1945 22 APRILE

MUSSOLINI

L'ULTIMA INTERVISTA
( 6 GIORNI PRIMA DI PIAZZALE LORETO )

(E ANCHE QUELLA PRECEDENTE - DI 40 GIORNI PRIMA)

Dopo il blocco della colonna e la cattura di Mussolini, il 27 aprile, e la cattura dei suoi gerarchi a Dongo il 28, lo Stato Maggiore della 52a Brigata Garibaldi fa l'inventario ufficiale del tesoro caduto nelle sue mani. Il verbale, ricorda Cavalleri, viene sottoscritto da Pier Bellini delle Stelle (Pedro), Michele Moretti (Pietro) e Luigi Canali (Neri). Sul tavolo del Municipio di Dongo vengono registrati i denari, gli ori contenuti, e una borsa di Mussolini piena di documenti che agli astanti al primo sguardo dissero che erano alla dinamite.
Mussolini in fuga aveva accanto a sé questa grossa borsa che sorvegliava con nervosa attenzione: era appunto gonfia di documenti politici. Ripeteva spesso: "Attenzione a quella borsa, ci sono documenti di grandissima importanza storica".

Il 28 su un tavolo del municipio di Dongo si stanno affastellando i bagagli dei gerarchi fascisti arrestati da circa un'ora e anche quella borsa giunta da Mezzegra (dov'era il 27 Mussolini prima di essere giustiziato) ci si preoccupa moltissimo: dentro ci sono carte che possono essere usate da Mussolini come arma di trattativa, se scampa alla fucilazione o come vendetta postuma.

Bill, il vice-commissario della 52a Brigata Garibaldi presente all'operazione, s'incuriosisce e spulcia fra i fascicoli. C'è appunto qualcosa di esplosivo: un carteggio fra Winston Churchill e Mussolini. Un "tesoro politico" che viene affidato alla filiale della Cassa di risparmio di Domaso il 27 aprile 1945. Il giorno dopo inizia già la battaglia per la conquista delle "carte che scottano". Quell'epistolario fa impazzire tutti, Churchill in particolar modo, è un incubo. (ma chi lo ha già informato?)

A Como già si aggirano agenti segreti inglesi. Così Bill e Pedro decidono di trasferire i documenti dalla Cassa di risparmio al parroco di Gera Lario affinché li nasconda in chiesa. Non basta. Questi fascicoli sono armi importanti e proprio lì punta anche la politica. Infatti nella notte gli incartamenti vengono sottratti per breve tempo e fotografati nella Fototecnica Ballarate. (si dice riprodotti in tre copie). Presenti all'operazione diversi dirigenti partigiani e Dante Gorreri, segretario della federazione comunista di Como. Poi gli originali del carteggio sono tornati tutti al loro posto. Con quale intento? Informare e ricattare Churchill?

Vi é poi uno strano episodio: una "vacanza" di Churchill sul lago, impegnato per 15 giorni a fare quadretti. Il premier infatti arriva e contatta diverse persone e riparte. Sembra soddisfatto della vacanza pittorica.
Cosa avvenne in quei giorni ? Risponde Cavalleri: "Due esponenti del servizio segreto inglese... s'incontrarono nel pomeriggio, alla periferia di Como, con un individuo... Gli esponenti del Field security service ottennero finalmente quanto da tempo cercavano con insistenza. Il loro interlocutore era lo spregiudicato e ambiguo segretario federale del Pci comasco, Dante Gorreri (Guglielmo), definito 'il padrone' dai suoi stessi compagni di partito. Egli aveva con sé un pacchetto nel quale si trovavano gli originali di 62 (sessantadue!) lettere che... Churchill aveva inviato a Mussolini.


Gli ufficiali inglesi ne entrarono in possesso (pagando chissa quanto, a chi?) e ovviamente le consegnarono al soddisfatto Churchill. Che é però Ignaro dell'esistenza delle tre copie fatte dalla fototecnica, che erano nascoste messe dentro una scatola zincata in una tomba. Sembra che un'esemplare poco dopo sia finito a Mosca. (per ricattare Churchill anche qui?). Degli altri due si sono perse le tracce. Ma un partigiano che volle conservare l'anonimo rivelò che un esemplare era finito nelle mani dell'ingegner Enrico Mattei, presidente dei partigiani di ispirazione cristiana. (un personaggio che per tanti motivi (fu il fondatore della multinazionale del petrolio nel 1952 (ENI), sfidando le 7 sorelle americane, divenne poi scomodo. Morì in un misterioso incidente aereo nel '62). Del terzo esemplare se ne sono perse le tracce.

Sul "FAMOSO CARTEGGIO" di Churchill possiamo fare delle ipotesi sul suo contenuto. Ma alcune indicazioni su i contenuti ci provengono proprio da una (imprudente?) dichiarazione dello stesso Mussolini rilasciata in una intervista apparsa sul Popolo di Alessandria il 22 aprile; 6 giorni prima (!!!) della sua esecuzione.

La riportiamo in fondo a questa pagina di questo anno, ed é molto illuminante. Mussolini si era molto esposto, mandava segnali criptici ma anche molto chiari, fino al punto che..... ci sembra abbia firmato la sua condanna a morte.
In sintesi, poi qui sotto leggeremo il resto, Iniziava così.

"Ho una documentazione che la storia dovrà compulsare per decidere....Io sono tranquillo....Non so se Churchill é, come me, tranquillo e sereno....".

Purtroppo queste prove che aveva contro Churchill non vennero mai fuori. Ma a sentire Mussolini non doveva il premier britannico essere tranquillo e sereno. Infatti dopo i fatti di Dongo, non contento dell'originale consegnatogli, per quattro anni lo statista diede una ostinata caccia alle riproduzioni dei documenti spendendo tempo e denaro. E per quanto molti minimizzano, qualcosa quei documenti dovevano pur contenere.
Forse era stato Churchill a spingere Mussolini alla iniziale neutralità; forse lo stesso sbarco degli inglesi sulla costa francese era una messinscena Dunkerque e la indisturbata ritirata abbandonando la Francia al suo destino resta infatti ancora oggi un mistero.

Forse fu proprio Churchill a incitare Mussolini a dare - il 10 giugno con Hitler quasi a Parigi - il colpo di grazia alla pur sempre atavica odiata Francia, dichiarandogli guerra. (Del resto Churchill aveva favorito più il riarmo della Germania (in funzione antibolscevica ) che non della Francia).

Forse fu proprio ancora Churchill subito dopo a suggerirgli di invadere l'Africa. Forse fu proprio Churchill con chissà quali compensi promessi a fine guerra, a spingerlo ad attaccare sui Balcani (Grecia e Albania) per bloccare Hitler. (E infatti proprio sui Balcani -da Belgrado ad Atene- Hitler, perse qui la sua guerra! - Il ritardo per l'invasione della Russia gli fu fatale)

Forse perfino lo sbarco in Sicilia poteva essere stato concordato o avallato per tenere impegnate e dirottare in Italia -nel sud- le truppe tedesche, e questo quando Churchill pensava ancora prima del 25 luglio (di questo periodo sono gli approcci di Mussolini -con Alberto Pirelli e con gli inglesi per svincolarsi dallo scomodo alleato nazista) dello sbarco in Normandia; che gli sarebbe riuscito meglio (e fu così) senza le 26 divisioni che Hitler inviò in Italia per frenare una (falsa) grande offensiva, che non venne mai dagli alleati, anzi per due inverni (nel '43 sulla Linea Gustav, e poi superata questa, nel '44 sulla Linea Gotica) gli alleati iniziarono un immotivato stallo.
Del resto per arrivare a Berlino non si parte dalla Sicilia.

Non lo sapremo forse mai, ma analizzando bene gli sviluppi su tutto lo scacchiere europeo, ci sembra che dalla Manica all'Africa, e da Gibilterra a Malta e fino in Grecia, ci sia sempre stata la regia di Churchill, e Mussolini l'attore.

Ci sembra di sentirlo Churchill il 10 maggio del 1940:
"Caro Benito, il 10 giugno dichiara pure guerra alla Francia, poi, vai qui, vai là, manda pure un (uno) bombardiere su Gibilterra, uno solo su Malta (possibile che fu un errore Malta?) poi arriverò io; manda qualcosa su Alessandria, ma poi sparisci, fai la mossa, e mettiti da parte. Attacca in Africa, poi fai melina e chiama aiuto, Hitler manderà i rinforzi e prenderemo in trappola la sua migliore "volpe" nel deserto. Sbarca in Albania, in Grecia, fai la melina anche li', poi chiama ancora in aiuto Hitler mentre noi gli prepareremo la trappola sulle soglie di casa. Finita l'altra melina in Africa poi noi sbarcheremo con un po' di navi in Sicilia e Hitler con qualche armata scenderà anche in Italia, e una volta arrivati nel sud, li metteremo in trappola; poi noi ci disimpegneremo in Italia, faremo melina e lo attaccheremo a nord (Normandia).

 

ed eccoci al
22 Aprile 1945:

L’ultima intervista a Benito Mussolini.

E’ risaputo che, quando fu arrestato a Dongo, Mussolini aveva presso di sé una grossa busta di cuoio contenente preziosi documenti. Essi erano tali da interessare la storia degli ultimi anni. Ma – almeno fino a questo momento – la storia li ignora. Forse debbono considerarsi perduti, perché quella busta scomparve, né risulta sia stata mai ritrovata.

Fino a quando non sia stato rinvenuto (ma lo sarà mai?) il carteggio personale e riservatissimo che Mussolini portava con sé e che dovette abbandonare – non si sa dove, né come – dopo il suo arresto sulla riva occidentale del lago di Corno; fino a quel giorno avranno un acuto interesse e un valore documentario eccezionale le parole, gli scritti, le dichiarazioni, le confessioni, che egli fece, dettò, espose, o fornì verbalmente nell’ultima decade della sua esistenza e, particolarmente, fra il 20 aprile del 1945 e quel drammatico 28 aprile del 1945, in cui lui e Claretta Petacci vennero uccisi.

