto, comunicava la sospensione e concludeva "voglia provvedere acciocchè il Figlio Suo non resti inoperoso per tanto tempo".

Ma il ragazzo non studiava solo Geometria, ma - attingeva ai libri del padre - un uomo che badava più alle idee che ai quattrini - e proprio per questo era già stato vittima politica, scontando mesi di carcere. In un seggio di una elezione, con l'irruenza contestando il conteggio dei voti, sfasciò tutti i contenitori delle schede, guadagnandosi l'arresto. (e in galera ci finì poi - e più volte - anche il figlio.

Leggeva in casa Benito i tanti libri del padre. E sempre con smania d’emergere soprattutto quelli di politica, soprattutto socialista, poi aderì al marxismo, agli allora socialismi più vari, all' attivismo anticlericale e a quello antimilitarista.
Divenne infine Maestro, ma il fascino di arringare la folla era il suo debole, tenne discorsi celebrativi su Verdi, Garibaldi e tanti altri, che entusiasmavano i presenti con le sue arringhe, dove poi, quasi sempre, lui sconfinava nella politica più accesa, coinvolgendo le masse con i suoi caratteristici atteggiamenti e con una passionale oratoria.
L' "Avanti" il quotidiano socialista quando tenne il discorso su Verdi, riportò sul giornale l'applaudito intervento del "Compagno" Mussolini. Lui amava la folla!! E sapeva pure cos'era la folla, già a 18 anni.

Mussolini su "Psicologia della folle"
di Gustav Le Bon aveva imparato tutto. Sarà lui più tardi, quando era salito al potere come Duce, a confermarlo "Ho letto tutta l'opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua "Psicologia delle folle" E' un opera capitale alla quale ancora oggi spesso ritorno". ( qui l'intero testo di LE BON > > )

Ma anche - più tardi - in una sua curiosa edizione su "MACHIAVELLI - Il Principe" ( vedi > > > )
Lui in queste pagine su Machiavelli, è piuttosto singolare. E non per niente per avere una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare proprio lui Mussolini. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera del Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo.
Nelle tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del popolo al fascismo !!
Il curioso, raro e singolare libretto (che possediamo) lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche): sulla dubbia validità del potere esercitato dalla "sovranità popolare", e sulla utopica "democrazia popolare".
Per Mussolini il Principe del suo tempo è lo Stato. E lo Stato è il Principe, cioè - nei tempi moderni - Lui e solo Lui.
(Siamo lontani da quando (1905) - prima come anarchico poi come socialista - esaltava il proletariato come futura classe dominante, e faceva l'apologia della "rivoluzione violenta" indicata dalla dottrina di Hengel che presentava nella sua teoria la "morte dello Stato")
"La sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua (es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio). Mentre quando gli interessi supremi sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna".

Andiamo avanti.....

Diplomatosi maestro, come supplente insegnava a Gualtieri (che era il primo comune conquistato in Italia dai Socialisti), ma presto, pur avendolo i socialisti nominato Capo Sezione, ma anche perchè non gli avevano più rinnovato la supplenza, Gualtieri come disoccupato gli venne a noia e il 9 luglio 1902 emigrò in Svizzera a Losanna come ormai facevano tanti disoccupati. All'inizio trovò lavoro come manovale presso una fabbrica di cioccolato nella vicina Orbe quasi sul confine. Entrava alle 6 del mattino e terminava alle sei di sera: 12 ore; lui non era abituato a lavorare tantomeno a così tante ore. La sera - racconterà in seguito - avevo le mani gonfie. Dopo una settimana si licenziò e tornò a Losanna nel quartiere dove vi erano tanti suoi connazionali che facevano i muratori, i minatori, gli artigiani. Iniziò a vivere due anni e mezzo senza risorse, in giro a fare il disoccupato, il poveraccio, anche se racimolava qualche soldo facendo l'insegnante di italiano agli immigrati. Ma non sempre guadagnava abbastanza per sfamarsi; tuttavia frequentava assiduamente e con molto interesse le lezioni di economia-politica di VILFREDO PARETO (qui tutto da leggere >>> ) il grande economista-sociologo che insegnava proprio a Losanna. E proprio a Losanna, avendo pochi soldi per pagarsi un affitto, preferendo usarli per sfamarsi, lui nelle notti si sistemò sotto le arcate di un ponte. La gendarmeria lo fermò, gli fece fare due giorni in cella poi lo lasciò libero visto che aveva i documenti in regola, e anche qualche soldo in tasca. Ma comunque lo schedò - con foto segnaletiche - al pari di un delinquente. (Lui si sentì offeso, indignato di un simile trattamento).

Molti anni dopo, già al Governo, nel fare una visita di Stato, portando i suoi pari al balcone dell'Hotel dov'era ospitato, indicò agli imbarazzati funzionari svizzeri presenti, le arcate del ponte visibili dalle finestre: "dormivo lì, non facevo male a nessuno, ma mi avete arrestato , come se fossi un delinquente".

Nelle varie ore perse iniziò a frequentare la redazione dell'Avvenire del Lavoratore, conobbe i socialisti; il segretario dovette aver pena per lui nel vederlo smunto; gli diede non solo qualche soldo ma gli procurò anche un letto. Poi lo invitò a collaborare, a scrivere qualcosa per il giornale. Lui non si fece pregare, pochi giorni dopo usciva un articolo firmato.... Benito Mussolini.
E questo non fu solo l'inizio di giornalista ma anche della militanza socialista. A Losanna ci rimase 2 anni, scrivendo articoli, tenendo dei comizi, facendo dibattiti, che gli diedero una certa popolarità. Volle lasciare Losanna per Ginevra; Questo perchè aveva conosciuto una ragazza che frequentava medicina all'Università di Ginervra e volle raggiungerla, inoltre a Ginevra vi era una grande biblioteca dove andava spesso ad "abbeverarsi", a divorare libri, o a seguire corsi di Sociologia. Poi rientrò a Losanna.

In quel periodo leggeva molto. Sue letture preferite: Nietzsche, Marx, Schopenhauer. E scriveva anche molto. Ma nei suoi primi scritti non esordisce rivoluzionario; usa però il gergo socialista che ha assorbito a casa e nella redazione del giornale. Ma in questo primo periodo svizzero questo suo gergo inizia a essere originale soprattutto quando i dibattiti fra riformisti e rivoluzionari si fecero roventi tacciandoli di essere inconcludenti.
Poi più tardi con le varie scuole, le varie dottrine, le frequentazioni e le letture più diverse Mussolini lo ritroveremo già autonomo, con una sua ideologia già in embrione.

Durante i 2 anni in Svizzera, fece una breve visita in Italia alla madre malata, ma aveva 21 anni e a casa trovò la cartolina di leva. Per evitare il servizio militare, contraffece la data sul passaporto e riespatriò in Svizzera, ma il documento falsificato fu scoperto alla frontiera dalla gendarmeria, fu arrestato e poi espulso, mentre nel frattempo in Italia lo condannavano per diserzione.
I giornali socialisti forlivesi enfatizzarono, uno scrisse: "E' stato cacciato dalla Svizzera il socialista Mussolini, il grande DUCE della "Prima" sezione socialista d'Italia". Era la prima volta che veniva usato il titolo di "duce", che ricordavano gli antichi condottieri romani, ed era anche la prima volta che veniva indicato come "grande". Mussolini aveva poco più di vent'anni ed entrambi i due titoli non gli dispiacquero proprio per nulla. Anzi !!

In Italia, ci fu proprio in quell'anno l'amnistia per i reati anche di diserzione. Provvidenziale perchè gli evitò una condanna, ma il soldato dovette farlo, a Verona nel 10° reggimento bersaglieri. Nei 2 anni che si fece ci stava apparentemente bene, tanto che si prese perfino le lodi e i gradi di caporale, ma era di idee antimilitariste e predicava pure la diserzione quando scriveva agli amici. Proprio per questo era guardato a vista dai comandi militari.
Poi congedato, fece il maestro a Tolmezzo, ma poi anche lì divenne insofferente all'ambiente.

Lo andò poi a fare il maestro a Oneglia, in Liguria, dove si mise a dirigere con impegno anche un piccolo foglio socialista "La Lima". Qui scopre la sua "strada", il giornalismo "rovente" anticlericale, infatti, negli articoli si firma "il vero eretico", con accuse ai preti di essere i "gendarmi neri al servizio del capitalismo". Durante gli scioperi accennati all'inizio, Mussolini entra subito in diverbio con i socialisti, che sono già divisi in varie correnti.
A un capo crumiro, tenendo una mazza in mano minaccia di spaccarlo in due, l'altro non sta al gioco, va a denunciarlo, e la sera stessa è arrestato, processato per direttissima e condannato a 3 mesi. Conosce il carcere per 15 giorni; uscito, più baldanzoso che mai si ributta in politica, ma alla fine emigra nuovamente all'estero, a Trento (allora austriaca) dove passa intere giornate nella biblioteca comunale a leggere storia e saggi politici, e nello stesso tempo è impegnato a studiare pure il violino ("se diventerò bravo ho un mestiere di riserva"), infine trova la tanto sospirata occasione di poter dirigere un foglio. E' il febbraio del 1909. Qui a Trento rimarrà fino al settembre dello stesso anno.

Il foglio era "L'Avvenire del lavoratore" socialista, gli da' impulso, dinamismo, fa raddoppiare le copie del giornale. CESARE BATTISTI il più attivo del socialismo trentino che dirige a Trento il "Popolo" lo scopre e lo vuole con se'; lo nomina Redattore Capo. E proprio Battisti nel presentarlo per la prima volta sul suo giornale, lui così lo descrive, "é uno scrittore agile, incisivo, polemista, vigoroso, con una buona cultura, multiforme e moderna", ma dopo appena qualche settimana, Mussolini gli diventa scomodo, incontrollabile e perfino pericoloso, perché questo suo redattore é impulsivo, interviene con rudezza con tutto il peso delle sua presa di posizione estrema e rigida che inaspriscono le polemiche con gli austriaci per l'autonomia del trentino, mentre lui Battisti sta operando in un modo più diplomatico, pur dicendo velatamente le stesse cose. Inoltre Battisti non voleva inimicarsi troppo il clero locale, molto legato all'Austria. Ma non è che rompe del tutto con lui i rapporti, ma dopo un mese Mussolini già non scrive più sul suo giornale.

A Mussolini, Trento, gli sembrò troppo clericale, e aveva anche una profonda avversione per un giovane leader dei cattolici. Questo giovane era Alcide De Gasperi capo dei popolari cattolici fermo oppositore dei socialisti, che dirigeva Il Trentino e dalle sue colonne  rimproverava gli insulti che lanciava il suo collega; ma Mussolini con i suoi articoli a sua volta lo attaccava, lo definiva "pennivendolo", "uomo senza coraggio", "un tedesco che parla italiano, protetto dal forcaiolo, cattolico, feudale impero austriaco e quindi un servo di Francesco Giuseppe".

L'attacco ai preti intanto continuava. Gli avversari politici lo chiamavano "il cannibale dei preti", e quando in un paesino di Trento si scoprì una storia boccaccesca fra una contadina (in vena di santità) e il parroco locale, che l'aveva messa incinta più volte, Mussolini con la sua vena di scrittore salace, irriguardoso e fantasioso scatenò un putiferio nel raccontarne i retroscena, con il preciso intento di ridicolizzare tutto il clero locale.

In questo clima rovente, come agitatore più che polemista, che metteva a rumore la città trentina, Mussolini non poteva durare, infatti, la gendarmeria austriaca su segnalazione di anonimi, l'accusò assieme ad altri suoi amici socialisti del furto in una banca, gli perquisirono l'abitazione, forse trovarono manifestini anti-austriaci, e alcune copie del suo giornale che andava spesso sotto sequestro, trovarono insomma una "giusta causa" e una vaga motivazione per arrestarlo e sbatterlo in prigione. Dopo aver odiato gli svizzeri, Mussolini in galera iniziò a odiare i trentini-austriaci, soprattutto quando, pur non provata né trovata nessuna accusa sui fatti addebitatigli, seguitarono a tenerlo in carcere senza un preciso motivo. Tanto che per protesta, e informando i socialisti con chissà quali mezzo, iniziò a fare un plateale sciopero della fame per attirare l'attenzione.

Per non farlo diventare un pericoloso martire dei socialisti o creare incidenti diplomatici con l'Italia, i gendarmi austriaci il 26 settembre dello stesso anno 1909 lo accompagnarono con i soli vestiti sdruciti addosso al confine di Ala, e lo diffidarono a non mettere più piede nella terra del Kaiser. Mussolini raggiunta Verona a piedi, chiedendo e racimolando qualche soldo alla stazione per il viaggio in treno, rientrò a Forlì, dove visibilmente umiliato passò l'inverno ad aiutare il padre vedovo a servire clienti in un osteria gestita assieme a una certa Annina Guidi, una sua vecchia amante, che morta la moglie si era poi deciso a viverci insieme, gestendo con lei appunto la sua trattoria. Un antico rapporto questo, fino al punto che alcuni mormoravano che da lei aveva avuto quella bimba cui avevano dato il nome di Rachele, e che la donna allevò.
Benito aveva conosciuto Rachele bambina prima di andare in Svizzera, ora al suo rientro l'aveva ritrovata donna e piuttosto attraente; le sue attenzioni furono pari a quelle della fanciulla che a sua volta si invaghì presto del fratellastro.
Forlì gli stava stretta e lo divenne ancora di più quando anche in questa città lo arrestarono e lo misero di nuovo in carcere per quindici giorni per aver fatto un comizio non autorizzato.

In quel comizio, teorizzava la rivolta, e incitava a dare alle fiamme il Codice, ne auspicava un altro con nuove leggi. Il suo attivismo lo portava a porsi al di sopra delle comuni norme, e quindi auspicava la "necessita' della rivolta". Leggendo Nietzsche  lo aveva colpito una frase "vivere pericolosamente", e ne fece il proprio motto, tanto che pubblico' un saggio in tre puntate sul giornale "Pensiero Romagnolo", "La filosofia della forza", dove troviamo il pensiero del filosofo tedesco (il superuomo nicciano) che indubbiamente lo aveva affascinato e conquistato. Altrettanto quello di G. Sorel in "La funzione della violenza nell'agire storico". Più si bevve tutto d'un fiato - e lo assorbì centellinandolo - il suo autore preferito: Le Bon "Psicologia delle folle" VEDI > > ).


In carcere in quei pochi giorni dove era stato ospite utilizzò il tempo a scrivere. Dopo l'esperienza fatta a Trento, dove si era documentato storicamente di un certo periodo della vita politica di quel paese, scrisse un breve satirico romanzo proprio sul Trentino. Cesare Battisti a Trento lo pubblicò a puntate sul "Popolo", versandogli 15 lire a puntata, e che il pubblico lesse avidamente. Era un racconto fantapolitico "Claudia Particella, l'Amante del Cardinale", un modo per fare la "sua" feroce propaganda politica anticlericale, irridendo i cattolici e i bigotti.

Ma Forlì dopo le vicende del carcere gli divenne antipatica, anche perchè inutilmente bussò a tutti i giornali; infine pensò di emigrare anche lui in Brasile, come avevano fatto tanti abitanti di Dovia il suo paese. Aveva tanti vecchi amici di infanzia che appunto in Sud America poi erano emigrati, e non gli sarebbe stato difficile raggiungerli e avere nello stesso tempo un punto d'appoggio.