Mussolini aveva molte cose da dire. I giornali, i testimoni, le numerose interviste con partigiani del tempo, sono concordi nel riferire ciò che il Capo della Repubblica Sociale avrebbe detto ai suoi carcerieri a Mezzegra: “Voglio parlare un’ultima volta al mondo, prima di morire. Sono stato tradito nove volte. La decima, sono stato tradito dai tedeschi”.
E’ noto che egli non ebbe modo di parlare come desiderava e voleva. Quali pensieri gli facevano invocare quest’ultimo colloquio con gli uomini? Li ignoravamo fino a ieri.

Oggi non più.

E non perché siano stati ritrovati documenti che Mussolini portava con sé nella famosa busta di cuoio prima dell’arresto; ma perché è venuto alla luce quello che si può a giusto titolo chiamare il testamento di Mussolini.

Nessun dubbio, a tale proposito. Le sue ultime parole non solo vennero scritte sotto la sua dettatura; ma Mussolini stesso, due giorni dopo la definitiva stesura delle cartelle dattiloscritte, volle rivederle, volle personalmente correggerle; e, infine, volle siglare tutto il dattiloscritto con la sua ben conosciuta inconfondibile M.
Ci si chiederà: “Come mai questo documento così importante, questa testimonianza così vitale, salta fuori soltanto adesso?”
Domanda più che naturale; ma la risposta è quanto mai semplice: perché l’estensore manuale di quelle dichiarazioni, che furono a lui dettate, il fortuito raccoglitore delle idee, della volontà, dell’estrema disperata difesa di Mussolini si era impegnato a non rendere noto il contenuto di quelle carte se non tre anni dopo la morte di Mussolini stesso.

E questo – come si vedrà – per esplicita volontà di Mussolini.

Ecco perché solo ora, trascorsi i tre anni da quel tragico 28 aprile 1945, il depositario degli ultimi pensieri di Mussolini si è fatto vivo, ritenendosi giustamente sciolto dall’obbligo del silenzio.

Il documento ha la forma di una intervista; intervista che Mussolini concesse nel suo studio presso la Prefettura di Milano a GIAN GAETANO GABELLA, direttore del “Popolo di Alessandria”, nel pomeriggio del 20 aprile 1945 e che rivede l'intervista attentamente con lo stesso Mussolini, il giorno 22 aprile, cioè sei giorni prima della morte.

Superfluo rilevare che questa non è una intervista delle solite. Si tratta di dichiarazioni assolutamente eccezionali, fatte nel momento in cui Mussolini aveva la coscienza del crollo e della sua stessa fine imminente. Egli stesso, del resto come si vedrà, definì questa intervista un testamento.

Quando il giornalista di sua fiducia gliela riportò il 22 aprile, gli avvenimenti già precipitavano con un ritmo che non consentiva più illusioni. Gli angloamericani si stavano avvicinando implacabilmente alla linea del Po. Ogni speranza in una qualsiasi resistenza svaniva, tanto per l’esercito tedesco, quanto per i fascisti e per lo stesso Mussolini.

Nell’ampia cerchia limitata dall’arco alpino, il 22 già echeggiava il sinistro: “Si salvi chi può”. Perciò Mussolini ebbe la visione, forse ancora nebulosa, ma non per questo meno drammatica, della prossima fine. E ciò spiega la consegna impartita al fedele dell’ultima ora:
“Se io muoio, non dovete divulgare quanto rimetto nelle vostre mani se non quando saranno passati tre anni dalla mia morte”.

L’importanza storica e umana del documento è eccezionale. E’ un estremo appello alla posterità quello che Benito Mussolini dettò il giorno 20 e corresse il 22 aprile 1945 nella saletta della Prefettura di Milano.

Cabella: "Fu il ministro Zerbino che il 19 aprile mi comunicò l’invito. Mussolini mi avrebbe ricevuto all’indomani, in Prefettura. Feci subito rilegare i numeri del giornale: tutta la edizione milanese dal settembre 1944 fino all’ultimo numero, uscito con la data del 21 aprile 1945. Volevo offrire al Duce l’intera collezione, insieme coi prospetti e i grafici della tiratura, del “Popolo”, che, da 18 mila copie stampate e 16 vendute nel primo anno di vita, era ora asceso a 270 mila copie tirate e vendute, senza contare i numeri speciali, che avevano ottenuto un successo anche maggiore. Le richieste, negli ultimi tempi, superavano la tiratura.

Molti camerati mi consegnarono scritti e messaggi da presentare al Duce. Divisi queste carte in tre gruppi:
1) quelle che gli avrei dato in ogni caso;
2) quelle meno importanti;
3) quelle che avrei consegnato solamente se il colloquio si fosse svolto in modo particolarmente favorevole.

Preparai anche una breve relazione delle lunghe trattative che avevo condotto con elementi partigiani, i quali, in un primo tempo, mi avevano scritto invitandomi a prendere contatto con alcuni loro rappresentanti. Avevo accettato senz’altro questo abboccamento che avvenne il 7 febbraio a Rondissone, vicino a Torino: incontro interessante sotto molti rapporti e che permise utili intese nell’interesse superiore del Paese.

Alle 14.30 del 20 aprile ero in Prefettura. Nella prima sala d’aspetto passeggiavano e discorrevano ufficiali e gerarchi. Il Prefetto, capo della Segreteria particolare, attraversava spesso la sala che divideva lo studio di Mussolini dal suo ufficio. Nel secondo salone c’erano il colonnello Colombo, comandante della “Muti” con il vice comandante e altri.

Alle 15 giunsero il comandante Borghese accompagnato da alcuni ufficiali, e il Capo di Stato Maggiore della GNR. Il ministro Fernando Mezzasoma parlava con un gruppo di giornalisti, fra i quali ricordo Daquanno, Amicucci, Guglielmotti. Si unì al gruppo, poco dopo, anche Vittorio Mussolini.

Un’apparente serenità regnava fra quelle persone e, specialmente nella prima sala, c’era il più discreto silenzio. Un ufficiale delle SS germaniche passeggiava fumando. Il servizio di guardia era limitato al portone d’ingresso del Palazzo del Governo e a due sentinelle armate (una SS tedesca e un milite della Guardia) alla postierla della scaletta che dal cortile conduceva all’appartamento occupato dal Duce e dai membri del governo.

Alle 15.20 giunse il Questore, che parlò col Prefetto Bassi. Poco dopo uscì dallo studio del Duce il personaggio che vi stava già da venti minuti; ma non ricordo chi fosse. Forse Pellegrini. Entrò un usciere, che chiuse la porta dietro di sé; ma non tanto velocemente da impedirmi di scorgere Mussolini seduto dietro una piccola scrivania. Nel frattempo, mi aveva raggiunto il mio redattore capo, già direttore di “Leonessa”, settimanale della Federazione bresciana: il sottotenente dei bersaglieri Galileo Lucarini Simonetti.

Finalmente, la porta del Duce si aprì. L’usciere disse forte il mio nome. Mi precipitai dentro. Deposti i pacchi sopra una sedia alla mia destra, salutai sull’attenti. Mussolini mi accolse con un sorriso. Si alzò e mi venne vicino. Subito osservai che Mussolini stava benissimo in salute, contrariamente alle voci che correvano. Stava infinitamente meglio dell’ultima volta che l’avevo visto. Fu nel dicembre del 1944, in occasione del suo discorso al Lirico.
Le volte precedenti che mi aveva ricevuto – nel febbraio, nel marzo e nell’agosto del ’44 – non mi era mai apparso così florido come ora. Il colorito appariva sano e abbronzato; gli occhi vivaci, svelti i suoi movimenti. Era anche leggermente ingrassato. Per lo meno, era scomparsa quella magrezza, che mi aveva tanto colpito nel febbraio dell’anno avanti e che dava al suo volto un aspetto scarno, quasi emaciato. Quel ricordo, dinanzi ad un uomo ora tanto diverso, si dileguò immediatamente dalla mia memoria.

Egli indossava una divisa grigio-verde senza decorazioni, né gradi. Lasciò i grossi occhiali sul tavolo, sopra un foglio pieno di appunti a matita azzurra. Notai che il tavolo era piccolo: molti fascicoli erano stati collocati sopra un tavolino vicino. Alcuni giacevano perfino in terra, presso la finestra. M’è rimasta l’impressione visiva che sulla scrivania, in un vaso di cristallo, ci fosse una rosa rossa; ma non potrei garantire l’esattezza di questo particolare. Sopra una sedia, scorsi tre borse porta documenti: due in cuoio grasso, una di pelle giallo scura.

Mussolini mi posò la destra sulla spalla e mi chiese: “Cosa mi portate di bello?”. Queste le prime parole, che già mi aveva dette quattordici mesi prima, benché con altro tono: un tono più lento, con voce più bassa e stanca.

Non seppi rispondere lì per lì. Come al solito, e come succedeva a molti davanti a lui, mi sentii alquanto disorientato e dopo una breve esitazione risposi che ero felice di vederlo, e che gli portavo la raccolta del giornale.
Mi batté la mano sulla spalla. Fissandomi, mi disse: “Vi elogio per quanto avete fatto per il consolidamento della Repubblica Sociale. Pavolini mi ha riferito del vostro discorso a Torino per il 23 marzo e del successo che avete ottenuto. Non vi sapevo anche oratore”.

Gli offersi la raccolta del giornale e gli mostrai i grafici della diffusione, della vendita, delle lettere ricevute. Gli consegnai diversi scritti di fascisti, di combattenti, di giovanissimi. Mi fu largo di elogi, specialmente per i tre numeri speciali, ricchi di illustrazioni, dedicati a “Stellassa” (Umberto di Savoia), a “Pupullo” (Badoglio) e a “Bazzetta” (Vittorio Emanuele III).
Sfogliò la raccolta, soffermandosi su alcuni numeri. Rise.