Valutò pure di accettare un posto come messo comunale ad Argenta; "sono stanco di stare in Romagna e sono stanco di stare in Italia", scrive a tutti; poi all'improvviso il 9-1-1910 la federazione socialista di Forlì lo nomina segretario della federazione e gli fa dirigere i quattro fogli di "Lotta di Classe". Mussolini ne è entusiasta, vede già il suo successo, ne è convinto, è sicuro di sè, si sbilancia anche troppo scrivendo "alla prossima ventata spazzerò via Giolitti", ed economicamente non teme più il futuro perchè gli danno 120 lire al mese; tanti da mettere su anche famiglia; infatti dopo 8 giorni dalla nomina, una sera torna a casa e presa Rachele sotto braccio, comunicò al padre e alla matrigna che sposava la sorellastra Rachele "senza vincoli ufficiali, ne' civili, ne' religiosi", e con una pistola in mano minacciò in caso di diniego il duplice suicidio. Ovviamente l'ebbe vinta. La notte stessa prese da casa due lenzuola, quattro piatti con le posate, la rete di un letto e con Rachele si trasferì in una stanza in affitto con cucinino a 15 lire il mese; insomma "mise su casa". Era il 17 gennaio del 1910.

Mussolini aveva 27 anni, Rachele 17. Puntualmente dopo 9 mesi, il 1° settembre 1910  nasceva Edda. 27 giorni dopo si svolse lo sciopero di Forli!
(quello che abbiamo già accennato in apertura) con Mussolini attivista in prima fila a contestare contro la guerra turca a Tripoli e Bengasi; per gli sbirri questa volta era un po' troppo; scattarono le manette. C'erano stati violenti tafferrugli, tanto da registrare alcuni morti e molti feriti. Mussolini finito in galera al processo volle difendersi da solo; tuttavia non evitò di prendersi 5 mesi di prigione. Ma ciò che ne seguì diede a Mussolini una fama non solo a Forlì. La galera gli fu utile per trasformarsi in vittima, in martire e quindi diventare ancora più popolare. (Hitler nel '23, a Monaco ottenne lo stesso risultato: il processo, la condanna e la galera per il putsch della birreria, si trasformò in un suo trionfo).

In Romagna i proprietari terrieri avevano iniziato ad usare le macchine agricole, soprattutto le trebbiatrici, lasciando così a spasso senza lavoro i poveri braccianti. E lui Mussolini si era schierato con questi deboli, per la "Lotta di Classe!".
Proprio a Dovia apparve una trebbiatrice che faceva il lavoro di 100 contadini, e questi lasciati a casa fecero delle proteste, e alla guida di queste c'era lui Mussolini.
I socialisti parlavano di queste cose, ma solo a parole. Il riformismo di Turati lo chiamava Mussolini "quello delle tagliatelle", che dopo tante chiacchiere si integravano nel sistema, patteggiavano con i mezzadri e i padroni, altro che "sindacalismo rivoluzionario" o "socialismo sociale", stavano diventando anche loro dei borghese e Mussolini li odiava per questo.

Lui si sentiva un socialista vero, quello dell'azione, della lotta senza quartiere contro i capitalisti, lo Stato, e la Chiesa, considerati tutti nemici del proletariato; producevano ricchezze ma erano esclusi i lavoratori.
Nel 1910 gli scontri si fecero duri, i mezzadri patteggiavano con i padroni e i braccianti sempre di più a spasso. Intervennero i soliti parolai, ci furono durissimi scontri, scorse del sangue, ma i socialisti ne uscirono sconfitti. E Mussolini abbandonò il partito, anche se venne a trovarsi isolato. "Socialista rivoluzionario" era rimasto solo lui. Erano i giorni della guerra italo-turca, che avrebbe ingrassato ancora di più i capitalisti con la vendita delle armi e, come al solito mandando a morire il proletariato. E proprio mentre caricavano questi sui vagoni, Benito il figlio del fabbro 27enne, e un giovane di 20 anni che era vissuto fino allora in un orfanotrofio, Pietro Nenni, si sdraiarono sui binari per non far partire il treno. Furono entrambi arrestati, processati e mandati in galera. Dove ebbe - con sentimenti antiparlamentari - il tempo di riflettere scrivendo: "Il Paese soffre gli stessi mali del Parlamento; é stanco, esaurito, sfiduciato".

Durante i 5 mesi di prigione, per Mussolini la noia non era una sua amica; leggeva moltissimo, e scriveva pure, e fra questi scritti compila una sua biografia; eccone una singolare paginetta: "Ho avuto una giovinezza avventurosa e tempestosa. Ho conosciuto il bene e il male della vita. Mi sono fatto una cultura e una salda scienza. Il soggiorno all'estero mi ha facilitato l'apprendimento delle lingue moderne. In questi dieci anni ho deambulato da un orizzonte all'altro: da Tolmezzo a Oneglia, da Oneglia a Trento, da Trento a Forlì. Sono tre anni che mi trovo a Forlì e già sento nel sangue il fermento del nomadismo che mi spinge altrove. Io sono un irrequieto, un temperamento selvaggio, schivo di popolarità. Ho amato molte donne, ma ormai su questi amori lontani si stende il grigio velo dell'oblio. Ora amo la mia Rachele e anch'essa profondamente mi ama. Che cosa mi riserva l'avvenire?" ( Benito Mussolini, La mia vita ).

Mussolini diventa così popolare negli ambienti "socialisti veri" che nello stesso 1912, appena uscito dal carcere, lo troviamo subito dopo a dirigere proprio l'organo del partito socialista L'Avanti. Si fa  portavoce del proletariato ed inizia il 7 gennaio 1913 una feroce campagna contro "gli assassinii di Stato". Con indignazione si era scatenato per gli incidenti mortali  verificatisi durante gli scioperi dei lavoratori che chiedevano miglioramenti salariali, riduzioni d'orari, previdenze, pane e lavoro. Conflitti dove scopriamo all'interno di queste manifestazioni  non solo una forte tensione sociale fra padronato e operai, ma anche la prima forte spaccatura ideologica dentro i sindacati socialisti, tra i riformisti e i rivoluzionari. Due correnti di pensiero che divideranno in eterno le sinistre; e non solo quelle italiane.


Poi nel '14 giunse la ferale notizia da Sarajevo. Lo spettro di una guerra in Europa in pochi giorni prese corpo. Ma l'inizio di quella che doveva essere per tutti una breve guerra di pochi, si trasformò ben presto -dopo le prime battute- in una guerra mondiale che andrà a cambiare il mondo. Crolleranno in seguito tre imperi, il Reich tedesco verrà sbriciolato, muterà l'intera politica del vecchio continente, nasceranno due grandi influenze ideologiche e l'intera economia mondiale inizierà a prendere due sole direzioni; che non viaggeranno in parallelo, ma inizieranno a correre una contro l'altra fino al grande scontro ideologico nei successivi anni. Ognuna, durante questo lungo viaggio militare cercando -con tutti i mezzi- di allargare il proprio regno; che questa volta non è quello di uno Stato, nè quello di un solo Continente, ma di più continenti ed è in gioco l'egemonia sull'intero Pianeta. Una lotta che ben presto (terminata la prima, ma poi anche con la seconda "Olimpiade della morte") sarà ingaggiata più solo da due giganti: Usa e Russia.