“I tre numeri illustrati per “Bazzetta”, ”Pupullo” e “Stellassa” sono fatti veramente bene. Mi hanno divertito. Che tiratura hanno avuto?”.
” Duecentosettantamila copie vendute. Per mancanza di carta non ho potuto far fronte alle trecentottantamila richieste…”.
“Avrete la carta che vi occorre…”
.
Prese la matita e, stando in piedi, tracciò qualche nota su un foglio di appunti. Allora mi feci animo e gli esposi il caso disgraziato di due camerati bolognesi. Il suo volto si rattristò.
"Farò aver loro diecimila lire. Va bene?”. Volle sapere i nomi e gli indirizzi. Li scrisse egli stesso, negli appunti. Poi mi chiese: "Desiderate qualche cosa da me?”.

Dopo un momento di perplessità risposi: “Il mio premio l’ho già avuto, è stato l’elogio che avete voluto farmi. Oso troppo se vi chiedo una dedica?”. Gli mostrai una grande fotografia. La fissò un attimo, scosse il capo. Evidentemente, non era troppo soddisfatto dell’immagine. Poi tornò al tavolo, si sedette, prese la penna e scrisse: “A Gian Gaetano Cabella, pilota de Il Popolo di Alessandria, con animo della vecchia guardia. B. Mussolini, 20 aprile XXIII”.

Posò la penna. Volle vedere i grafici. La tiratura del giornale era descritta da un diagramma. Vi era tracciata una linea ascendente, con leggere contrazioni, qua e là.
"A che cosa attribuite queste diminuzioni di vendita?”.
Risposi: "Credo che occorra ogni tanto, specie dopo numeri di grande rilievo esteriore, fare uscire qualche numero pallido, senza forti titoli”.

Esposi, poi, brevemente i criteri che seguivo e che mi parevano giusti, quindi soggiunsi: “Mi siete stato maestro. Conservo la raccolta de “l’Avanti!” e quella del “Popolo d’Italia”…”

Mussolini scosse la testa, stette un attimo pensoso e osservò: “Si nasce giornalisti come si nasce compositori o tecnici. Creare il giornale è come conoscere la gioia della maternità. Il criterio di non monotizzare è giusto. Non si può dare un concerto con soli tromboni e grancasse. Il pubblico, dopo i primi istanti di sbalordimento, finirebbe con l’abituarvisi. Vedo che siete anche un abile amministratore. Siete genovese…”.

Si soffermò sul grafico che riguardava la corrispondenza ricevuta dal pubblico, lettori e lettrici e osservò: “Molte lettere anonime, vedo”.
"Ricevo al giornale circa un dieci per cento di anonime. Però quando le vicende dell’Asse vanno meglio, le lettere anonime diminuiscono”.

Gli dissi anche che in Alessandria avevo appiccicato le più divertenti ad una parete.
Mussolini sorrise: “Ho visto le fotografie della vostra redazione”.
Nel mese di marzo – precisai – su 2785 lettere ricevute, 360 sono state anonime”.
"Oltre 2400 lettere non anonime in un mese: sono moltissime. Fate rispondere?”.
Gli dissi che rispondevo personalmente a tutti e nella rubrica “Il Direttore risponde” e, in gran parte direttamente.
"Ho constatato che, così facendo, si ottiene una grande pubblicità. Chi riceve, specie in un piccolo centro, una lettera personale del direttore, la fa vedere a più persone. Automaticamente diventa un fedele propagandista”.

Mussolini prese il pacchetto delle lettere che gli avevo portato insieme con altre cose. Gli feci osservare che avevo diviso le missive in tre gruppi. Volle tenerle tutte.
“Se avrò tempo, le leggerò stasera”.
Intanto aprì tre lettere che avevo messo più in vista: una di una signora che abitava presso Torino; un’altra di un giovane volontario, Puni, di Torino; la terza di una personalità ligure.
“Ringrazierete la signora e il ragazzo. Lasciatemi l’altra: farò rispondere direttamente. Avete qualche cosa ancora da dirmi?”.
“Ho due collaboratori, un fascista e un vecchio socialista fiorentino…”.

Mussolini mi disse subito i nomi di entrambi e aggiunse: “Fate loro i miei elogi. Dite loro che leggo gli articoli che scrivono, con interesse”.

Ebbi l’impressione che l’udienza fosse per finire. Mussolini aveva riaperta la raccolta del giornale e, in ultimo, aveva trovato le copie del giornale “Il Monarchico”, che avevo stampato alla macchia facendo finta fosse l’organo di un gruppo monarchico “C. Cavour” di Torino, e una copia del “Grido di Spartaco”, che avevo stampato clandestinamente. Mussolini rise, ed esclamò: “Mi sono piaciuti. Anche per questo lavoro vi elogio”.

Allora mi feci animo: “Duce, permettete che vi rivolga qualche domanda?”.
Mussolini si alzò. Mi venne vicino. Guardandomi negli occhi, con un accento e un’espressione che non dimenticherò mai, mi chiese d’improvviso:

“Intervista o testamento?”.

A quella domanda inaspettata io rimasi esterrefatto. Non seppi cosa rispondere. Non sfuggì la mia emozione a Mussolini, che cercò di dissipare la mia confusione con un sorriso bonario.
“Sedetevi qui. Ecco una penna e della carta. Sono disposto a rispondere alle domande che mi farete”.

In preda ad una grande agitazione , mi sedetti alla sua sinistra. La sua mano era vicina alla mia. Molte idee mi si affollavano nella mente, ma tutte imprecise. Finalmente formulai una domanda assai generica:

“Qual è il vostro pensiero, quali sono i vostri ordini, in questa situazione?”.

Invece di “ordini” dissi “disposizioni”; ma siccome nel testo dell’intervista, che il giorno dopo Mussolini rivide, corresse e siglò, sta scritto “ordini”, lasciò l’espressione ch’egli stesso approvò. Debbo aggiungere che, quantunque io abbia preso nota con la maggiore attenzione possibile di quanto Mussolini mi andava dicendo, non ho potuto, nelle giornate che seguirono il colloquio, riferirlo con esattezza minuta, rigorosa.
Solo a distanza di tempo, oggi, ricordo bene; con assoluta precisione. Perciò posso completare ciò che non mi fu possibile allora. Ecco il perché di queste note, delle note che seguiranno.

Alla mia domanda, Mussolini, a sua volta domandò:
“Voi cosa fareste?”.
Debbo aver accennato un gesto istintivo di sorpresa. Mussolini mi toccò il braccio, e sorrise di nuovo: “Non vi stupite. Faccio questa domanda a tutti. Desidero sentire il vostro parere”.
“Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli, armati…”.
“Certo, sarebbe la fine più desiderabile… ma non è possibile fare sempre ciò che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il Cardinale Schuster fa da intermediario. Non sarà versata una goccia di sangue”.

Veramente disse: “Ho l’assicurazione che non sarà versata una goccia di sangue”. “Un trapasso di poteri. Per il governo, il passaggio fino in Valtellina, dove Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po’ di tempo” .
Osai interromperlo: “Vi fidate, Duce, del Cardinale?”.
Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani.
“E’ viscido. Ma non posso dubitare della parola di un Ministro di Dio. E’ la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli italiani”.
“Ma noi vogliamo seguire la vostra sorte…”.
“Dovete ubbidire. La vita dell’Italia non termina in questa settimana o in questo mese. L’Italia si risolleverà. E questione di anni, di decenni, forse. Ma risorgerà, e sarà di nuovo grande, come l’avevo voluta io”.

Dopo una brevissima pausa, continuò:

“Allora sarete ancora utili per il Paese. Trasmetterete ai figli e ai nipoti la verità della nostra idea, quella verità che è stata falsata, svisata, camuffata da troppi cattivi, da troppi malvagi, da troppi venduti e anche da qualche piccola aliquota di illusi”.

Forse Mussolini non disse: “troppi”. Ho l’impressione che dicesse solo: “malvagi e venduti”. Quando rilesse le righe che seguono, le segnò a lato; e fece un gesto con la testa come per farmi comprendere che l’espressione non gli era troppo piaciuta. Tuttavia non la cancellò.

La sua voce aveva i toni metallici che tante volte avevo udito nei suoi discorsi. Poi, con fare più pacato, continuò:
“Dicono che ho errato, che dovevo conoscere meglio gli uomini, che ho perduta la testa, che non dovevo dichiarare la guerra alla Francia e all’Inghilterra. Dicono che mi sarei dovuto ritirare nel 1938. Dicono che non dovevo fare questo, e che non dovevo fare quello. Oggi è facile profetizzare il passato”.
“Ho una documentazione che la storia dovrà compulsare per decidere. Voglio solo dire che, a fine maggio e ai primi di giugno del 1940 se critiche venivano fatte erano per gridare allo scandalo di una neutralità definita ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto. Noi non solo non avremmo avuto alcun compenso; ma saremmo stati certamente, in un periodo di tempo più o meno lontano, invasi e schiacciati”.

Mussolini mi disse di far risaltare che le frasi da lui sottolineate riguardavano i discorsi della gente. Egli stesso sottolineò con segno più forte l’espressione: “La Germania aveva vinto”, con tutto ciò che segue.
“E cosa fa Mussolini? Quello si è rammollito. Un’occasione d’oro così, non si sarebbe mai più ripresentata”. Così dicevano tutti e specialmente coloro che adesso gridano che si doveva rimanere neutrali e che solo la mia megalomania e la mia libidine di potere, e la mia debolezza nei confronti di Hitler aveva portato alla guerra.
“La verità è una: non ebbi pressioni da Hitler. Hitler aveva già vinta la partita continentale. Non aveva bisogno di noi. Ma non si poteva rimanere neutrali se volevamo mantenere quella posizione di parità con la Germania che fino allora avevamo avuto. I patti con Hitler erano chiarissimi. Ho avuto ed ho per lui la massima stima. Bisogna distinguere fra Hitler ed alcuni suoi uomini più in vista…”.

A queste considerazioni Mussolini ne aggiunse varie altre. Questa ad esempio:

“Ho parlato sempre col Führer della sistemazione dell’Europa e dell’Africa. Non abbiamo mai avuto divergenze di idee. Già all’epoca delle trattative per lo sgombero dell’Alto Adige, controprova indiscutibile delle sue oneste e solidali intenzioni, il Führer dimostrò buon volere e comprensione”.
"La sistemazione dell’Europa avrebbe dovuto attuarsi in questo modo:

“L’Europa divisa in due grandi zone di influenza: nord e nord-est influenza germanica, sud, sud-est e sud-ovest influenza italiana. Cento e più anni di lavoro per la sistemazione di questo piano gigantesco. Comunque, cento anni di pace e di benessere. Non dovevo forse vedere con speranza e con amore una soluzione di questo genere e di questa portata?
“In cento anni di educazione fascista e di benessere materiale il Popolo italiano avrebbe avuto la possibilità di ottenere una forza di numero e di spirito tale da controbilanciare efficacemente quella oggi preponderante della Germania.
“Una forza di trecento milioni di europei, di veri europei, perché mi rifiuto di definire gli agglomerati balcanici e quelli di certe zone della Russia anche nelle stesse vicinanze della Vistola; una forza materiale e spirituale da manovrare verso l’eventuale nemico di Asia o di America.

“Solo la vittoria dell’Asse ci avrebbe dato diritto di pretendere la nostra parte dei beni del mondo, di quei beni, che sono in mano a pochi ingordi e che sono la causa di tutti i mali, di tutte le sofferenze e di tutte le guerre.

“La vittoria delle Potenze cosiddette alleate non darà al mondo che una pace effimera e illusoria.
“Per questo voi, miei fedeli, dovete sopravvivere e mantenere nel cuore la fede. Il Mondo, me scomparso, avrà bisogno ancora dell’Idea che è stata e sarà la più audace, la più originale e la più mediterranea ed europea delle idee.

“Non ho bluffato quando affermai che l’Idea Fascista sarà l’Idea del secolo XX. Non ha assolutamente importanza una eclissi anche di un lustro, anche di un decennio. Sono gli avvenimenti in parte, in parte gli uomini con le loro debolezze, che oggi provocano questa eclissi.
Indietro non si può tornare. La Storia mi darà ragione”.

A questo punto Mussolini tacque. Scosse alcune volte la testa come per scacciare un pensiero molesto. Quando, due giorni dopo, gli portai il dattiloscritto di queste dichiarazioni, fece in più punti, specie là ove mi aveva parlato di una forza di trecento milioni di europei, di “veri europei”, alcuni segni di distacco: segni di lapis. Mi disse che avevo dimenticato molte cose importanti. Oggi le ricordo benissimo tutte.

Mussolini parlò della sua presa di posizione nel 1933-’34 fino ai colloqui di Stresa (aprile ’35). Affermò che la sua azione non era stata interamente compresa e tanto meno seguita né dall’Inghilterra né dalla Francia. E soggiunse: “Siamo stati i soli ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania. Mandai le divisioni al Brennero; ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò. Impedire alla Germania di rompere l’equilibrio continentale ma nello stesso tempo provvedere alla revisione dei trattati; arrivare ad un aggiustamento generale delle frontiere fatto in modo da soddisfare la Germania nei punti giusti delle sue rivendicazioni, e cominciare col restituirle le colonie; ecco quello che avrebbe impedito la guerra. Una caldaia non scoppia se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si chiude ermeticamente, esplode. Mussolini voleva la pace e questo gli fu impedito”.

Dopo qualche istante di silenzio ardii chiedergli:
“Avete detto che l’eventuale vittoria dei nostri nemici non potrà dare una pace duratura. Essi nella loro propaganda affermano… “
“Indubbiamente abilissima propaganda, la loro. Sono riusciti a convincere tutti. Io stesso a volte…”.

Mussolini sottolineò la frase: “Io stesso, a volte…” e sorrise. Posò il lapis sul tavolo e sollevò due o tre volte le mani fino all’altezza delle tempie. Poi, parlando lentamente e staccando le sillabe, aggiunse:

“Qualunque cosa detta da loro è la verità. Mi sono chiesto la ragione di questa specie di ubriacatura collettiva. Sapete che cosa ho concluso?”.

Alzò il capo e mi fissò. E proseguì:
“ Ho concluso che ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo…”.
“Ma il colmo è che i nostri nemici hanno ottenuto che i proletari, i poveri, i bisognosi di tutto, si schierassero anima e corpo dalla parte dei plutocrati, degli affamatori, del grande capitalismo”.

Mussolini ha segnato fortemente queste righe. Sono convinto di non aver saputo riferire bene tutto il suo pensiero. Mi disse:

"La vittoria degli alleati riporterà indietro la linea del fronte delle rivendicazioni sociali. La Russia? Il capitalismo di stato russo (credo superfluo insistere sulla parola bolscevismo) è la forma più spinta e meno socialista di un ibrido capitalismo, che si può solamente sostenere in Russia, appoggiato all’ignoranza, al fatalismo e alle storie di cosacchi, che hanno lasciato lo “knut” per il mitra.

Questo capitalismo russo dovrà cozzare fatalmente con il capitalismo anglosassone. Sarà allora che il Popolo italiano avrà la possibilità di risollevarsi e di imporsi.
L’uomo che dovrà giocare la grande carta…”.

“Sarete voi, Duce…”.
“Sarà un giovane. Io non sarò più. Lasciate passare questi anni di bufera. Un giovane sorgerà. Un puro. Un capo che dovrà immancabilmente agitare le idee del fascismo. Collaborazione e non lotta di classe; carta del Lavoro e socialismo; la proprietà sacra fino a che non diventi un insulto alla miseria; cura e protezione dei lavoratori, specialmente dei vecchi e degli invalidi; cura e protezione della madre e dell’infanzia…”.

Mussolini volle sottolineare queste frasi programmatiche.

Mi disse più precisamente: “Onora il padre e la madre”. Depose il lapis col quale segnava le correzioni sul dattiloscritto e si passò una mano sulla fronte. Poi, dopo un attimo di silenzio soggiunse:
“A volte si torna indietro nel tempo. E’ pur grande la nostalgia del tepore sicuro del petto materno”.

E continuò: "assistenza fraterna ai bisognosi; moralità in tutti i campi; lotta contro l’ignoranza e contro il servilismo verso i potenti; potenziamento, se si sarà ancora in tempo, dell’autarchia, unica nostra speranza fino al giorno utopistico della suddivisione fra tutti i popoli delle materie prime che Iddio ha dato al mondo; esaltazione dello spirito di orgoglio di essere italiano; educazione in profondità e non, purtroppo, in superficie come è avvenuto per colpa degli avvenimenti e non per deficienza ideologica.

“Verrà il giovane puro che troverà i nostri postulati del 1919 e i punti di Verona del 1943: freschi e audaci e degni di essere seguiti. Il Popolo allora avrà aperto gli occhi e lui stesso decreterà il trionfo di quelle idee. Idee che troppi interessati non hanno voluto che comprendesse ed apprezzasse e che ha creduto fossero state fatte contro di lui, contro i suoi interessi morali e materiali…”.

Anche qui Mussolini trovò che non avevo detto tutto quanto egli aveva espresso. Nella riga in cui si registravano le sue parole a proposito della utopistica suddivisione delle materie prime fra i popoli della Terra, corresse un errore madornale. Arrossii. Egli se ne accorse e rise.

Poi disse: “Quando vi si incolpa di avere sbagliato, dite pure che Mussolini sbaglia dodici volte al giorno!”. Quindi proseguì:
“Abbiamo avuto diciotto secoli di invasioni e di miserie, e di denatalità e di servaggio, e di lotte intestine e di ignoranza. Ma, più di tutto, di miseria e di denutrizione. Venti anni di Fascismo e settanta di indipendenza non sono bastati per dare all’anima di ogni italiano quella forza occorrente per superare la crisi e per comprendere il vero. Le eccezioni, magnifiche e numerosissime non contano”.
“Questa crisi, cominciata nel 1939, non è stata superata dal popolo italiano. Risorgerà, ma la convalescenza sarà lunga e triste e guai alle ricadute. Io sono come il grande clinico che non ha saputo fare la cura… “.

Qua corresse: “cura”. (Io avevo scritto: diagnosi). Ci pensò su un attimo, poi aggiunse: “la diagnosi era giusta!”.

“…esatta e che non ha più la fiducia dei familiari dell’importante degente. Molti medici si affollano per la successione. Molti di questi sono già conosciuti per inetti; altri non hanno che improntitudine o gola di guadagno. Il nuovo dottore deve ancora apparire. E quando sorgerà, dovrà riprendere le ricette mie. Dovrà solo saperle applicare meglio”.

“Un accusatore dell’ammiraglio Persano, al quale fu chiesto che colpa, secondo lui, aveva l’Ammiraglio: “quella di aver perduto” rispose.

“Così io. Ho qui delle tali prove di aver cercato con tutte le mie forze di impedire la guerra che mi permettono di essere perfettamente tranquillo e sereno sul giudizio dei posteri e sulle conclusioni della Storia”.

Nel dire “ho qui tali prove”, indicò una grande borsa di cuoio. Mi sembra, delle tre, fosse quella di pelle gialla. Poi toccò una cassetta di legno……

“Non so se Churchill è, come me, tranquillo e sereno. Ricordatevi bene: abbiamo spaventato il mondo dei grandi affaristi e dei grandi speculatori. Essi non hanno voluto che ci fosse data la possibilità di vivere. Se le vicende di questa guerra fossero state favorevoli all’Asse, io avrei proposto al Fuhrer, a vittoria ottenuta, la socializzazione mondiale”.

Mussolini sorrise lievemente quando parlò della sua serenità e tranquillità. Sorrise di nuovo quando fece cenno a Churchill. Il sorriso si mutò in una smorfia di disprezzo allorché parlò degli affaristi e degli speculatori.

“La socializzazione mondiale, e cioè: frontiere esclusivamente a carattere storico; abolizione di ogni dogana; libero commercio fra paese e paese, regolato da una convenzione mondiale; moneta unica e, conseguentemente, l’oro di tutto il mondo di proprietà comune e così tutte le materie prime, suddivise secondo i bisogni dei diversi paesi; abolizione reale e radicale di ogni armamento”.

“Colonie: quelle evolute erette a Stati indipendenti; le altre, suddivise fra quei paesi più adatti per densità di popolazione, o per altre ragioni, a colonizzare ed a civilizzare; libertà di pensiero e di parola e di scritto regolate da limiti: la morale, per prima cosa, ha i suoi diritti”.