MUSSOLINI dallo stesso giornale, il 20 settembre 1914 lo troviamo prima contro l'intervento in guerra dell'Italia, promuovendo perfino un plebiscito pacifista, poi subito dopo - la svolta - il 18 ottobre 1914 (l'articolo é una "bomba") lo troviamo improvvisamente schierarsi a favore; titola sul suo "Avanti" "da una neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante" (cioè diventa inteventista) che gli costa la radiazione dal giornale e dal partito PSI.
Era un socialismo quello del PSI neutralista ad oltranza, che già in crisi con la disgregazione dell'Internazionale socialista (infatti i socialisti in Germania si sono invece schierati per la guerra) messo di fronte alle scelte sull'intervento in guerra, che tutti ormai consideravano imminente, e anche nelle alte sfere necessaria per biechi motivi, avevamo trovato - il Partito Socialista Italiano -  schierarsi contro la guerra, e iniziata questa, a promuovere il disfattismo per l'intero periodo. Ma fin dall'inizio lo troviamo ad andare verso il suo immediato ma anche futuro fallimento. Altro che socializzare con una rivoluzione l'Europa !

Mussolini non é disposto ad accettare questo fallimento né le limitate vedute di molti dirigenti del suo stesso partito.
L'idea che si é fatta Mussolini (ed é l'unico ad avere una certa lucidità in anticipo sui tempi) é che la rivoluzione socialista é fallita prima ancora di iniziare, e mai il socialismo potrà uscire dalla guerra, vinta o persa che sia, con nuove prospettive. Il "Socialismo Sociale" era una utopia con quelle persone inette com'erano.

Le masse - andava già dicendo Mussolini -  "i milioni di individui (già presagisce che non sarà breve! e gravi di conseguenze - (saranno infatti poi 5 milioni e mezzo di italiani reduci dalla guerra) dopo aver combattuto, potranno imporre domani, a vittoria ottenuta, la propria pace alla borghesia con tutte le carte in regola, perché avranno una propria forza autonoma per farlo, e non avranno bisogno.... di "questi" socialisti. Mentre anche a guerra persa le colpe ricadrebbero invece sui socialisti, che il conflitto non lo volevano e hanno sempre disprezzato chi era stato chiamato a parteciparvi".

Insomma i socialisti erano dentro un vicolo cieco. Questo in sostanza aveva sostenuto Mussolini alla vigilia del conflitto, e il ragionamento era impeccabile (e profetico); ma il guaio grosso fu che la guerra che doveva essere "lampo" fu invece lunga, inoltre quando finì terminò in un modo anomalo, non accontentò proprio nessuno; infatti i vincitori (per come furono trattati a Versailles) si ritrovarono in mano quella che fu poi definita una "vittoria mutilata". Le briciole di un lauto pasto che gli altri avevano consumato. Più una montagna di debiti che i vincitori pretesero, e che sarebbero andati fino al 1988 !!!
In altre parole, una frustrazione per chi l'aveva sostenuta  la guerra e anche combattuta (Mussolini e i 5,5 milioni di Italiani), fu anche un regalo per chi aveva remato contro e profetizzato il totale fallimento, convinti di poter fare dopo la guerra la rivoluzione del proletariato. (questo accadrà poi anche alla fine della 2nda G.M. - Il 25 aprile del '45)

Il 15 novembre del 1914, dopo l'articolo "bomba" e dopo la radiazione all'Avanti, MUSSOLINI fonda a Milano il Popolo d'Italia (finanziato e non del tutto disinteressatamente dalla Edison, dalla Fiat di Agnelli, dall'Ansaldo dei fratelli Perrone ecc. ecc.) con un indirizzo antisocialista, e con iniziali palesi appoggi all'irredentismo che va predicando D'Annunzio e De Ambreis (Ma poi con la "Vicenda Fiume "Mussolini prenderà le distanze dai due "rossi" - vedi annali partendo dal 1919).

Il 6 maggio del 1915, l'altra "bomba": Mussolini esce con l'articolo "E' l'ora". Poi abbandona non del tutto il giornale e molto coerentemente con quello che ha scritto, si offre volontario.
(dove terrà un diario di guerra fino al febbraio 1917)

Non è il solo, parte D'Annunzio, parte Marinetti, e parte Cesare Battisti che incita "tutti al fronte con la spada e col cuore", poi in agosto parte finalmente anche Mussolini.
C'è in questo slancio forse anche un motivo umano, lui odia gli Austriaci; il suo é anche  un conto personale da regolare! I giorni di carcere a Trento, le accuse infamanti, e le umiliazioni ricevute hanno lasciato il segno! 

Al fronte Mussolini non ha la vita molto facile, sia con i soldati che lo ritengono un interventista e sia con lo Stato Maggiore che diffidano di questo ambiguo soggetto fino a ieri a sinistra come oppositore all'intervento. Era nota la sua renitenza, noto il suo antimilitarismo nelle piazze,, e noto il suo passato di socialista. 
Al Distretto non si fidano proprio. Senza tanti riguardi al suo diploma di maestro e al suo mestiere di giornalista lo mandano al fronte, come soldato semplice col grado di caporale.

Nei 16 mesi di guerra, per quaranta giorni Mussolini va anche in trincea, sul Carso, in prima linea sotto le granate austriache; dove qui si guadagna perfino il nastrino.
Nel febbraio 1917 una sventagliata di schegge, non proprio del nemico, ma di un cannone difettato, lo colpisce. Resta gravemente ferito. Trascorre in stampelle quattro mesi all'ospedale di Ronchi. Qui nel portare conforto ai feriti troviamo una visita di  Re Vittorio Emanuele III. Di certo non immagina nemmeno lontanamente, nel preoccuparsi della salute e nello stringere la mano a questo semplice caporale sulle grucce, di trovarsi di fronte all'uomo che fra soli 5 anni legherà il suo destino a quello di Casa Savoia e metterà fine a tutta la sua dinastia millenaria. Il Destino se era da quelle parti a fare qualche scherzo, quel giorno ne organizzò uno dei più singolari: l'incontro tra i due!!

Dopo la convalescenza, MUSSOLINI rientra al giornale nel luglio 1917. Le cose in Italia sono molto cambiate nel frattempo, l'interventismo, dopo tre anni di guerra, quasi inutili sul piano militare e politico, é in crisi, e sembra - soprattutto con la disfatta di Caporetto- che il disfattismo socialista fra le masse trovi un buon appoggio. Così andava dicendo Cadorna - punendo i codardi con la decimazione (1 su 10) con la fucilazione - per giustificare i tragici rovesci. Dovuti proprio a lui nel mandare allo sbaraglio uomini e anche a terrorizzzaregli stessi soldati, anche innocenti con le decimazioni.

Ma non era l'opinione di Mussolini, molto attento, si accorge che le masse hanno avuto uno scollamento dal socialismo e che questo (dopo la disfatta di Caporetto del 24 ottobre) non possono di certo aspirare in una rivoluzione dopo una guerra persa.

Infatti le cose cambiarono, per tanti motivi, interni ed esterni. La sostituzione di Cadorna con Diaz, ma anche per tante altre coincidenze a favore. L'entrata in guerra degli Usa, la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, le Germania in difficoltà (più politicamente che militarmente), e l'Austria in uno sfacelo materiale e psicologico, ecc. ecc.
E ci si mise anche la terribile "Spagnola", l'epidemia che fece più morti dell'intera guerra. Soprattutto in Austria dove ne morirono 2 milioni. Mentre nelle file dei combattenti austriaci i più colpiti erano gli anziani generali (il 60-80%) che lasciarono sul campo i reparti senza più una guida, nè questi soldati allo sbando avevano più voglia di combattere, ma la voglia di arrendersi agli italiani meno colpiti (questo fu dovuto al fatto che nell'alimentazione gli italiani usavano moltissimo una dieta che includeva moltissime verdure e frutta (un utile antidoto con la vitamina C alla micidiale influenza) - (ma solo negli annali di medicina vengono riportate queste cifre e queste considerazioni, ignorate per non diminuire la "Vittoria" ottenuta sul campo).