Mussolini disse precisamente: “Libertà di pensiero, di parola e di stampa? Sì, purché regolata e moderata da limiti giusti, chiaramente stabiliti. Senza di che, si avrebbe anarchia e licenza. E ricordatevi, sopra tutto la morale deve avere i suoi diritti”.
“Ogni religione liberissima di propagandarsi: siamo stati i primi, i soli, a ridare lustro e decoro e libertà e autorità alla Chiesa cattolica. Assistiamo a questo straordinario spettacolo: la stessa Chiesa alleata ai suoi più acerrimi nemici”.

Mussolini aveva dettato: “alla Chiesa”. Poi aggiunse: “cattolica”. Quindi spiegò:

“La Chiesa cattolica non vuole, a Roma, un’altra forza. La Chiesa preferisce degli avversari deboli a degli amici forti. Avere da combattere un avversario, che in fondo non la possa spaventare e che le permetta di avere a disposizione degli argomenti coi quali ravvivare la fede, è indubbiamente un vantaggio”.
Strinse le mani assieme e proseguì:

“Diplomazia abile, raffinata. Ma, a volte, è un gran danno fare i superfurbi. Con la caduta del fascismo, la Chiesa cattolica si ritroverebbe di fronte a nemici d’ogni genere: vecchi e nuovi nemici. E avrebbe cooperato ad abbattere un suo vero, sincero difensore”.

“Nel sud, nelle zone così dette liberate, l’anticlericalismo ha ripreso in pieno il suo turpe lavoro. L’Asino è, in confronto a pubblicazioni di questi ultimi tempi, un bollettino parrocchiale”.
“Anche in questo campo, gli stessi uomini che oggi non vogliono vedere, saranno unanimi a deprecare la loro pazzia o la loro malafede. Se la vittoria avesse arriso a noi, questo programma avrei offerto al mondo e ancora una volta, sarebbe stata Roma a dare la luce all’Umanità”.

A questo punto Mussolini tacque. Si alzò e si avvicinò alla finestra. Avevo cercato di fissare gli appunti nel modo il più esatto possibile, tenendo dietro a mala pena alle sue parole, specie quando la foga del discorso gli faceva affrettare la velocità dell’espressione. Le cartelle erano oramai più di trenta. Finalmente Mussolini si distaccò dalla finestra. Si rivolse di nuovo a me e riprese:

“Mi dissero che non avrei dovuto accettare, dopo l’armistizio di Badoglio e la mia liberazione, il posto di Capo dello Stato e del governo della Repubblica Sociale. Avrei dovuto ritirarmi in Svizzera, o in uno Stato del sud America.
Avevo avuto la lezione del 25 luglio. Non bastava, forse? Era libidine di potere, la mia? Ora chiedo: avrei dovuto davvero estraniarmi?”.

Nell’esemplare del dattiloscritto dell’intervista che gli presentai all’indomani, Mussolini sottolineò energicamente le frasi interrogative.

“Ero fisicamente ammalato. Potevo chiedere, per lo meno, un periodo di riposo. Avrei visto lo svolgersi degli avvenimenti. Ma cosa sarebbe successo?”.
“I tedeschi erano nostri alleati. L’alleanza era stata firmata e mille volte si era giurata reciproca fedeltà, nella buona e nella cattiva a sorte. I tedeschi, qualunque errore possano aver commesso erano, l’otto settembre, in pieno diritto di sentirsi e calcolarsi traditi”.

“I “traditori” del 1914 erano gli stessi del 1943. Avevano il diritto di comportarsi da padroni assoluti. Avrebbero senz’altro nominato un loro governo militare di occupazione. Cosa sarebbe successo? Terra bruciata. Carestia, deportazioni in massa, sequestri, moneta di occupazione, lavori obbligatori. La nostra industria, i nostri valori artistici, industriali, privati, tutto sarebbe stato bottino di guerra”.

“Ho riflettuto molto. Ho deciso ubbidendo all’amore che io ho per questa divina adorabile terra. Ho avuta precisissima la convinzione di firmare la mia sentenza di morte. Non avevo importanza più. Dovevo salvare il più possibile vite ed averi, dovevo cercare ancora una volta di fare del bene al Popolo d’Italia E la moneta di occupazione, i marchi di guerra, che già erano stati messi in circolazione, sono stati per mia volontà ritirati. Ho gridato. Oggi saremmo con miliardi di carta buona per bruciare”.

“Invece nel Sud, i governanti legali, hanno accettato le monete di occupazione. La nostra lira nel regno del Sud non ha praticamente più valore. La più tremenda delle inflazioni delizia quelle regioni così dette liberate. Quando arrivammo nel Nord, in questo Nord che la Repubblica Sociale ha governato malgrado bombardamenti, interruzioni di strade, azioni di partigiani e di ribelli, malgrado la mancanza di generi alimentari e di combustibili, in questo Nord dove il pane costa ancora quanto costava diciotto mesi fa e dove si mangia alle Mense del Popolo anche a otto lire, quando arriveranno a liberare il Nord, porteranno, con altri mali, la inflazione. Il pane salirà a 100 lire il chilo e tutto sarà in proporzione…”.

Credo di aver qui reso abbastanza bene il pensiero di Mussolini perché all’indomani, rileggendo queste cartelle egli approvava con frequenti cenni del capo.

“Mi sono imposto e ho avuto uomini che mi hanno ubbidito. Non si è stampato che il minimo occorrente, di moneta. Ho però autorizzato le banche ad emettere degli assegni circolari, questi tanto criticati assegni. Non sono tesaurizzabili: ecco la loro importanza. La lira-moneta automaticamente viene richiesta, acquista credito, le rendite e i consolidati sono a 120, e dobbiamo frenare un ulteriore aumento. Tutto questo, ho fatto”.
“Ho impedito che i macchinari venissero trasportati in Baviera. Ho cercato di far tornare migliaia di soldati deportati, di lavoratori rastrellati. Anche su questo punto, occorre parlar chiaro: ho dei dati inoppugnabili”.

“Oltre trecentosessantamila lavoratori hanno chiesto volontariamente di andar a lavorare in Germania, e hanno mandato, in quattro anni, alcuni miliardi alle famiglie. Altri trecentoventimila operai sono stati arruolati dalla Todt. ( Dalla Germania sono tornati oltre quattrocentomila soldati ed ufficiali prigionieri, o perché hanno optato per noi, o per mio personale interessamento secondo i casi più dolorosi”.

“Ho impedito molte fucilazioni anche quando erano giuste. Ho cercato, con tre decreti di amnistia e di perdono di procrastinare il più possibile le azioni repressive che i Comandi germanici esigevano per avere le spalle dei combattenti protette e sicure. Ho distribuito a povera gente, senza informarmi delle idee dei singoli, molti milioni. Ho cercato di salvare il salvabile. Fino ad oggi l’ordine è stato mantenuto: ordine nel lavoro, ordine nei trasporti, nelle città”.

“I ribelli ci sono. Sono molti; ma, salvo qualche aliquota di illusi, la grande massa è composta di renitenti, di disertori, di evasi dalle galere e dai penitenziari. Gli alleati sanno perfettamente questo, ma sanno anche che queste formazioni sono utilissime per i loro sforzi di guerra. Poi, a liberazione avvenuta, succederà come in Grecia. Sul vostro giornale avete messa in giusta evidenza la disperata trasmissione dei partigiani greci in lotta contro i liberatori inglesi”.

"Era stata captata una radiotrasmissione clandestina di partigiani greci in lotta contro i britannici. Detti risalto alla notizia, e feci distribuire alcune migliaia di copie del giornale nelle zone partigiane. “Dovevo, di fronte ad una situazione che vedevo tragicamente precisa, disertare il mio posto di responsabilità? Leggete: sono i giornali del Sud. Mussolini prigioniero dei tedeschi. Mussolini impazzito. Mussolini ammalato. Mussolini con la sua favorita. Mussolini con la paralisi progressiva. Mussolini fuggito in Brasile”.

Mussolini mi mostrava i ritagli. Ne leggeva i titoli ad alta voce. Ogni volta, dopo aver scandito le sillabe di ogni titolo, sollevava gli occhi per vedere la mia reazione. Poi strinse il pugno e lo batté con energia sul tavolo.

“Invece sono qui, al mio posto di lavoro, dove mi troveranno i vincitori. Lavorerò anche in Valtellina. Cercherò che il mondo sappia la verità assoluta e non smentibile di come si sono svolti gli avvenimenti di questi cinque anni. La verità è una”.

“Ma c’è è ancora una speranza? Ci sono le armi segrete?”.

“Ci sono. Se non fosse avvenuto l’attentato contro Hitler nell’estate scorsa, si avrebbe avuto il tempo necessario per la messa in azione di queste armi. Il tradimento anche in Germania ha provocato la rovina, non di un partito, ma della patria”.

E quando pronunciò la parola “tradimento” esclamai: “Ma noi vi siamo stati e vi saremo sempre fedeli”. Egli, allora, mi pose la mano sul braccio e mi disse con accento triste:


“Quanti giuramenti! Quante parole di fedeltà e di dedizione! Oggi solo vedo chi era veramente fedele, chi era veramente fascista! Siete voialtri, sempre gli stessi fedeli delle ore belle e delle ore gravi. Facile era osannare nel 1938!
Ho una tale documentazione di persone che non sapevano più che fare per piacermi! E al primo apparire della tempesta, prima si sono ritirati prudentemente per osservare lo svolgersi degli avvenimenti. Poi si sono messi dalla parte avversaria. Che tristezza.
Ma che conforto, finalmente, poter vedere che vi sono i puri, i veri, i sinceri. Tradire l’idea… tradire me… ma tradire la Patria”.

Quindi, proseguendo a parlare delle armi segrete tedesche, dichiarò:
“Le famose bombe distruttrici sono per essere approntate. Ho, ancora pochi giorni fa, avuto notizie precisissime. Forse Hitler non vuole vibrare il colpo che nella assoluta certezza che sia decisivo”.