Alla fine, da noi la guerra non fu persa, ma nemmeno vinta, passerà alla storia  come  la "vittoria mutilata" dopo le liti a Versailles con Wilson. Un finale che andò ancora di più a complicare le cose. Non c'erano politicamente né vinti, né potevano rallegrarsi quelli che la guerra l'avevano boicottata con il disfattismo. Con troppo accanimento, questo esito negativo e piuttosto umiliante (nonostante tanta retorica e i proclami) dai socialisti fu fatto pesare molto ai reduci; "che cosa vi dicevamo, ecco il risultato!" e giù il resto. E questo non era certo il modo migliore per fare nelle loro file proseliti nel chiamarli i reduci "grulli", "bei fessi". E chi era ritornato dal fronte (ed erano quasi 5,5 milioni) non voleva certo sentirselo dire dagli "imboscati" e tantomeno dai socialisti.

Quello che Mussolini
temeva  accadde, come aveva previsto e profetizzato. I socialisti riformisti (con Treves e Turati) sono in difficoltà, più di prima della guerra, e nemmeno parlarne di poter avviare un dialogo con i padroni; questi invece di concertare hanno preferito adottare la linea dura, si sono uniti in una confederazione (Ass. Industriali) e hanno adottato la strategia delle "serrate".  Chiudevano le aziende prima ancora degli scioperi indetti dai parolai socialisti.
Da quel momento - nei grandi scioperi che i socialisti promuovevano - con i loro picchetti per non far entrare gli operai insofferenti chiamati sprezzatamente "crumiri", venne la disfatta. Dovuta a quel punto dagli stessi operai tutti, che in un modo e nell'altro (o scioperi o serrate) venivano a cessare gli stipendi, e quindi a fare la fame.


Nel frattempo i massimalisti dichiaratamente rivoluzionari (con Gramsci e Bordiga) - dopo che era avvenuta la Rivoluzione Russa nel'17 -
guardavano con molta attenzione i fatti russi che avrebbero potuto far aprire anche in Italia delle nuove prospettive (verso "il paradiso", dove si distribuiva "latte e miele": auspicandoo la prossima fine del capitalismo con la tanto attesa rivoluzione anche in Italia.
Ma non hanno i loro seguaci, hanno solo  i pochi (e difendono solo questi) che ancora lavorano e che sono poi quelli che non hanno fatto la guerra: gli imboscati. E non hanno nemmeno più le grandi masse di contadini (che per la maggior parte non sono salariati ma sono 3 milioni di piccoli proprietari di "fazzoletti" di terra) tutti timorosi di perdere con l'avvento del bolscevismo il loro "orticello", quindi sordi a tutte le sirene "sinistre". Non parliamo poi degli industriali; soprattutto quelli siderurgici. In Russia è stato questo settore il primo ad essere stato statalizzato (collettivizzato). I Dirigenti zaristi mandati a casa!! (Ma anche questo fu un errore. Lenin se voleva ancora far funzionare le fabbriche dovette richiamare in fretta e furia gli zaristi che erano stati mandati a casa. Questo perchè l'operaio o il capo socialista non potevano trasformarsi dall'oggi al domani in capaci imprenditori.

Insomma nelle due correnti socialiste, e tra queste e le masse si era creata una barriera di totale incomunicabilità. E non esisteva più lo spazio per i socialisti. Mussolini fu lapidario, caustico ma anche realista "Vogliono fare la rivoluzione, ma se facciamo i conti, questi proprio non tornano".

Mussolini se ne convince ancora di più quando inizia a vedere già nel 1919 i pessimi risultati della Rivoluzione Russa:
"Bello i soldati uniti al popolo! Bello il collettivismo! Bello la distribuzione delle terre, creando degli schiavi! Male invece i nuovi dittatori statali del Partito nelle fabbriche e nelle campagne".
Non era questo il "socialismo sociale" che Mussolini sognava da giovane. In Russia - dopo la Rivoluzione" il "padrone" autoritario e il grasso borghese zarista, se usciva dalla porta, rientrava dalla finestra con quella nascente "borghesia di partito" statale, ancora più autoritaria e  peggiore della precedente perchè non possedeva nè le capacità tecniche nè quelle organizzative. Gli esaltati operai che avevano contribuito alla Rivoluzione, credevano di poter mettere in riga i cervelli del vecchio management o impunemente di insultare i vecchi padroni. Un errore che stava diventando fatale.

Lenin pur dimostrando subito i propri limiti e le incapacità a organizzare uno Stato così vasto e burocraticamente così complesso, dovette richiamare in fretta e furia ai loro posti nei vari apparati gli stessi funzionari zaristi e anche nelle (poche) grandi aziende i vecchi borghesi zaristi, per riuscire a sopravvivere ed evitare il totale fallimento della rivoluzione che si stava avviando nell'anarchia. E quei borghesi zaristi che erano i borghesi di vecchio stampo, nel partito entrarono e ci rimasero. Non più al soldo del padrone ma del Partito, che in quanto a zarismo - questi nuovi funzionari statali si dimostrarono per competenza e inettitudine solo in peggio..

Insomma Lenin riconobbe che nelle fabbriche oltre agli operai  era necessario che vi fosse qualcuno che conosceva i mezzi per produrre, che coordinasse con la disciplina gli operai nel loro lavoro. Ma questo qualcuno era diventato un funzionario di partito;  e che quindi per  incentivare l'economia ed aumentare la produzione era fondamentale e occorreva far ricorso a chi gia' conosceva il mestiere. Per cui Lenin - facendo subito delle marce indietro - stimò necessario che, medici, ingegneri, professori, burocrati, formatisi nelle scuole zariste venissero tutelati e ben pagati pur essendo costoro "afflitti" da "una mentalità borghese antiquata ". La Russia con i suoi latifondisti zaristi era rimasta - rispetto al resto d'Europa - molto indietro nella rivoluzione industriale che già da tempo era iniziata, e stava cambiando la mentalità della borghesia europea, che era diventata non più passiva ma produttiva (oltre che ricca) impiegando le straordinarie nuove macchine in tutti i settori, compreso quello agricolo. (anche chi era un piccolo proprietario di alcuni ettari, ricorreva ai trattori, mietitrebbiatrici che venivano affittati per un paio di giorni per fare i raccolti).

Insomma stava già iniziando il grosso problema della Russia e alcune teorie utopistiche iniziavano a fare acqua da tutte le parti, anche se in occidente pochi sapevano come stavano veramente  le cose, filtravano ad arte solo delle "vaghe" conquiste del proletariato; che ora "TUTTI possedevano terre e i mezzi di produzione", nessuno invece parlava del caos di quest'anno, e del prossimo con già in atto le rivolte "contadine" e la repressione dura che si stava scatenando contro i vecchi proprietari terrieri - che erano 5 milioni su 125 milioni di anime, che però possedevano il 90 per cento della terra coltivata dell'intero territorio dell'impero zarista; che non solo non volevano mollare i loro appezzamenti di terra, ma quel po' che producevano con mezzi antiquati, volevano (al di furori dello Stato) venderlo agli affamati delle città a prezzi da rapina. Non c'è da meravigliarsi se poi le Guardie Rosse staliniane mandavano in Siberia qualche "agrario ex zarista". Alcuni di loro vendevano un uovo nelle città al mercato nero al costo di una paga giornaliera di un operaio .

Del resto proprio MARX nella prefazione del Capitale, scriveva che "una società non può né saltare né eliminare per decreto le "fasi naturali" dello svolgimento".
E anche ZIBER scriveva pure lui che "…. le "fasi naturali" dello sviluppo non potevano essere né soppresse né abbreviate: quindi anche la Russia avrebbe dovuto passare necessariamente prima o poi attraverso il nuovo capitalismo".
Ma la Russia non era nè l'Italia, ne la Francia, né l'Inghilterra !!! Era un Paese arretrato.