“Pare che siano tre, queste bombe e di efficacia sbalorditiva. La costruzione di ognuna è tremendamente complicata e lunga. Anche il tradimento della Romania ha influito, in quanto la mancanza della benzina è stata la più terribile delle cause della perdita della supremazia aerea. Venti, trentamila apparecchi fermi o distrutti al suolo. Mancanza di carburante. La più tremenda delle tragedie”.

“Duce, pensate che inglesi e americani possano vedere i russi arrivare nel cuore dell’Europa? Non sarà possibile una presa di posizione…?”.

“I carri armati che penetrano nella Prussia Orientale sono di marca americana”.

A questo punto Mussolini volle precisare che non riteneva, oramai, più possibile sperare in un capovolgimento del fronte. Disse anche: “Forse Hitler si illude”. Poi aggiunse: “Eppure, si sarebbe ancora in tempo, se …”. Alzò le sopracciglia, fece un ampio gesto con le mani, come per farmi capire: “Tutto è possibile”. Quindi riprese: “Il compito degli alleati è di distruggere l’Asse. Poi…”.

“Poi?”. “Ve l’ho detto. Scoppierà una terza guerra mondiale. Democrazie capitalistiche contro bolscevismo capitalistico. Solo la nostra vittoria avrebbe dato al mondo la pace con la giustizia. Mi hanno tanto rinfacciata la forma tirannica di disciplina che imponevo agli italiani. Come la rimpiangeranno. E dovrà tornare se gli italiani vorranno essere ancora un Popolo e non un agglomerato di schiavi” .
“E gli italiani la vorranno. La esigeranno. Cacceranno a furor di popolo i falsi pastori, i piccoli malvagi uomini asserviti agli interessi dello straniero. Porteranno fiori alle tombe dei martiri, alle tombe dei caduti per un’idea che sarà la luce e la speranza del mondo. Diranno, allora, senza piaggeria, e senza falsità: Mussolini aveva ragione”.

Mussolini a questo punto prese le cartelle dove avevo messo gli appunti.
“Non farete un articolo. Riprendete da questi appunti quello che vi ho detto. Dopodomani mattina mi porterete il dattiloscritto. Se ne avrò tempo riprenderemo fra qualche giorno questo lavoro”.
Dissi al Duce che in anticamera era il mio redattore capo, già direttore di un settimanale di Brescia. Mussolini lo fece chiamare. Rimanemmo ancora dieci minuti in udienza.

Ho terminato stanotte, 21-22 aprile queste note, che porterò domani al Duce. Per mancanza di carta, ho dovuto scrivere le ultime quattro cartelle al rovescio delle prime quattro.

Spero di aver interpretato il pensiero del Duce.
Terminata la dettatura entrò il redattore capo sottotenente Lucarini. Mussolini si intrattenne con noi ridendo e scherzando per circa un quarto d’ora. Quando uscimmo nell’anticamera, fummo circondati da gerarchi e camerati. Vittorio Mussolini volle vedere la fotografia. Mezzasoma disse: “E’ ben raro che egli scriva delle dediche così”.

Dopo di che mi accinsi al lavoro. Lavorai tutta la notte al giornale. Quel numero del 21 aprile, però, non uscì più. La notte seguente misi in ordine gli appunti. Lavorai come potei. Tre allarmi aerei; tre volte la luce si spense. La mattina del 22, alle 11, tornai in Prefettura. Mussolini era fuori.

Fece ritorno alle 12,40. Attraversò l’anticamera con passo rapido. Rispose con aria stanca ai nostri saluti. Quando fu sulla soglia della sua stanza da lavoro, si voltò e mi fece cenno di attendere.

Barracu, dopo una decina di minuti, mi introdusse da lui. Stava mangiando. Avevano portato un “cabaret” con una zuppiera. Sorbì alcune cucchiaiate di minestra. Mangiò un po’ di verdura, un pezzettino di lesso, due patate e una carota bollita. Poi una mela. Bevve due dita di acqua minerale. Quindi si volse verso di me, e mi disse:

“Fatemi vedere il vostro lavoro”.

Scostò delle carte. Lesse con attenzione, lentamente. Il suo volto aveva visibili tracce di stanchezza. Alla distanza di sole quarantott’ore, sembrava molto invecchiato. Corresse e tracciò molti segni, come risulta dal dattiloscritto. Alla fine mi disse: “Non avete detto tutto. Avete rimpicciolito la mia idea. Ne riparleremo…”. Ci rivedremo forse in questi giorni. Qualunque cosa accada, non fate vedere ad alcuno questo scritto. Se dovesse accadere il crollo, per tre anni tenetelo nascosto. Poi fate voi, secondo le vicende e secondo il vostro criterio. Ora andate”.

Salutai senza poter dire una parola. Mi sorrise e fece un gesto di arrivederci.
Invece, non ci fu più né tempo e né modo di rivederci. Pochi giorni dopo, fu Dongo, fu l’esecuzione, fu Piazzale Loreto.

Uscii dalla Prefettura con l’animo in tumulto. Non dovevo più rivederlo.
Milano, 22 aprile 1945.
FINE
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(INTERVENTO DI UNO STORICO dall'Inghilterra)
Sono uno storico inglese, e ho scoperto questo sito assolutamente per caso, e lo trovo interessantissimo.
Per quanto riguarda la fine di Mussolini, ed in particolare il presunto contenuto dell'incarto "Churchill", devo dire che non sono stato per niente sorpreso delle conclusione alle quali siete arrivato: ero arrivato a conclusioni quasi identiche dopo aver analizzato il libro di Anthony Cave-Brown "Bodyguard of Lies". In esso appresi per la prima volta l'esistenza del piano "Jael", che diventa poi "Bodyguard", destinato a confondere i Tedeschi per quanto riguarda le intenzioni alleate in Europa.

Questo incredibile tessuto di inganni, disinformazione, manipolazione e doppio giuoco era controllato a Londra dal segretissimo LCS, London Controlling Section, che faceva parte del gabinetto di guerra di Churchill, e perciò dotato di poteri assoluti. Molto si è detto sul piano "Fortitude", facente parte di "Bodyguard" per distrarre i Tedeschi in Francia in preparazione dello sbarco in Normandia, ma poco o niente fú scritto prima sul piano "Zeppelin", che facendo parte anche questo di "Bodyguard", aveva per scopo di far credere ai tedeschi che gli alleati intendevano invadere l'Europa attraverso i Balcani.

Che Mussolini sia stato una pedina piú o meno cosciente in questo piano non sembra troppo improbabile. Ma la cosa che mi sono sovente chiesto sull'assassinio di Mussolini e il perché... Perché il PCI doveva ucciderlo? Difatti, finito in mani Italiane, Mussolini era da considerarsi quasi certamente fucilato, non per vendetta politica, non per il fascismo, ma per alto tradimento, in quanto egli aveva, accettando di collaborare nella RSI, tradito il Re.
Dunque perché un uomo dal sangue freddo come Togliatti, che più tardi sarà anche capace di scrivere a Stalin per sconsigliargli di liberare i prigionieri di guerra italiani affinché essi non possano dare una vera immagine dell'URSS agli altri italiani (chissà poi perché...) si sente il dovere di mandare una squadra di "killers" per liquidare un uomo che non ne ha più per molto?

Certamente non per vendetta. Ubbidiva questa squadra a ordini, ma ordini di chi, e perché? A qualcuno premeva dunque che Mussolini non potesse "cantare"; ma di che razza di segreti poteva essere il detentore? Certo non interessava a nessuno un accidente di sapere quello che Mussolini aveva fatto a Salò. Diverso (ma molto diverso) era invece di sapere quello che aveva fatto prima, in particolare negli anni immediatamente prima della guerra, come pure nei primi anni di guerra.
E' un fatto storico che Mussolini si sia schierato in un primo tempo contro la Germania di Hitler...
(Mentre Hitler iniziava la "sua" guerra, Mussolini, sui valichi dell'Alto Adige, proseguiva le imponenti fortificazioni, costruiva e riempiva di reggimenti le caserme altoatesine; e le relazioni di Ciano sul capopopolo Hofer (sul piede di guerra con 250.000 altoatesini in armi, tutti in attesa di Hitler) preoccupavano non poco Mussolini. - Ndr.)

...come pure é storico il fatto che le potenze dell'epoca, Francia ed Inghilterra, gli negarono il concorso necessario per causa di miopia acuta, che non solo non volevano capire che Hitler era un pericolo gravissimo, ma anche dovevano punire l'Italia "cattiva" che aveva cacciato quel povero pirata terrestre, Haile Selassié.

Comunque, se Churchill poteva essere imbarazzato da rivelazioni, perché furono allora i comunisti ad ucciderlo? Con quelli Mussolini non era mai stato amico. A meno che.... durante la guerra Mussolini non abbia fatto il gioco degli Inglesi, e partecipando a "Bodyguard" nei Balcani, avrebbe potuto imbarazzare sia Churchill che Stalin.

Saluti, JEAN-CLAUDE).

 

 

Ma ci fu anche un'altra intervista:

per molti del tutta sconosciuta. E ' di Ivanoe Fossani, uno degli ultimi giornalisti che erano rimasti a Salò.
I due uomini sull' isoletta Trimelone, cominciarono a parlare senza che nessuno potesse ascoltarli. Fu l’ultima intervista del Duce.
Fossani la pubblicò solo nel 1952 con il titolo "Soliloquio".
Qui ne facciamo un estratto integrale, di una edizione fuori commercio (Livio Parisi (a cura di). Sotto le stelle sull’isola di Trimelone. Prefazione di Marcello Veneziani).

 

L'intervista inizia così, in perfetto stile mussoliniano:

«Ah! Ero stufo, sono stufo, sarò stufo della continua sorveglianza. Sono anni che, ad ogni passo, trovo una faccia che mi spia. Con la scusa della protezione sono costretto a far sapere ad altri quello che faccio».
Mussolini è riuscito a sfuggire al controllo delle SS per poco tempo, se ne compiace e lo utilizza per fare un bilancio della sua vita pubblica con l’amico giornalista Ivanoe.

«Le noie del potere sono due: dover trattare con ogni sorta di imbecilli ed essere controllato anche nelle cose intime. È una prigione dorata. I secondini si inchinano al tuo passaggio ma ti tengono in loro possesso. Hitler si è assunto l’incarico di farmi da scudo contro i ‘traditori’ italiani, ma intanto i miei gesti e le mie parole gli sono riferiti giorno per giorno. Anche quando ricevo i tedeschi mi ascoltano. Lo so di sicuro. La protezione è un aspetto legale dello spionaggio».

Poi incominciano la riflessioni sulla sua esperienza politica:

«Io non ho creato il fascismo: l’ho tratto dall’inconscio degli italiani. Se non fosse stato così non mi avrebbero seguito tutti per vent’anni, dico tutti, perché un esigua minoranza, addirittura microscopica non può avere alcun peso. I gesti, i riti e le divise introdotti nella vita della nazione mi vennero imputati come una personale mania di grandezza. Personalmente mi avrebbero lasciato indifferente se non fossi stato sicuro di compiacere al senso pittoresco degli italiani… Mutevolissimo è lo spirito degli italiani. Quando io non sarò più, sono sicuro che gli storici e gli psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent’anni un popolo come quello italiano. Se non avessi fatto altro basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell’oblio. Altro potranno dominare col ferro e col fuoco, ma non con il consenso come ho fatto io».

«La mia dittatura è stata assai più lieve che non certe democrazie in cui imperano le plutocrazie. Il fascismo ha avuto più morti degli avversari e il 25 luglio al confino non c’erano più di 30 persone. Io non ho soppresso nessuna libertà, tranne la licenza che turba, corrompe e intacca il sistema nervoso della società. Con il fascismo i lavoratori hanno ottenuto le otto ore, alti salari, continuità del lavoro, provvidenze assistenziali, ferie annuali, gite dopolavoristiche, magistrature apposite mentre i suoi figli più delicati venivano inviati nelle colonie montane o marine. Quando si afferma che noi siamo la guardia bianca della borghesia si afferma la più spudorata delle menzogne. Io ho difeso, e lo affermo con piena coscienza, il progresso dei lavoratori più di quanto non fosse consentito dalla non lieta situazione del capitale italiano, che non è, non bisogna mai dimenticarlo, né quello americano né quello inglese… Tutti i dittatori hanno fatto strage dei loro nemici. Io sono il solo ad essere in passivo: tremila morti contro qualche centinaio. Credo di aver nobilitato la dittatura…
La gente del lavoro è infinitamente superiore a tutti i falsi profeti che pretendono di rappresentarla… Per questo sono stato e sono socialista…
Noi combattiamo per imporre una più alta giustizia sociale. Gli altri combattono per mantenere i privilegi di casta e di classe. Noi siamo le nazioni proletarie che insorgono contro i plutocrati. Non può durare l’assurdo delle carestie artificiosamente provocate. Esse denunciano la clamorosa insufficienza del sistema».

«Tra le cause principali del tracollo del fascismo, io pongo la lotta sorda e implacabile di taluni gruppi industriali e finanziari, che nel loro folle egoismo temevano e odiano il fascismo come il peggior nemico dei loro inumani interessi. E furono gli altri gruppi consimili sparsi per il mondo a inscenare un’oscura gazzarra e a premere con tutti i loro mezzi sui rispettivi governi il giorno in cui, stanco di vedere il sudore degli italiani sfruttato esosamente con dazi doganali e col gioco pitagorico del cambio monetario, iniziai il regime dell’autarchia. L’umile gente del lavoro mi ama e mi ha sempre amato».

A questo punto cominciano intriganti considerazioni geopolitiche:

«Anche l’Inghilterra sconterà il suo egoismo. Finirà per perdere il suo impero coloniale e diverrà un semplice ponte di congiunzione tra l’America e l’Europa continentale».
Profezia di una precisione impressionante.

L’analisi che segue è solo parzialmente nota, e cioè che lui aveva cercato in tutti i modi un accordo con Inghilterra e Francia ma che era stato rifiutato. Solo quando non c’era più nulla da fare si era legato alla Germania:

«Se l’Inghilterra, invece di mandare la cavalleria di San Giorgio a creare zizzanie e odi insanabili, avesse fuso l’Europa in un blocco di ideali e di interessi, la nostra posizione sarebbe stata inattaccabile. Non ha capito che l’ora dei piccoli e spesso meschini interessi particolari è passata e che i problemi nazionali si sono fatti continentali. Prima di stringere il Patto d’acciaio ho tentato tutte le vie per trovare un’intesa con l’altra parte. Alla Francia ho ceduto per sempre Tunisi come primo segno di concordia. Avevo chiesto la sicurezza del pane per il mio popolo ma anche questo mi è stato negato. L’Inghilterra non ci ha voluti. Voleva la nostra neutralità e i nostri porti a sua disposizione e tutto questo, cioè l’ipoteca dell’avvenire e la nostra dignità, per un misero piatto di lenticchie. Quando ho visto che non c’era nulla da fare, mi sono legato con la Germania… La politica inglese è diabolica. Se ne accorgeranno gli americani quando si affacceranno alla politica europea. Nel momento in cui saranno impegnati nell’inevitabile duello mortale con la Russia, o cederanno al nodo scorsoio dell’Inghilterra o l’Inghilterra si alleerà con la Russia».

La politica inglese era, ed era sempre stata in Europa, divide et impera. L’Inghilterra sapeva di non avere la forza di dominare le nazioni europee, neppure singolarmente prese, e quindi aveva sempre cercato di dividerle, di metterle le une contro le altre, da secoli. Adesso Mussolini le chiedeva un colpo d’ala: abbandonare la sua politica secolare per farsi carico di una specie di Europa Unita insieme alla Germania. Che fosse una visione utopistica è il minimo che si possa dire.
Ma, in ogni caso, in tali considerazioni, vi è la lucida previsione di Mussolini di quello che sarebbe successo dopo la guerra: il tentativo di creare un’Europa Unita per porla sullo stesso piano di Stati Uniti e Russia, unendo insieme Germania, Francia, Italia e Inghilterra.
Tentativo lodevole ma che si è rivelato di ardua realizzazione. E che, oggi con l’uscita dell’Inghilterra dall’Unione, è da considerarsi definitivamente tramontato.
Infatti oggi l’Inghilterra, perso il suo impero coloniale e fallito il progetto di unione europea, è solo un’appendice degli Stati Uniti, come lucidamente aveva previsto il Duce più di 70 anni fa.
Se l’Inghilterra avesse dato ascolto al Duce, cioè si fosse fatta carico di creare un’Europa comune con la Germania, l’Italia e la Francia fin dagli anni ‘30, il mondo sarebbe stato diverso? Certamente sì. Ma avrebbe dovuto rinunciare per prima al suo impero, ai suoi privilegi, alla sua strategia di sempre per un’impresa del tutto ipotetica e molto probabilmente fallimentare, come poi si è rivelata. Il mondo non funzionava così.

Ma le considerazioni di Mussolini sul futuro non sono finite:

«Adesso gli Alleati sembrano disposti a distruggere la Germania ma chi fermerà la Russia? La Russia è a Berlino prima degli altri e una volta in possesso dell’Europa centrale non vedo chi la possa far sloggiare».

«I trattati di pace? Le armi segrete? I trattati li detta sempre il più forte e il segreto di uno non può impedire il segreto di un altro. Se lo stesso errore si commettesse per il Giappone, la Cina sfilerebbe in parata davanti ad un maresciallo bolscevico. E l’India cosa farebbe? Cosa farebbero gli altri Dominions? Cosa sarebbe del mondo intero? È mai possibile che l’America e l’Inghilterra non vedano un pericolo così grande? Hanno forse in mano l’esercito russo? Hanno pronta la mina da far scoppiare sotto il Cremlino?».


Altro che profezia, questa è una fotografia di quello che è successo nei decenni successivi. Impressionante non solo la lucidità con cui viene descritta la Guerra Fredda e la principale arma segreta, la bomba atomica. Sì l’Amerca ci era arrivata per prima ma ‘il segreto di uno non può impedire il segreto di un altro’ e la Russia ci era arrivata poco dopo.

Azzeccata in pieno anche la vittoria finale di Mao contro i nazionalisti in Cina, dopo la distruzione del Giappone, come si era fatto con la Germania. Ma limpida anche la visione del mondo attuale dove America e Inghilterra, ormai in declino, non hanno più il controllo di un mondo multipolare, con Russia, Cina e India ormai allo stesso livello di America e Europa.

Dopo di che inizia una fredda analisi sul perché la guerra è stata perduta. Non sapremo forse mai se le cose siano andate come le descrive Mussolini ma la verosimiglianza è elevata. La guerra è perduta per gli errori dei tedeschi che non hanno seguito i suoi suggerimenti. Ma ascoltiamo le sue trancianti parole.

«Chi dice che ho sbagliato ha il dovere di dimostrare come si sarebbe potuto fare meglio. Io sono sempre pronto ad ammettere i miei errori. Non ho mai pensato di essere infallibile. Anche in questa guerra ho sbagliato ma meno degli altri (sic!). I tedeschi non mi hanno ascoltato e hanno fatto male. Hitler, che è il solo che mi stimi sinceramente, non ha voluto portare subito, come io intendevo, il centro della guerra nel Mediterraneo. Prese Malta e Gibilterra saremmo stati padroni del nostro mare e la Spagna, la Turchia e l’Egitto sarebbero venuti con noi, l’Africa sarebbe passata sotto il nostro controllo e l’Etiopia non sarebbe caduta. Inoltre avremmo tenuto lontana migliaia di chilometri la minaccia aerea».

In effetti il Duce aveva pensato di attaccare Malta anche prima dell’inizio della guerra, fin dai tempi della sanzioni sull’Etiopia, dato che la flotta italiana era più forte di quella inglese di stanza nel mediterraneo. Fu dissuaso, oltre che da Hitler, anche dai suoi generali. Il sogno di dominare il Mediterraneo però con un esercito italiano che non fu capire di domare da solo neppure la Grecia, deve aver fatto pensare ai tedeschi che non era il caso di lanciarsi in avventure velleitarie.