Fu lapidario anche

LOSOWSKI, presidente dei sindacati operai della Russia sovietica;
in un colloquio avuto con giornalisti recatisi a studiare l'organizzazione del regime comunista russo,
nel 1922. egli disse profeticamente:

“Se la sperata rivoluzione europea non avviene, la rivoluzione bolscevica russa é condannata a perire. Non possiamo sussistere se il comunismo non si propaga dappertutto. Se rimarremo soli, fatalmente cadremo. Come si potranno conciliare nelle relazioni commerciali l'economia comunista e quella borghese? Nella vita economica internazionale valgono le leggi dei vasi comunicanti; perciò, o noi saremo costretti ad accettare le vostre leggi, o voi le nostre, e ciò in un breve periodo di tempo. Per salvare le nostre conquiste dobbiamo guadagnare tempo, utilizzare anche il più breve respiro, altrimenti è la morte !”.


Infatti il capitalismo in occidente stava formando una Nuova Borghesia; quella che con la rivoluzione industriale, con le macchine e quant'altro
in breve tempo un artigiano diventava subito un imprenditore creando delle vere e proprie fabbriche di ogni genere. E così anche nella campagne, trattori e aratri ognuno ora facevano il lavoro di 100 operai.
I latifondisti che fino allora avevano approfittato della miseria dei contadini, nemmeno pagandoli, lasciavano dai raccolti solo il necessario per vivere; si trovarono in vicolo cieco. Nemmeno lontanamente investivano i loro denari in questa inarrestabile, vera "rivoluzione del lavoro". Che stava appunto facendo nascere una "Nuova Borghesia" quelli che fino a poco tempo prima erano stati pure loro, dei servi, sfruttati e mal pagati.

Lenin prima che crollasse tutto, corse sì ai ripari, richiamando ai loro posti i burocrati zaristi, ma non poteva richiamare i grandi capitalisti, né un moderno intelligente management economico, né industriale, nè logistico, perché questi entrambi in Russia non esistevano. In Crimea raccoglievano ancora il grano con i falcetti a mano, lo portavano con i lenti buoi nelle loro aie, lo sgranavano con rudimentali macchinetta a mano, e facevano infine la farina con le grandi pietre rotanti, come 2000-3000 anni fa.

Ma se non c'era in Russia il "nuovo capitalismo" né la Nuova Borghesia" , c'era invece in Italia, modesto ma c'era, e Mussolini anche lui come Ziber, già nel 1915 su Utopia scriveva: "I socialisti commettono un gravissimo errore, credono che il capitalismo ha compiuto il suo ciclo. Invece il capitalismo è ancora capace di ulteriori svolgimenti. Non è ancora esaurita la serie delle sue trasformazioni. Il capitalismo ci presenta una realtà a facce diverse: economica, prima di tutto".

Ma ancora prima, sempre su Utopia, del 15 gennaio 1914, scriveva: "Nella mente del proletariato, la "coscienza teorica" del socialismo sarà sempre amorfa, rudimentale, grossolana: come non c'è bisogno per essere buoni cristiani di aver letta e capita tutta la teologia, così si può essere ottimi socialisti pur ignorando i lavori e i capolavori della letteratura socialista, pur essendo completamenti analfabeti. I "sans-culottes" che mossero all'assalto della Bastiglia probabilmente non avevano nessuna "coscienza teorica" .

E già nel 1917 (a rivoluzione avvenuta) frenando gli entusiasmi delle prime trionfalistiche notizie dalla Russia, Mussolini scriveva: "....La rivoluzione non è il caos, non è il disordine, non è lo sfasciamento di ogni attività, di ogni vincolo della vita sociale, come opinano gli estremisti idioti di certi paesi; (il riferimento alla Russia è chiaro. Ndr) la rivoluzione ha un senso e una portata storica soltanto quando rappresenta un ordine superiore, un sistema politico, economico, morale di una sfera più elevata; altrimenti è la reazione, è la Vandea. La rivoluzione è una disciplina che si sostituisce a un'altra disciplina, è una gerarchia che occupa il posto di un'altra gerarchia" (1917, 26 luglio, Il Popolo d'Italia).

Torniamo al 1919.
L'Italia, nonostante non fosse nella lista nerissima delle nazioni perdenti, i tempi erano comunque ostili. Per gli Italiani erano tempi che dall'esterno subivano dagli Alleati affronti che erano quasi oltraggi ("si accontentino di non aver più alle spalle gli austriaci" - "li abbiamo aiutati? che paghino" Wilson) -
Clamenceau fu pure insolente, disse che l'Italia si comportava da "capricciosa", da "ambiziosa" e come se non bastassero questi affronti, all'interno, molti che avevano in qualche modo contribuito a sventare un grave disfatta (e mancò poco a Caporetto con l'Austria al di qua del Piave e del Mincio e chissà fin dove sarebbe arrivata) ricevevano insulti, venivano devastati circoli e associazioni di ogni tipo, s'insultavano i militari in divisa, si distruggevano i migliori ricordi di lotte e sacrifici, bollandoli tutti come azioni delinquenziali.

Ma a parte questo, c'era inoltre anche un servaggio spirituale da cui l'Italia doveva liberarsi se voleva veramente mirare ad essere una nazione moderna.
Per troppo tempo si era andato dicendo che tutto quello che era straniero, che tutto quello che proveniva dalla Francia, dall'Inghilterra era ottimo, e ciò che si diceva era Vangelo; si disprezzava in questi casi ciò che si presentava come prodotto genuino del genio italiano. Era dunque l'ora che il popolo italiano imponesse anche la liberazione da ogni asservimento allo straniero. E questo non era solo un "capriccio", ma era dignità e una espressione di tanta volontà. Che che fu utilizzata con tanta intraprendenza !! E che presto andarono a creare prodotti, macchinari e quant'altro con una creatività fino allora sconosciuta.
(ricordiamo che l'impiego del "Made in Italy", fu quello che Mussolini in seguito poi battezzò per i prodotti italiani che iniziarono ad essere molto richiesti all'estero, per la loro creatività oltre che per la loro bellezza).

Ma al Governo Italiano, ai dirigenti della cosa pubblica -nonostante la conclusione vittoriosa della guerra- mancava il coraggio, mancava la forza, mentre il concetto di libertà era interpretato come "licenza di fare". Purtroppo le masse operaie malcontente si lasciavano ancora trascinare dai mestatori, la massa grigia andava dietro la corrente o ascoltava il tribuno di turno, senza neppure una parola di protesta.
Ma non bastava. Mentre il 12 gennaio a Milano si indicevano dai socialisti comizi per protestare contro gli imperialismi italiani (ma dopo, a Versailles tutti videro chi erano gli imperialisti!, non di certo gli italiani!), con l'amnistia cagoiesca del settembre ai disertori, ritornava sul fante un'onda di fango. Quello stesso fante, che dopo 4 anni di trincea, troncati gli studi, troncato l'impiego, tornato a casa, non aveva che il nome di "ex combattente" che gli suonava di scherno e come un insulto; l'amnistia non lo dice chiaro, ma erano chiarissimi i socialisti quando dicevano "tu hai combattuto per niente, bel fesso sei stato!".
Eppure prima questi "fessi" li avevano chiamati "Eroi di Vittorio Veneto", e li avevano additati come esempio, magnificati, encomiati, premiati, con le medaglie, i nastrini, e le patacche di ogni genere.

Di fronte ad una dimostrazione patriottica o del caroviveri, si inscenava subito una contro-dimostrazione dei soliti socialista parolai; di modo che agli ex combattenti, come ai primi cristiani, non rimaneva altro che ritirarsi nelle loro nude case diventate catacombe, per commemorare le date del martirio, per esaltare i giorni delle vittorie o per piangere gli amici morti nei giorni delle sconfitte. Negli angoli più oscuri di queste catacombe, a piangere per la disperazione, vi erano pure mogli, figli, fratelli, madri, di 650.000 loro cari che non erano tornati più a casa.