«Io ero contrario all’attacco contro la Russia. Al posto del Fuhrer mi sarei fatto aggredire e sarei rimasto sulla difensiva. Avrei sfruttato il vantaggio morale di essere tradito e quello materiale di logorare il nemico. Hitler è caduto nella trappola di Stalin che è lo statista più furbo e più abile del mondo perché ha una direzione sola».

Col vantaggio morale di essere l’aggredito ci si può fare poco ma è vero che la Russia non si è mai avventurata profondamente nel cuore dell’Europa di sua spontanea volontà. Forse Stalin non sarebbe riuscito a far ingoiare ai russi 25 milioni di morti per una guerra di pura aggressione. Sì, attaccare la Russia fu, sempre col senno di poi, davvero sconsiderato. Comunque Mussolini era convinto che lo scontro con la Russia fosse inevitabile, che il patto Molotov-Ribbentrop era destinato ad essere violato da uno dei due firmatari, ma che era meglio difendersi che attaccare. Interessante l’apprezzamento su Stalin, il più furbo di tutti.

«Io ero sicuro dell’intervento americano, perché lo sviluppo storico ed economico dell’America lo esigeva. Vittoriosa, l’America balza alla testa del mondo, superando la sua antica dominatrice…»
Sembra una considerazione dei moderni geopolitici alla Brzezinski, inappuntabile. Se Pearl Harbour non fosse accaduta si sarebbe dovuta inventare perché lo sviluppo storico ed economico dell’America lo esigeva. Il mezzo-secolo americano cominciò qui e il Duce lo aveva visto lucidamente.

«I tedeschi hanno sparso le loro, e anche le nostre forze, su un arco troppo vasto. Bisognava invadere l’Inghilterra e non curarsi troppo delle molestie di poco conto. Si poteva. Invece Hitler ha avuto paura della Russia che, all’attacco, lontana migliaia di chilometri dalle basi di riferimento, non avrebbe rappresentato una minaccia allarmante. Non ha capito che o si vinceva così o la guerra sarebbe stata perduta, perché il fattore tempo era a nostro svantaggio. L’Inghilterra in piedi significava l’appiglio per l’entrata in campo dell’America…»

Non sappiamo davvero quanto Mussolini avesse insistito con Hitler per attaccare l’Inghilterra. Anche qui, con il senno di poi, la frase è convincente perché il tempo giocava contro le forze dell’Asse. Ma lo sapevano anche gli altri.

«Ma la verità vera è che Hitler, noncurante della forza di difesa del colosso russo, ancora intatto, aveva un sacro rispetto per l’Inghilterra e non voleva umiliarla, nella speranza di averla alleata nella sistemazione dell’Europa. Le offerte di pace fattele dopo Dunkerque erano tali da soddisfare non solo gli interessi degli inglesi ma anche il loro orgoglio. Hitler è duro, qualche volta feroce, eppure ha degli abbandoni sentimentali da lasciare stupiti. Hess non ha tradito, né soggiaciuto ai capricci dei nervi. È andato in Inghilterra a compiere una missione che aveva l’aspetto dell’isterismo. I capi inglesi, che hanno tutti i nervi di quel vecchio leone di Churchill, hanno capito e giocato sulla psicologia».

Non c’è dubbio che se la Russia fosse rimasta fuori dalla guerra le cose sarebbero andate diversamente. E non c’è dubbio che se le l’Inghilterra avesse accettato i negoziati di pace le cose sarebbero, anche qui, andate diversamente. Ma non è successo.
Intrigante il concetto che la guerra è stata persa per il complesso di inferiorità di Hitler nei confronti degli inglesi e non per fattori di pura forza geopolitica.
Ma, se questa fosse stato il suo pensiero anche prima degli avvenimenti, perché Mussolini non aveva fatto nulla per evitare una sconfitta certa e aveva pedissequamente seguito l’alleato tedesco? Forse perché le sue armate erano di cartapesta e non aveva quindi nessuna autorità e nessuna autonomia? In quelle condizioni dare illuminati consigli all’alleato tedesco, dopo la figuraccia con la Grecia, era forse un po’ ridicolo e Mussolini, rassegnato, sembra saperlo.
E’ storicamente documentato che Hitler lo avvertì di aver invaso la Russia a cose fatte ma ciò avrebbe potuto essere un buon motivo per restarne fuori.
Molto interessante la conferma che la misteriosa missione di Hess in Inghilterra era un tentativo di lanciare trattative di pace.

Ma eccoci alla più sconvolgente rivelazione del Soliloquio:

«Ma io la guerra avrei potuto vincerla ugualmente se fossi stato meno sensibile al rispetto umano. Se fossi stato un dittatore come amavano definirmi gli ignobili pennaioli stranieri, anime perdute nelle mani dei falsari della storia, e come spesso mi rimproveravo di non essere, avrei obbligato Marconi, magari con la tortura, a consegnarmi la sua scoperta, la più grande di questo secolo. Quando io ho detto al mondo che se l’Italia fosse stata costretta a prendere le armi avrebbe sorpreso per il suo genio inventivo, non bluffavo. Io non ho mai bluffato. Ho alzato spesso la posta, ma mai ho puntato alla cieca sulla carta della fortuna. Là dove non avevo la forza avevo la certezza politica…

A cose fatte un ambasciatore mi disse che avevo sfidato l’Inghilterra con un due di bastoni. Lo stesso ambasciatore, dopo il discorso delle ‘armi strabilianti’, andò da Ciano a dire che se avessi posseduto realmente quelle armi mi sarei ben guardato bene dal farlo sapere. Invece io lo dicevo per frenare gli stimoli alla guerra, di questa stramaledetta guerra, che io sentivo avvicinarsi col passo felpato dei criminali.

Se quel diplomatico fosse stato con me ad assistere agli esperimenti di Marconi sarebbe rimasto di sasso. Sulla strada di Ostia, ad Acilia, Marconi ha fermato i motori delle automobili, delle motociclette e dei camion. Nessuno sembrava rendersi conto dell’improvviso guasto e poterono ripartire soltanto quando lo volle il grande inventore. L’esperimento venne ripetuto sulla strada di Anzio, con i medesimi risultati. Ad Orbetello, due apparecchi radiocomandati vennero incendiati a oltre duemila metri di altezza. Marconi aveva scoperto il ‘raggio della morte’ e lo aveva perfezionato in modo da poterlo usare con discreta facilità e con una spesa relativamente modesta. Col ‘raggio della morte’ si sarebbe andati in capo al mondo nel giro di tre mesi. Quando parlai ero sicuro di quello che dicevo. Senonché Marconi, che negli ultimi tempi era diventato religiosissimo, ebbe uno scrupolo di carattere umanitario e chiese consiglio al Papa, e il Papa lo sconsigliò di rivelare una coperta così micidiale. Marconi, turbatissimo, venne a riferirmi sul suo caso di coscienza e sull’udienza papale. Io rimasi esterrefatto. Gli dissi che la scoperta poteva essere fatta da altri e usata contro di noi, contro il suo popolo, quindi; che io non gli avrei usato nessuna violenza morale, preferendo che risolvesse da solo il suo caso di coscienza, sicuro che i suoi profondi sentimenti di italianità avrebbero avuto il sopravvento. Pochi giorni dopo Marconi ritornò e sul suo viso erano evidenti i segni di una tremenda lotta interiore tra i due sentimenti, religioso e patriottico. Per rasserenarlo lo assicurai che il ‘raggio’ non sarebbe stato usato se non come estrema risoluzione. Il grande scienziato se ne andò barcollando. Io avevo ancora fiducia di poterlo convincere gradatamente dell’assurdità della sua posizione. Infatti lo scienziato non può essere responsabile del cattivo uso che si può fare della sua invenzione. Invece Marconi moriva improvvisamente, forse di crepacuore. Da quel momento temetti che la mia stella incominciasse a spegnersi».

Marconi aveva inventato un’arma che avrebbe cambiato le sorti della guerra? Detta così sembrerebbe un’affermazione di un folle, di un uomo ormai uscito di senno. Forse il giornalista aveva capito male, o si era inventato qualcosa.
Ma le cose non sono così semplici. Chi frequentava Mussolini negli ultimi giorni riferiva che non finiva mai di recriminare sull’arma marconiana (Denis Mack Smith, Mussolini, BUR. 1981).

Vi è poi la testimonianza indipendente di Rachele Mussolini che conferma tutto, in un suo libro di memorie di molto posteriore (Rachele Mussolini. Mussolini privato. Rusconi.1980).
E vi sono anche una infinita quantità di ‘pizzini’ dei servizi segreti dell’epoca, sia italiani che non, che citavano il Raggio della Morte di Marconi con grande preoccupazione (Marc Raboy. Marconi, the man who networked the world. Oxford University Press. 2016).
No, Ivanoe Fossani non aveva capito male. Questo è ciò che disse veramente Mussolini nei suoi ultimi giorni. E la cosa ha del clamoroso.

In ultimo la previsione della sua fine:

«Quando muta il vento della fortuna, la massa cambia direzione alle vele. Ma il vento della fortuna è assai mutevole e cambia per tutti. Il giudizio di oggi non conta. Conterà quello di domani, a passioni sopite, a confronti stabiliti. vent’anni di fascismo nessuno potrà cancellarli dalla storia d’Italia. Non ho alcuna illusione sul mio destino. Non mi processeranno perché da accusato diverrei pubblico accusatore. Probabilmente mi uccideranno e poi diranno che mi sono suicidato, vinto dai rimorsi. Chi teme la morte è vissuto anche troppo».
Previsioni corrette a parte il fatto che la rabbia che aveva suscitato non prevedeva un’uscita di scena soft, come un finto suicidio, ma solo una vendetta pubblica, la più eclatante possibile.

Chi volesse leggere l’edizione integrale quett'ultima intervista di Mussolini può fare riferimento a: Livio Parisi (a cura di). Sotto le stelle sull’isola di Trimelone. Ed. fuori commercio. 2015, prefazione di Marcello Veneziani.

 

 

 

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