Ma ecco nel marzo 1919 sorgere un movimento che reagisce alle violenze sovversive, e insegna - allo Stato, ai suoi inetti politici, e ai ciechi soggetti confusi da apologetiche notizie dall'Est - a fare il proprio dovere. ("avete fatto un sacco di soldi ? e allora adesso pagate!!")

L'Italia nel 1919 era afflitta da una situazione quanto mai critica dei rapporti sociali per il drammatico contrasto fra le precarie condizioni del proletariato e dei contadini che avevano pagato un alto tributo di sangue e sofferenze in trincea,  e il lusso smodato sfrontatamente esibito dai "pescicani", i nuovi ricchi che avevano tratto enormi profitti dalla guerra con le industrie belliche - (prosperarono 1976 stabilimenti con un milione di addetti - industrie che con la guerra (e gli imboscati) aveva non solo raddoppiato i profitti, ma li aveva perfino decuplicati - come la Fiat e l'Ansaldo).

Ma la delusione e l'intolleranza alle discriminazioni si erano estese anche al ceto medio e alla "piccola nuova borghesia", perché da questa veniva la folta schiera di giovani ufficiali e di combattenti che non avevano al rientro trovato nel dopoguerra la realizzazione delle loro aspirazioni, nè un miglioramento economico né quell'affermazione sociale cui credevano di avere diritto come contropartita dopo le benemerenze militari conquistate eroicamente sul campo di battaglia, che poi al dunque risultarono solo "patacche".

I tempi erano dunque maturi per una svolta radicale, maturi per quel fenomeno politico alimentato anche dalla violenza della vecchia lotta di classe usato del "fascismo socialista". C'era insomma del malcontento generale, e anche la paura della nuova borghesia che temevano quella violenza; ma nel contempo iniziavano anche ad essere maturi per  il nuovo "fascismo socialista di Mussolini".

"Questo fascismo mussoliniano non si presenta affatto come espressione di una dottrina politica, non ha come il socialcomunismo una filosofia alle spalle, ma è un punto di coagulo di tutte le paure, gli odi, i risentimenti di gran parte della classe dirigente e di ampi strati popolari contro il disordine sociale, fomentato, agli occhi dei vecchi borghesi da una classe operaia sempre più tendenzialmente rivoluzionaria. C'è un'invocazione di ordine e di disciplina, un bisogno di metodi forti contro la crisi diffusa, che Mussolini riuscirà a interpretare con decisione".

Ma la vera svolta la si ebbe nel fallimentare "Biennio Rosso", nel giugno-luglio 1919. Il sindacato socialisti - sempre sperando di innescare anche in Italia, una Rivoluzione Bolscevica - puntò con forza negli scioperi ad oltranza. Con picchettaggio per non far entrare nelle fabbriche i crumiri. Fu un fallimento, sfiduciò il proletariato che cominciava ad avere fame.
Ci furono scioperi selvaggi, occupazione delle fabbriche, sabotaggi, violenze, attentati (che causarono 65 morti).
Le "Guardie Rosse" erano pronte a fare come in Russia, per dare il potere al proletariato. Ma fu la sconfitta degli incapaci socialisti. Un fallimento che ammise anche Gramsci (prima di uscire dai socialisti e fondare nel '21 il PCI), "per l'incapacità dei socialisti". Gli industriali uniti adottarono ancor di più la "Serrata" la chiusura delle fabbriche, e gli operai così non lavorano più né con gli scioperi nè - se volevano fare i "crumiri"- potevano tornare al lavoro.
A quel punto gli operai ne avevano abbastanza dei "parolai".

Ovvio che si sta diffondendo molta, moltissima inquietudine; ed inizia  una controrivoluzione dei nuovi borghesi-capitalisti. Diventano loro stessi dei "Rivoluzionari" ma di destra che appoggiano le masse deluse usando "l'uomo" che farà pure del populismo (che é comodo al consenso)  ma si sbarazza di tutti gli ostacoli del parlamentarismo e così può imporre le sue idee ed esercitare un potere proprio nella nuova borghesia senza problemi.
Fu così che industriali, operai e contadini via via iniziarono ad ascoltare Mussolini. ("l'unico che sarebbe stato in grado di fare una vera rivoluzione" disse poi Lenin. Ma anche Togliatti (in ritardo di 14 anni) ammise nel '36 "Compagni Fascisti, bisogna fare un "programma come i fascisti di San Sepolcro".

Ma anche poi nel '45, tornato dalla Russia, deludendo i vecchi comunisti italiani, Togliatti con opportunismo si mise a disposizione del Re e di Badoglio, entrando poi perfino nel Governo De Gasperi, come Ministro della Giustizia.


"Certo il fascismo non avrebbe potuto conquistare il potere se non avesse trovato connivenza e appoggio nei deboli governi del dopoguerra, oltre che un aiuto concreto da parte della nuova borghesia liberale e di alcuni piccoli proprietari terrieri (3 milioni) spaventati dall'accresciuta forza dei socialisti che gridavano "la terra al popolo"
. (
Elio Gioaola, Novecento, Colonna Edizioni, 1999).

(basterà poi leggere "La mia nazione operante" (>>>> )per ritrovare i 2000 personaggi che appoggiarono Mussolini: Principi 6, Conti 45, Duca 4, Marchesi 15, Nobili 18, Professori 182, Avvocati 182, Militari 65, Commendatori e Cavalieri del Regno 280, Scrittori e giornalisti 26. Di giovani facinorosi ne troviamo solo una decina.)

Il giorno prima della fondazione dei fasci milanesi, a Dalmine, dopo uno sciopero i lavoratori di una industria, seguendo le indicazioni del loro sindacato Uil (più accomodante), le maestranze avevano scioperato, occupando lo stabilimento, ma senza interrompere la produzione: Mussolini fece loro un discorso (pubblicato poi su "Il Popolo d'Italia" del 21 marzo) che era sì antisocialista ma ancora un po' antiborghese:

Mussolini arringò così gli operai: "E' il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa. È il lavoro, che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande, entro e oltre i confini. Non siete voi i poveri, gli umili e i reietti, secondo la vecchia retorica del socialismo letterario, voi siete i produttori, ed è in questa vostra rivendicata qualità che voi rivendicate il diritto di trattare da pari con gli industriali... Voi giungerete, in un tempo che non so se è vicino o lontano, ad esercitare funzioni essenziali nella società moderna, ma i politicanti borghesi o semiborghesi non debbono farsi sgabello delle vostre aspirazioni per giocare la loro partita. Il significato intrinseco del vostro gesto è chiaro. Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto, della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo; ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione"

Non era un discorso che piaceva molto alla "Nuova Borghesia" , ma nemmeno gli dispiaceva più di tanto, visto che proprio l'Associazione Industriale mise a disposizione di Mussolini un locale per una sua singolare riunione.
Il giorno stesso che usciva sul giornale quell'avviso visto sopra agli operai, sorgeva il "Fascio milanese di combattimento", ed il 23 dello stesso mese si riunivano per la prima volta gli aderenti ai Fasci italiani di combattimento in Piazza S. Sepolcro sempre a Milano.
(il "discorso" "programma" di SAN SEPOLCRO >>> )

Così comincia una nuova storia d'Italia!

MUSSOLINI, dentro il locale di Via San Sepolcro a Milano, in una saletta messa a disposizione dal Circolo industriale (Una curiosità: C'erano anche 5 industriali ebrei a questa riunione, e fu proprio uno di loro (Goldman) a procurargli la sala della riunione !) costituisce con 871 soci (arditi, ex combattenti, ex interventisti) i FASCI COMBATTENTI, imprimendo al suo movimento un indirizzo fortemente antisocialista; e vuole essere così coerente (togliere ogni dubbio a chi li ha) che manda a incendiare L'Avanti, il giornale dei socialisti di cui Mussolini stesso era stato il direttore.

Ecco l'elenco dei presenti alla riunione del 23 Marzo: Angiolini prof. Francesco (Milano), Attal ing. Salvatore (Milano), Aversa. avv. Giuseppe (Milano), Barabandi Renato (Milano), Bartolozzi Ettore (Bergamo), Benvenuti Ettore ufficiale di marina (Milano), Besana Enrico (Milano), magg. Besozzi (Milano), Bianchi magg. avv. Camillo (Milano), Binda dott. Ambrogio (Milano), Boattini Vittorio (Milano), Bonafini Napoleone (Milano), Bonavita avv. Francesco (Milano), Boschi Ettore (Monza), Bosi Nereo (Piacenza), Bottini prof. rag. Piero (Milano), Bozzolo cap. Natale (Marchirolo), Brambillaschi Giovanni (Milano), Brebbia Giselda (Milano), Bresciani Italo (Verona), Bruzzesi avv. Giunio (Milano), Capodivacca Giovanni (Milano), Capurro Giuseppe (Sori), Carabellese avv. (Milano), Carli cap. Mario (Roma), Cattaneo rag. Luigi Natale (Milano), Cerasola rag. Federico (Milano), Chierini Gino (Milano), Chiesa Ernesto (Vigevano), Ciarrocca Guido (Milano), Colombi Giuseppe (Milano), Consonni Ferruccio (Milano), Corra Bruno (Milano), Costantino Michele (Bari), Cottarelli Leonardo (Cremona), Dagnino Ettore (Comigliano Lig.), De Angelis Ernesto (Napoli), Deffenu Luigi (Nuoro), Del Latte dott. Guido (Milano), Dessv Mario (Milano), Dondena Giov. (Milano), Ercolani Luigi (Cornigliano Lig.), Fabbianini Nino (Novara), Facchini Antonio (Milano), Falletti Pietro (Soresina), Falugi Quintilio (Sesto S. Giovanni), Farinacci Roberto (Cremona), Fasciolo Benedetto (Milano), Ferrara Gaetano (Milano), Ferrari avv. Enzo (Milano), Fiecchi Arturo (Genova), Franceschelli Aldo (Milano), Fraschini Alcide (Pavia), Franzi Erminio (Bergamo), Frigerio Armando (Milano), Funi Achille (Ferrara), Galassi Aurelio (Milano), Garibaldi Decio Canzio (Milano), Ghetti Domenico (Milano), Gioda Mario (Torino), Goldmann Cesare (Milano), Greppi mg. Filippo (Milano), Jachetti Francesco (Milano), Jeckling Manlio (Trieste), Longoni Attilio (Milano), Luzzatto on. avv. Riccardo) Milano), Mainardi Oreste (Cremona), Malusardi Edoardo (Milano), Mangiagalli sen. prof. Luigi (Milano), Manteca dott. Luigi (Milano), Masnata prof. Giovanni (Stradella), Marchi Marco (Verona), Marinetti F. T. (Milano), Marinelli rag. Giovanni (Milano), Martignoni Rodolfo (Musocco), Marzagalli Giuseppe (Greco Milanese), Marzari Quirino (Milano), Massaretti Luigi (Piacenza), Mazzi Tito (Varese), Melli Gino (Brescia), Mecheri Eno (Genova), Moili Mario (Monza), Momigliano avv. Eucardio (Milano), Morisi Celso (Milano), Moroni Paolo (Milano), Nascimbeni Mario (Vigevano), Pasella Umberto (Milano), Pesenti avv. Guido (Milano), Pianigiani Guido (Monza), Podrecca on. Guido (Milano), Pozzi Alessandro (Milano), Pozzi G. P. (Bergamo), Raimondi Carlo (Milano), Ranzanici Angiolo (Bergamo), Razza Luigi (Trento), Riva Celso (Monza), Riva Ubaldo (Bergamo), Rocca Giovanni (Sampieri darena), Rossi Cesare (Milano), Rossi dott. Carlo (Como), Rossi Giuseppe (Alessandria), Scarzi-Ranieri dott. Angiolo (Pegli), Scarani Cleto (Milano), Semino Virginio (Genova), Tacchini Ezio (Sestri P.), Tagliabue Enrico (Monza), Teruzzi prof. Regina (Milano), Vajana Alfonso (Bergamo), Vezzani Menotti (Monza), Zappi Ferdinando (Verona), Zoppìs (Milano), Zuliani Mario (Milano).
È presente la Giunta esecutiva del Fascio milanese: Benito Mussolini, cap. Ferruccio Vecchi, ten. avv. Enzo Ferrari, Mario Giampaoli, Ferruccio Ferradini, Michele Bianchi, Carlo Maraviglia.
Presiede Ferruccio Vecchi, che porge il saluto ai convenuti. Il saluto del Fascio milanese di Combattimento è recato dal pluridecorato al valore ten. avv. Enzo Ferrari.

Era stata annunciata la riunione fin dal 2 marzo, invitando i lettori de Il Popolo d'Italia, i reduci, e tutti i cittadini. Il 9 marzo viene ripetuto comunicando che "l'adunata sarà importantissima", "Sarà creato l'antipartito, sorgeranno cioè i Fasci di Combattimento che faranno fronte contro due pericoli: i contrari (vecchia Borghesia) a qualsiasi innovazione di destra e a quello distruttivo della sinistra".

In quella sede, si danno convegno i fascisti della prima ora, un centinaio di "fedelissimi" e circa duecento nuovi aderenti che osservano e ascoltano. Mussolini interviene con un discorso, distinto in tre dichiarazioni, che poi il giorno dopo, il 24 marzo, il n.83 Il Popolo d'Italia, riportava integralmente, e che qui, pure noi riportiamo: (non aggiungiamo né togliamo nulla; diamo solo a lui la parola.....( il "discorso" "programma" di SAN SEPOLCRO >>>

......che in crescendo gli italiani… leggevano e gli si… affiancavano; e se non fosse stato così, Mussolini non sarebbe andato molto lontano.
Non è storico dire poi, dopo venti anni, che nessuno era stato fascista, o che lo erano stati perché costretti. Era questo che leggevano, e i giornali nazionali, iniziarono a riportare e ad amplificare i suoi discorsi, i suoi scritti e le sue idee. E ne presentarlo a chi non lo conosceva lo inviatavano a leggere DUX, la biografia fatta dalla SARFATTI. (15 edizioni in poco tempo, non vi era una sola casa con una copia di Dux.

Gli industriali se non c'era Mussolini,
a quel punto critico potevano fare una sola cosa per salvarsi:
inventarsi un qualsiasi "Mussolini".

E infatti quando ci fu poi la netta svolta a destra nel governo,
com il Fascismo e con Mussolini
così i grandi quotidiani la salutarono:

ALBERTINI direttore del Corriere della Sera :

"Il fascismo ora interpretato é l'aspirazione più intensa di tutti i veri italiani"
.

Gli fece eco il direttore de La Stampa di Torino:

"Il governo Mussolini é l'unica strada da percorrere per ridare agli italiani quell'"ordine" che tutti ormai reclamano intensamente".


PETACCO in
Storia del Fascismo, nel capitolo "Le benevola attesa della grande stampa" cosi' riassume gli articoli della stessa. "I fascisti sono violenti. Ma appaiono anche i più forti e pertanto decisi - come dicono - a usare questa forza per bonificare il Paese sia pure passando attraverso l'ineluttabile fase della violenza".

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MA MUSSOLINI POTEVA DICHIARARE LA GUERRA?
NO

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8 SETTEMBRE '43 - IL RE E BADOGLIO , CHE GRAN PASTICCIO !!
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NASCE LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (SALO')

(8 pagine chirografate di M.)
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MUSSOLINI E L'INGERENZA DI HITLER NELLA RSI
( lettera chirografata originale)
QUI >>>>>>>>
L' 8 SETTEMBRE - CHE BEFFA PER GLI ITALIANI !!!
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(
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